La storia è quella di Viktor Navorsky (interpretato con genio da Tom Hanks) che atterra a New York poco dopo che un colpo di stato ha rovesciato il governo del suo paese d'origine, la Krakozhia, repubblica di fantasia nata dalla frantumazione dell'Unione Sovietica. Ai controlli, Viktor rimane impigliato in una maglia di processi burocratici che non lo vedono più come cittadino della Krakozhia e lo obbligano a rimanere confinato nell'aeroporto Kennedy di New York: non potrà tornare in patria e neppure entrare negli States. Spielberg si è ispirato ad un caso vero di un immigrato vissuto all'interno dell'aeroporto parigino Charles de Gaulle, ma lo spunto finisce dopo circa 10 minuti perché "The Terminal" prende il largo raccontando la vita da recluso, i nuovi incontri e la crescente consapevolezza del protagonista.
Sotto le sfavillanti marche del duty free (dagli alimentari ai marchi di vestiario di lusso) si consuma la reclusione di Victor che entra, da subito, in contatto con l'aspetto più commerciale dell'America. Una volta aperte le porte scorrevoli dell'aeroporto, Spielberg mostra come prima cosa al protagonista l'aspetto più edonistico del proprio paese: è il capitalismo più sfrenato delle insegne luminose e della corsa allo shopping.
Suo malgrado, Victor cerca da subito di entrare in questo meccanismo, provando anche lui a trovare un suo "ruolo" in questo mondo nuovo. Il suo sembra un vero e proprio gioco ad afferrare la normalità di vivere, in un primo tempo sopravvivendo con mezzi di fortuna e poi provando a guadagnare qualcosa improvvisando un improbabile lavoro con i carrelli dei bagagli: è il tentativo di entrare nella normalità di un lavoro per poter guadagnare e avere così una qualche funzione sociale. Questo, Spielberg, lo mostra con la sua consueta leggerezza, con una serie di gag da cinema muto che ci mostrano il progressivo successo nel trovare più carrelli.
Tom Hanks offre una bella prova, grazie a una recitazione molto fisica dando così al personaggio una camminata claudicante, a volte, appunto, da comica del cinema muto.
Infine, cercherà la simpatia di una hostess (Catherina Zeta-Jones) che culminerà in una cena surreale che, anche in questo caso, Spielberg gira con grande ironia rifacendosi alla screwball comedy degli anni 30.
È chiaro fin da subito come, dietro alla patina di questo mondo colorato e luminoso, Viktor sia solo: infatti, rimane emblematica una delle prime scene quando, in mezzo al duty free, la macchina da presa carrella all'indietro mostrandoci Viktor minuscolo in mezzo ai labirintici volumi del Kennedy. L'uomo è uno tra i tanti e dovrà lottare parecchio per farsi sentire. È il cinema puro in cui sono le immagini a trasmettere le informazioni salienti.
In parallelo Spielberg ci mostra un altro aspetto dell'America, meno scintillante e più autentico: quello della paranoia che si tramuta in vuota burocrazia. Il direttore della sicurezza (impersonato da Stanley Tucci) è l'emblema del burocrate imprigionato da regole e codicilli, incapace così di prendere una decisione risolutiva per il problema. Cercherà comunque di indurre Viktor a scappare da quella gabbia di cristallo ma senza successo, perché il nostro ormai è perfettamente entrato nel ruolo che lo vuole nei confini dell'aeroporto e della legalità.
Viktor-Spielberg ci mostra le contraddizioni di una società, tante volte idealizzata e mitizzata, prigioniera non solo delle regole che soffocano l'individuo ma anche di uno strisciante razzismo.
La solidarietà che il nostro troverà verrà unicamente dagli altri stranieri che lavorano ai margini di quel mondo artificiale. È quell'empatia tra simili che lo porterà a mentire per permettere ad un altro compatriota di poter portare a casa i medicinali per il padre in una scena molto intensa, fotografata dallo spielberghiano Janusz Kaminski con tonalità fredde in contrapposizione con la patina da commercial del duty free.
Il film uscì quattro anni dopo l'attacco alle Torri Gemelle ed è innegabile che dietro ai moduli verdi, blu o barrati, tra i quali Viktor cerca all'inizio di trovare una ragione, si nasconda la fobia per il diverso che può mettere radici in America: è una barriera che vuole far diventare gli States impermeabili al mondo esterno. Dietro le immagini controllate di una commedia tradizionale, Spielberg muove un duro atto d'accusa verso l'America di Bush, in modo quasi più penetrante del contemporaneo "Fahrenheit 9/11" di Michael Moore proprio perché lo fa "travestendo" quest'accusa con un film di genere.
Non a caso gli anni duemila del regista di Cincinnati sono percorsi da una certa inquietudine, anche in film all'apparenza di pura evasione. Ecco irrompere un treno in fiamme che viaggia nella notte nella "Guerra dei Mondi" oppure la NY post nucleare di "A.I." o ancora la scena finale di "Munich" con le Torri Gemelle che si stagliano nel cielo: con alle spalle l'11 settembre sono immagini che rimandano al mondo in preda alle paure e non alla quiete del cielo stellato di ET.
cast:
Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci
regia:
Steven Spielberg
distribuzione:
UIP
durata:
128'
produzione:
Steven Spielberg, Andrew Niccol, Walter F. Parkes
sceneggiatura:
Sacha Gervasi, Jeff Nathanson
fotografia:
Janusz Kaminski
scenografie:
Alex McDowell
montaggio:
Michael Kahn
costumi:
Mary Zophres
musiche:
John Williams