Da "
The Post" a "Ready Player One", dalla parola all'immagine, dal passato al futuro: eccolo ancora qua, Steven Spielberg, a confermarci ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, tutto il suo eclettismo, tutta la sua grandezza. Dagli stretti uffici del Washington Post agli spazi enormi, infiniti di OASIS, dove "il limite della realtà è la tua immaginazione". Una voce fuori campo accompagna lo spettatore alla scoperta di questo mondo virtuale, creato dalla mente geniale di James Halliday - un Mark Rylance in versione Steve Jobs - mostrandoci tutti gli universi possibili e immaginabili. E Spielberg passa di mondo in mondo, di fantasia in fantasia, di pianeta in pianeta, con una semplicità e una cognizione degli spazi (anche e soprattutto virtuali) disarmante. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: Steven Spielberg è uno dei più grandi registi viventi; poter beneficiare del suo talento per ben due volte in un anno - anzi, per ben due volte nel giro di un mese - ci riempie di gioia e felicità fanciullesche.
Ma cos'è "Ready Player One"? Siamo nel 2045 a Columbus, Ohio, in un luogo denominato "Le cataste"; eppure il vero fulcro degli avvenimenti non è lì, ma in OASIS, dove ogni uomo si reca per vivere la vita che non può avere. Quello di "Ready Player One" è un futuro distopico - già visto in "
Minority Report" e "A.I." - dove alla realtà orribile delle cose si contrappone la perfetta finzione della fantasia, dove la realtà esiste solamente come accesso al virtuale e il malessere fisico viene sublimato in un mondo immaginario. Quello che interessa a Spielberg, però, è ciò che c'è
al di là, non ciò che c'è
qui e ora: in altre parole OASIS, la sua fonte inesauribile di idee, suoni, colori e immagini; il divertimento continuo dei suoi giocatori; la gioia infinita che accompagna ogni movimento in quell'universo. Ecco, allora, che la gara, cominciata dopo la morte di Halliday, per trovare l'Easter Egg nascosto da qualche parte in OASIS - Easter Egg che garantirà la proprietà di tutto quel mondo virtuale - diventa il perfetto innesco di una vicenda densa di azione, avventura, mistero, amore, emozione: di tutte quelle cose di cui il cinema di Spielberg, da "
E.T" a "Indiana Jones" a "Jurassic Park", si è da sempre nutrito. E che, a loro volta, hanno finito con il nutrire tutto il cinema e tutta la cultura successiva.
OASIS è un tripudio nerd per occhi e orecchie, un luogo che assorbe in sé un intero immaginario pop e lo riproduce in scala 1:1. Ogni fotogramma di "Ready Player One" racchiude una citazione, un rimando, un collegamento iper-testuale a un'altra opera, sia essa un film, un libro, una serie-tv, un videogioco o un cartone animato. Il ricordo si tramuta in oggetto, il sogno in possibilità: l'arte con cui siamo cresciuti diventa il nostro mondo. E ovviamente OASIS non poteva che essere, prima di tutto, il concentrato dell'intero immaginario cinematografico anni 80, plasmato e costruito dalla mente visionaria dello stesso Spielberg (che però omette tutte le auto-citazioni, preferendo quelle a suoi più stretti amici e collaboratori). Ecco allora che "Ready Player One" diventa anche riflessione su quello stesso immaginario, su come il proprio cinema abbia - direttamente o indirettamente - influenzato un intero modo di vivere, di rapportarsi alle immagini, alle cose e alle persone. Una riflessione che, dolcemente, si trasforma in atto d'amore: la seconda prova a cui sono sottoposti i protagonisti, sotto questa prospettiva, assume un valore del tutto particolare.
Sarebbe esercizio sterile elencare - o meglio: tentare di elencare - tutte le citazioni presenti nel film: allo spettatore, d'altronde, è lasciato l'onore della scoperta. Tuttavia "Ready Player One" non si esaurisce in un compito di mero citazionismo, ma utilizza quella base di partenza per impostare un proprio discorso, costruire un proprio coerente macrocosmo dove, ovviamente, la parola chiave è
divertimento. Un
divertimento che viene ricercato, naturalmente, con la consueta perfetta padronanza del dispositivo cinematografico: difficilmente, ad esempio, vedrete un'altra corsa automobilistica girata
così, in questa maniera, con tutti quei dettagli presenti su schermo, con quel continuo imprevisto dietro l'angolo in grado di capovolgere improvvisamente le sorti dell'incontro; o, ancora, una battaglia finale che fa sembrare tutti gli altri
blockbuster diretti da principianti alle prime armi.
Dietro a tutto questo, però, c'è una storia d'amore e d'amicizia, di ragazzi che si trovano a dover combattere un nemico comune, fronteggiare la stessa minaccia; ragazzi che scopriranno essere la loro unione la principale risorsa presente nelle rispettive esistenze. E allora quel finale, pienamente
spielberghiano, dove pure il
villain si troverà ad arrendersi dinnanzi alla forza di quei sentimenti, di quelle
relazioni (che sono virtuali e fisiche), finisce con lo scaldare il cuore per la sua sincerità e per la sua delicatezza.
La
grandeur visiva non riesce, comunque, a far dimenticare completamente i problemi dell'opera. Problemi che sono, innanzitutto, di sceneggiatura, relativi a passaggi narrativi un po' frettolosi, a
coup de théâtre non così originali, a personaggi poco stratificati, sviluppati, sviscerati. All'intrattenimento mastodontico, infatti, non sempre riesce ad affiancarsi un racconto adeguato, che anzi mostra qua e là segni di cedimento, soprattutto nella gestione dei momenti più delicati della vicenda, dove il registro tragico si insinua all'interno del racconto edificante per ragazzi. Difetti amplificati da una durata complessiva certo non irrilevante, colpevole di annacquare il ritmo forsennato di certe sequenze e la tensione di altre, finendo con l'appesantire la leggerezza di un'opera che possiede nella componente visiva il suo punto di forza. Prima di tutto, infatti, in "Ready Player One" c'è il piacere della visione, il fascino della scoperta, l'emozione dell'immagine.
Eppure, in questo mastodontico accumulo di CGI, tanto eccessivo quanto necessario (e viene da chiedersi: come reggerà alla prova del tempo?), "Ready Player One" rivela una morale di grandissima attualità. Dopo averci regalato un roboante giro sulle sue montagne russe, un'esperienza visiva imperdibile per il grande schermo, Steven Spielberg ci ricorda la cosa più importante: che nessuna realtà virtuale può sostituirsi a quella vera, del nostro
corpo; che per quanto possa essere gratificante l'idea di un'esistenza
altra, alla fine essa non potrà mai, nemmeno lontanamente, sostituirsi a quella che viviamo
qui, fisicamente. Ed ecco che allora, non più guardando al passato come in "
The Post", ma guardando direttamente al futuro, Spielberg, con una sincerità e una delicatezza dei sentimenti sconcertante, torna a parlarci del nostro presente. Senza arroganza, senza presunzione. E, alla fine, viene quasi naturale vedere nel volto di Mark Rylance quello di Steven Spielberg. "Grazie per aver giocato al mio gioco", ci dice. E noi speriamo, a questi bellissimi giochi, di poterci giocare ancora. E ancora, e ancora, e ancora...
20/03/2018