Un’intellettuale americana
Unica donna ad aver vinto l’Oscar come miglior regista fino al 2021 (e migliore produttrice) per “The Hurt Locker” (2008), Kathryn Bigelow è una personalità difficile da incasellare che ha attraversato quarant’anni di cinema americano dirigendo una decina di lungometraggi e un pugno di lavori televisivi immergendosi nell’industria di genere.
Se da un lato il suo stile si avvicina a un certo mondo hawksiano, dall’altro la sua genesi professionale assomiglia molto a quella di Michael Cimino. Nata nel 1951 in California, in quella Bay Area e l’ambiente anarchico e hippie raccontato da John Milius, il padre era un imprenditore di vernici e la madre una bibliotecaria. Kathryn Bigelow nasce come artista: studia pittura al San Francisco Art Institute, influenzata dai maestri del Rinascimento e dall’espressionismo astratto, per poi trasferirsi a New York dopo aver vinto una borsa di studio per il Whitney Museum. Nella metropoli della costa Est si lega al collettivo inglese “Art and Language” e diventa sodale di Julian Schnabel e Philip Glass. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1976 con un’installazione gigante sul Canal Grande con un’insegna con la scritta latina “Ars longa, vita brevis” e un’altra installazione di tubi in acciaio che rotolano uno sull’altro producendo particolari sonorità. Il videoartista Vito Acconci le suggerisce di filmare queste performance e per Bigelow l’utilizzo dell’immagine in movimento si trasforma in una vera e propria rivelazione.
Scopre così il cinema: da quello classico americano di Hawks e Ford, ai film di Kurosawa, Resnais, Scorsese, Welles fino al cinema orientale. Studia cinema alla Columbia University sotto l’ala protettiva di Milos Forman e Peter Wollen prendendo un master in teoria e critica cinematografica. Segue poi i corsi di semiotica e su Lacan e diventa caporedattrice della rivista “Semiotexte(s)”. Insomma, Bigelow all’inizio della sua carriera è un’intellettuale americana a tutto tondo che attraversa un lungo percorso teorico e che sfocerà nelle prime produzioni cinematografiche “arty” come il corto “The Set-up” (1978) e il primo lungometraggio “The Loveless” (1981) co-diretto e scritto con Monty Montgomery. Ma è la visione di “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah che diventa una vera e propria illuminazione sulle possibilità di esprimere emozioni, lavorando sui corpi, in una tridimensionalità viscerale liberandola definitivamente dalla bidimensionalità dell’immagine pittorica.
Il surf, lo Zen e la rivolta individuale
“Point Break” è il quarto lungometraggio della regista americana e il primo su commissione. Le propongono una sceneggiatura che era da molto tempo nelle mani degli executive degli studios – stava per essere girata da Ridley Scott, ma dopo aver messo in piedi la scenografia e lavorato per quattro settimane il progetto abortisce. La storia di un giovane agente dell’Fbi che dà la caccia a un gruppo di rapinatori di banche a Los Angeles appartenenti alla comunità di surfisti californiana affascina Bigelow che vede la possibilità di continuare il suo discorso sulla dinamicità dell’immagine e approfondire i temi sul conflitto individuale e comunitario che sono la cifra stilistica del suo cinema.
Il confronto-scontro tra l’agente Johnny Utah (Keanu Revees) e il capobanda Bodhi (Patrick Swayze) oltre che essere individuale rappresenta anche la conflittualità di due tribù: quella dell’agenzia federale, guardiana dell’ordine costituito, contro quella dei surfisti anarchici e antiborghesi che rapinano le banche come gesto rivoluzionario per continuare a vivere secondo le regole autoindotte e al di fuori della società. Non è casuale che la banda utilizza le maschere di quattro ex presidenti – Johnson, Nixon, Carter e Reagan – rappresentanti di quel capitalismo finanziario e proprietario il cui scopo è la difesa del profitto. Attraverso il mascheramento si rivendica la riappropriazione dei mezzi economici colpendo le banche, casseforti di questo potere.
Da qui si può già notare superficialmente le fonti ispiratrici di “Point Break”: da un lato “Un mercoledì da leoni” di Milius, dall’altro il capolavoro citato di Peckinpah. Del resto, la figura di Angelo Pappas, l’agente anziano che fa da mentore a Utah, è interpretata da Gary Busey, uno dei protagonisti dei giovani surfer della pellicola milusiana, in un’operazione metacinematografica esplicita. Pappas – nome omen – è il “papà” che passa il testimone al figlio da una generazione di surfisti all’altra. Il surf diventa metafora di libertà, di una vita vissuta all’insegna di un’eterna giovinezza in un’estate senza fine, in una ricerca Zen della “grande onda” da cavalcare per cogliere l’attimo estremo di un’illuminazione ancestrale tra uomo e la natura, in una fusione di forza panteistica che dura l’attimo dell’azione stessa.
Se nel film di Milius la filosofia Zen era implicita e incistata nella storia dei tre surfer, in “Point Break” è esplicitata nella figura di Bodhi (diminutivo di Bodhisattva). Del resto, se Bodhi è pienamente consapevole della sua dimensione al di fuori della società capitalista e industriale, diventa il maestro che porta al “risveglio” l’allievo Utah attraverso la pratica dell’azione.
Utah è all’inizio il rappresentante di quella generazione aggressiva e yuppie che è pronta a tutto per la propria affermazione personale, ma l’incontro con Bodhi provoca una trasformazione ineluttabile e fa uscire il suo lato “naturalistico” che lo porta all’abbandono definitivo del suo stato precedente. In questo senso, fin dall’incipit la regista americana connota i due personaggi all’interno di un elemento in cui agiscono: in un montaggio parallelo, mentre Utah supera una prova di scontro a fuoco teorica con delle figure cartonate all’accademia del Bureau, Bodhi è mostrato mentre cavalca le onde dell’oceano. L’acqua diventa l’elemento primevo di (ri)nascita, quella della pioggia che colpisce Utah e quella marina in cui si immerge Bodhi. L’incipit si collega idealmente con il finale, dove su una spiaggia australiana, nella tempesta decennale che provoca le grandi onde, Utah raggiunge Bodhi dopo averlo inseguito in tutte le spiagge del pianeta. Sotto una pioggia scrosciante entrambi dicono addio alla vita precedente: Bodhi cavalcando per l’ultima volta la “grande onda” unendosi per l’eternità con il proprio stato di natura; Utah gettando nell’acqua il distintivo che lo legava ancora a quella società che ormai ha abbandonato. L’acqua è il simbolo di creazione e distruzione, di trasformazione di uno stato metafisico all’altro, che unisce i due protagonisti in un destino scritto fin dalle prime inquadrature, giunti al termine di un viaggio percorso durante l’azione filmica.
Individuo vs Comunità
Più profonda è la tematica che richiama al cinema di Peckinpah e che la Bigelow fa sua, reinterpretandola. Il concetto di individuo che segue le proprie regole all’interno di una “comunità” che vive ai margini la regista americana lo rappresenta fin da “Il buio si avvicina” (1987), in cui una “famiglia” di vampiri si muove tra i villaggi del deserto del West e dove un giovane protagonista si unisce per amore di una bella ragazza. Il mucchio selvaggio peckinpahiano è rappresentato dai vampiri così come la banda di surfer, entrambe rispondenti al proprio codice interno, in cui il confine tra la vita e la morte permette di vivere un’esistenza ai bordi di una linea tracciata in perenne movimento.
Utah è il doppio della poliziotta Megan Turner di “Blue Steel” (1990), intrepretata da Jamie Lee Curtis, che incontra la sua nemesi, uno psicopatico che le ruba la pistola durante uno scontro a fuoco e la perseguiterà, sotto una pioggia scrosciante: di nuovo l’acqua come elemento significante in cui i personaggi bigelowiani si trasformano in “selvaggi” individualisti che rompono le regole in cui si sono forgiati. Gli scontri tra poliziotti e assassini, tra famiglie umane e vampiri, tra gli agenti federali e surfer sono il conflitto perenne tra comunità che seguono regole diverse e contrapposte, ma soprattutto tra ordine imposto seguito e disordine creativo ricercato.
Alla Bigelow interessa il conflitto, la rappresentazione dinamica degli individui, in cui l’elemento maschile è sempre portatore di un cambiamento radicale. Accusata di fare film “muscolari”, nella realtà il cinema della regista americana tracima il genere sessuale: il femminino è sempre presente – in modo esplicito o implicito – attraverso protagoniste (ad esempio la poliziotta Megan; Mace Mason in “Strange Days"; le donne di “Il mistero dell’acqua”; l’agente della Cia Maya Lambert di “Zero Dark Thirthy”) o controparti come la Mae della famiglia di vampiri e Tyler Endicott (Lori Petty) in “Point Break”.
Tyler è colei che insegna il surf a Utah, che diventa il punto di ingresso nella comunità di surfer. L’innamoramento tra i due in “Point Break” è un ulteriore elemento – importante quanto il confronto con Bodhi – che cambia profondamente la psicologia del personaggio. L’individuo della Bigelow lo è in quanto tale a prescindere dal sesso di appartenenza: ciò che interessa alla regista è il racconto di una “frattura” interiore che trascina il personaggio verso un abisso del presente e lo fa riemergere rinnovato, trasformato nel suo intimo per un nuovo futuro. In questo senso, si discosta completamente dai personaggi peckinpahiani irrimediabilmente imprigionati nel proprio passato. Il femminile è l’àncora razionale salvifica in cui la ricerca dell’estremo maschile porta a conseguenze senza ritorno, a un “punto di rottura” definitivo.
Il cinema nel suo dinamismo plastico
“Point Break” è l’esempio plastico della forma dinamica della cinematografia della Bigelow.
Pur lavorando all’interno della macchina industriale, la regista americana ha un controllo totale della sua opera: arriva a scegliere i costumi, i colori delle tavole da surf, le location. Disegna lo story board delle sequenze di azione. Con l’aiuto del direttore della fotografia Donald Peterman (surfista a sua volta) utilizza la steadycam, cerca focali per allungare il 35 mm per le riprese sulle onde, fa muovere l’operatore con la mdp collegata a un palo per gli inseguimenti a piedi. Le riprese tra terra, acqua e cielo sono virtuosismi che rappresentano esteticamente il confronto adrenalinico dei personaggi in un’azione tridimensionale in cui la macchina da presa è slegata dalla gravità e si muove attaccata ai corpi che diventano il fulcro dell’immagine stessa.
Utah dice a un certo punto: “La vista è un senso sopravvalutato”. Per Bigelow la forma è determinata dalla posizione dei corpi al di là dove essi si trovano, tanto da modellare il movimento della mdp in funzione della continuità dinamica riassemblata in un montaggio frenetico, alternando ai dettagli i campi lunghi che eliminano i limiti fisici. Oltre alle riprese in acqua – e due dei protagonisti della banda di Bodhi sono interpretati da John Philbin e Bojesse Christopher, nella vita dei veri surfer, che permettono alla Bigelow di inquadrarli mentre cavalcano le onde senza utilizzare gli stuntmen, come invece per Reeves e Swayze – straordinarie sono quelle nel cielo nelle due sequenze in cui la banda di Bodhi effettua lanci dall’aereo con il paracadute: la prima come rito finale della stagione, la seconda quando fuggono dopo l’ultima rapina, in cui la mdp si muove letteralmente volando insieme ai corpi.
Un’altra sequenza memorabile è l’inseguimento a piedi di Utah di Bodhi dopo la rapina fallita in cui alla soggettiva dei personaggi si alternano totali a seguire con l’operatore che corre insieme agli attori. Sequenze complesse di inseguimento che fanno il paio con quelle effettuate da Friedkin in “Vivere e morire a Los Angeles” con cui “Point Break” ha alcuni punti in comune e che testimoniano la completa padronanza della macchina-cinema della Bigelow.
Il cinema di Kathryn Bigelow oltre a superare i limiti fisici – lontano da quello digitale in cui l’immagine e la vista sono predominanti – fonde e trascende il genere. Così dopo le sperimentazioni di “The Loveless” sceglie di immergersi nei generi e trasformarli. “Il buio si avvicina” oltre a essere un horror classico è un western post-moderno; “Blue Steel” oltre a essere un poliziesco classico è un dramma psicologico; “Strange Days” è un film di fantascienza e un dramma politico e così via per tutte le pellicole della regista americana.
In particolare, “Point Break” è un thriller, un action movie, un beach movie, un coming of age, in cui i codici dei differenti generi sono fusi e incastrati uno con l’altro senza soluzione di continuità, come un montaggio dell’azione-forma che scivola fluida intorno ai corpi attoriali e al corpo filmico.
Fonti bibliografiche
Michela Carobelli, Kathryn Bigelow. La compagnia degli angeli, percorsi e sogni di una regista americana, Le Mani, Recco-Genova 2005
Jérome d’Estais, Kathryn Bigelow. Passage de frontières, Rouge Profond, Aix-en-Provence 2020
cast:
Patrick Swayze, Keanu Reeves, Gary Busey, Lori Petty, James Le Gros, Bojesse Christopher
regia:
Kathryn Bigelow
titolo originale:
Point Break
distribuzione:
Penta Film
durata:
122'
produzione:
Largo Entertainement
sceneggiatura:
W. Peter Iliff
fotografia:
Donald Peterman
scenografie:
Peter Jamison
montaggio:
Howard Smith
costumi:
Colby P. Bart, Louis Infante
musiche:
Marc Isham