"I may not know a winner when I see one, but I sure as hell can spot a loser"
(Rocky Graver - Gig Young)
Pollack e la New Hollywood
Tra i più importanti lasciti di quel movimento conosciuto come New Hollywood c’è sicuramente quello di aver formato e lanciato una nuova generazione di registi, che aveva scalpitato per entrare nel mondo del cinema e che con i suoi film avrebbe contribuito al superamento dei canoni del cinema classico.
La schiera di quei nuovi nomi del panorama americano era piuttosto nutrita, alcuni di essi accomunati da un medesimo percorso formativo.
Innanzitutto, per quanto attiene alla formazione accademica, vi era chi aveva frequentato scuole di cinema (come George Lucas, Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, i primi due nelle università californiane, il terzo invece nella East Coast) e chi aveva invece una più tradizionale formazione umanistica (Peter Bogdanovich, che aveva studiato pure recitazione e che aveva dalla sua anche un'attività da critico cinematografico) o addirittura scientifica (come Brian De Palma).
Per quanto riguarda invece la formazione pratica, vi erano quelli che si erano fatti le ossa alla corte del re dei B-movie Roger Corman (Coppola, Scorsese e Bogdanovich), quelli che avevano iniziato nel mondo del cinema indipendente (De Palma) e ancora i registi di estrazione televisiva, formatisi dirigendo film e serial per il piccolo schermo.
Tra questi ultimi vi erano Sam Peckinpah, Robert Altman e Steven Spielberg, ma anche un regista talvolta trascurato nelle cronache della New Hollywood: Sydney Pollack. O quantomeno trascurato dalle analisi più superficiali, considerato che il maggior teorico italiano della New Hollywood, Franco La Polla, lo inseriva invece senza alcuna incertezza tra gli autori del movimento, pur esaltandone le peculiarità derivanti, in primis, da una solidità narrativa che contrastava con la "secchezza paradocumentaristica" della maggior parte dei film del periodo, i quali tuttavia si collocavano in un panorama estremamente vario e complesso: "Pollack non è l’eccezione in un contesto omogeneo, ma una personalità che spicca nel confuso amalgama di un cinema inclassificabile in termini semplici e chiari"[1].
Le carriere dei registi di estrazione televisiva seguivano degli step abbastanza simili: formatisi con la direzione di episodi di serial tv, erano poi passati ai film per il cinema, chiamati da quei produttori che apprezzavano in particolar modo la loro versatilità, derivante dal metodo di lavoro in uso per il confezionamento dei prodotti destinati al piccolo schermo.
Inizialmente si erano cimentati prevalentemente con opere di genere piuttosto tradizionali, ma la definitiva maturazione di una loro identità e di uno spirito autoriale fu messa in luce, verso la fine degli anni Sessanta (e dunque in un contesto che aveva recepito le nuove, indispensabili condizioni artistiche e produttive), mediante la proposizione di quelle opere più personali, fondative della New Hollywood, per le quali ancora oggi quei cineasti sono ricordati.
Fu così per Peckinpah, che dopo le serie tv e un terzetto di western di taglio più tradizionale, concepirà con "Il mucchio selvaggio" (1969) qualcosa di radicalmente nuovo, almeno nel panorama americano.
Fu così per Altman, la cui gavetta televisiva fu particolarmente lunga, essendo approdato al cinema, dopo una breve parentesi giovanile, soltanto in età relativamente avanzata, superati i quarant’anni, con un’opera di genere ("Conto alla rovescia", 1969) prodromica ai film inquadrabili nella corrente.
E fu così per Pollack, che dopo gli inizi in televisione dirigerà quattro lungometraggi prima di "Non si uccidono così anche i cavalli?", due dei quali, "The Scalphunters" (1968) e "Castle Keep" (1969), andavano nella direzione di una destrutturazione dei generi - rispettivamente il western e il war movie - per certi versi anticipatoria delle future tendenze della New Hollywood. Tanto da far affermare al già citato La Polla che "per importante, accurato, ammirevole che sia (e lo è tantissimo), "They Shoot Horses, Don't They?" è sicuramente un film meno audace di "The Scalphunters" e "Castle Keep". E’ più bello, più forte, più sofferto, più esemplare, ma meno curioso, irrequieto e indisciplinato"[2].
Eppure, se si prescinde dal discorso riguardante i generi, è innegabile come il vero film della svolta, per Pollack, sia proprio "Non si uccidono così anche i cavalli?", ancora oggi considerato tra i suoi capolavori, a differenza delle due pellicole con protagonista Burt Lancaster: fondamentali film di formazione, interessantissimi esperimenti di revisione dei generi classici, ma inevitabilmente scivolati col tempo nel calderone delle opere minori.
E infatti, guardando a quelle pellicole nel loro complesso, "They Shoot Horses" resterà per lo stesso La Polla "uno dei più importanti film americani" di quegli anni, "una delle opere più rappresentative del rinnovamento hollywoodiano", di un regista che fino a quel momento era stato soltanto "una promessa da tenere d’occhio"[3].
L’analisi di La Polla introduce una questione fondamentale per approcciarsi a Pollack e alla sua filmografia: il suo essere un regista innamorato dei personaggi ben più che degli artifizi e degli espedienti formali; un maestro nella direzione degli attori ben più che un virtuoso delle soluzioni tecniche; un cultore della recitazione (del resto iniziò proprio come maestro di arte drammatica) prima che un fanatico dell’apparato estetico-visivo. E infine, venendo alla tematica dei generi, Pollack è sotto questo aspetto un continuatore del cinema classico, quantomeno in relazione a uno dei suoi modelli più tradizionali: la storia d’amore travagliata, il melodramma agrodolce.
Non c’è da sorprendersi, quindi, se i film più arditi e sperimentali sotto l’aspetto strutturale (appunto "The Scalphunters" e "Castle Keep") siano poi tra quelli che hanno lasciato meno il segno nella carriera del regista, poiché la loro importanza è venuta alla luce esclusivamente sotto la lente d’ingrandimento dell’analisi critica. Non c’è da sorprendersi se Pollack darà il suo personale scossone al cinema americano soltanto quando, più che scardinare i generi, destabilizzerà le stesse fondamenta del sogno americano. E ciò avverrà soltanto con "They Shoot Horses".
"Non si uccidono così anche i cavalli?"
Siamo in California, nel 1932, nel pieno della Grande Depressione. Nell’Oregon Ballroom, una sala da ballo di Santa Monica, viene organizzata una maratona di danze non-stop. L’ultima coppia che rimarrà in piedi avrà un premio di 1.500 dollari.
Le regole sono semplici: si balla giorno e notte, con una pausa di dieci minuti ogni due ore; si mangia sette volte al giorno, in piedi, senza smettere di muoversi.
Per partecipare alla gara c’è la coda, dentro la quale finisce per caso Robert (Michael Sarrazin), che viene accoppiato con Gloria (Jane Fonda), rimasta all’ultimo senza partner.
La storia è tratta da un romanzo breve di Horace McCoy, uscito in quegli anni di crisi (1935) e diventato col tempo un cult del genere hard boiled. McCoy era ai tempi un aspirante attore che aveva vissuto (pare) in prima persona le atmosfere stranianti di quelle maratone (secondo la leggenda, da buttafuori di un locale dove si organizzavano).
Viene adattato inizialmente da James Poe (che avrebbe voluto girarlo), ma la sceneggiatura viene successivamente rivista da Robert E. Thompson, che la consegna a Pollack, semplice ma dirompente, per trarne uno dei film più significativi di quel filone della New Hollywood che affronta il tema del loser, uno dei topic più ricorrenti nel nuovo corso del cinema americano.
L’ambientazione durante la Grande Depressione, già usata da Pollack per il suo secondo lungometraggio ("Questa ragazza è di tutti", 1966) è in tal senso ideale.
Nel 1932, alla presidenza degli Stati Uniti c’è ancora Herbert Hoover. Quell’Hoover che nel 1928, vinte le elezioni e forte del boom economico dei roaring twenties, aveva avuto l’ardire di sbilanciarsi con una previsione tra le più infelici della storia del Novecento, sostenendo come il paese, mai prima di allora, fosse stato vicino a sconfiggere definitivamente la povertà[4]. Dopo sei mesi soltanto la nazione sprofondava in una delle crisi economiche più devastanti della modernità, condannando Hoover a un rapido declino politico e aprendo la strada a Franklin Delano Roosevelt e alle sue ricette economiche keynesiane.
In questo contesto, "Non si uccidono così anche i cavalli?" mette in evidenza il grande abbaglio degli anni Venti, in cui la vera prosperità era stata prerogativa soltanto di una ridotta fascia della popolazione.
Nei primi anni Trenta la California è diventata la meta prediletta dei poveracci di ogni parte della nazione, come del resto ci aveva già insegnato il "Furore" di John Steinbeck (e di John Ford).
I più ambiziosi sognano un lavoro a Hollywood, gli altri cercano quanto meno di tirare a campare. La maratona di ballo è un’occasione per gli uni e per gli altri. I primi mirano a farsi notare dai talent scout di Hollywood che si affacciano ogni tanto sugli spalti[5], almeno secondo quanto afferma l’imbonitore-presentatore, l’esuberante Rocky Graver (Gig Young), che abbindola pubblico e concorrenti con il suo linguaggio ampolloso e retorico, talvolta condito da fandonie belle e buone. I secondi sono lì per scroccare i sette pasti offerti quotidianamente dall’organizzazione, motivo per il quale puntano a resistere il più a lungo possibile, come avviene - dichiaratamente - per la coppia interpretata da Bruce Dern e Bonnie Bedelia.
Un film-metafora
[Di qui a seguire, l’analisi contiene anticipazioni della trama]
La gara di ballo è la raffigurazione allegorica dello snaturamento dell’individuo, dell’uomo che si fa bestia, e in ciò la metafora del cavallo, enunciata fin dal titolo, è perfettamente calzante. La stessa scena iniziale, in cui viene mostrato un cavallo mentre corre libero nei prati, cade, si rompe una zampa e viene soppresso, conferisce all’intera pellicola la connotazione di film-metafora[6], con la similitudine che si perfezionerà soltanto nel drammatico finale, quando a fare quella fine sarà Gloria, ferita più nell’anima che nel fisico, con le parole di Robert a sancire esplicitamente l’analogia, riprendendo appunto il titolo della pellicola.
Ma è soltanto il coronamento di un percorso analogico che si sprigiona per l’intero film, fin dai dialoghi iniziali in cui la fila di poveracci che si accoda per partecipare alla gara di ballo viene paragonata, da uno degli stessi candidati, al bestiame che veniva ammassato per essere trasportato sulle navi (il tizio in questione è un ex-marinaio, uno straordinario Red Buttons).
Dopo l’iscrizione, la gara inizia e va avanti per giorni, che presto diventano settimane. Uno dei momenti clou del contest è il cosiddetto "derby", organizzato per dare il colpo di grazia ai partecipanti e irretire un pubblico che va via via aumentando. Si tratta di una gara a eliminazione diretta in cui viene mandato a casa chi resta indietro in una sorta di marcia forzata tra persone già sfiancate dai balli e dal mancato riposo.
Il centinaio di coppie iniziali diminuisce giorno dopo giorno. Quella composta da Gloria e Robert si sfalda e il film, che dopo un inizio all’insegna del possibile studio sociologico aveva imboccato il sentiero del racconto sentimentale in un contesto difficile (un leit-motiv del cinema di Pollack), acquisisce le tonalità tipiche del mèlo, che sfociano nella tragica fine di Gloria. Un pessimismo senza vie d’uscita, ben lontano dai toni decantatori del New Deal (e di Roosevelt) del "Furore" di John Ford, ancora una volta a riprova della radicale distanza teorica tra il cinema classico e la New Hollywood[7].
La galleria dei loser si compone, oltre che delle figure dei due protagonisti (con un peso preponderante affidato a quello femminile, come spesso avviene in Pollack), anche di tutta una serie di personaggi apparentemente di secondo piano, eppure così incisivi nella loro caratterizzazione che a tratti può sembrare caricaturale, quando invece è semplicemente figurativa nella maniera più genuina possibile. Due di essi emergono in maniera particolare, due personaggi che peraltro sono assenti dal romanzo breve di McCoy, a dimostrazione dell’ottimo lavoro di scrittura compiuto soprattutto da Thompson.
Da una parte abbiamo il già citato ex-marinaio, che partecipa alla gara di ballo in mezzo a persone molto più giovani di lui, segno evidente di un’esistenza fallimentare, nonostante il ventaglio di abilità che il personaggio dimostra di possedere, tra cui le straordinarie doti da ballerino di tip tap. Dall’altra abbiamo l’attrice che sogna Hollywood, nei suoi vestiti sfarzosi e nelle movenze eleganti che contrastano con la sua condizione di partecipante a quel rodeo di disgraziati. Entrambi faranno una brutta fine. Lei perdendo completamente la ragione, lui con un infarto che lo colpirà durante il secondo derby.
Il secondo derby è peraltro il momento in cui l’estro di Pollack ha la possibilità di esprimersi nella maniera più libera, in un film che sembra dedicare ben poca attenzione agli espedienti formali, focalizzandosi per lo più sulla portata del messaggio e sulle questioni narrative (come detto, una costante del cinema di Pollack).
Una delle poche scelte stilistiche strutturali dotate di un’efficace portata narrativa è quella del formato anamorfico, quel Panavision tanto caro al regista dell’Indiana, apparentemente inadatto (come tutti i formati widescreen) a un film quasi interamente girato in interni, ma che invece ha l’importante effetto di mantenere costantemente all’interno del profilmico il contesto in cui si svolgono le vicende, anche quando l’utilizzo di piani ravvicinati (che abbondano) potrebbe portare a dimenticarlo. E invece l’atmosfera surreale della maratona è continuamente presente sullo schermo, sebbene talvolta relegata sullo sfondo, trasformando il disagio individuale in un dramma sociale e collettivo.
Nel secondo derby, si diceva, la corsa dei partecipanti assume caratteri grotteschi, esaltati dal ricorso al ralenti che ripropone, ancora una volta, la similitudine tra uomo e bestia, quella tra i concorrenti che trottano in cerchio in una gara di resistenza e i cavalli dell’incipit, anch’essi, per definizione, generalmente sfruttati a fini di intrattenimento.
Ma l’uomo è in realtà in una condizione anche peggiore di quella dei cavalli, se si raffronta lo scenario bucolico e solare della scena iniziale (emblematicamente fotografata con ariosi campi lunghi e lunghissimi) con l’ambientazione opprimente, buia e claustrofobica della chiassosa balera in cui si tiene il contest, dove gli uomini e le donne finiscono per diventare più simili a delle bestie da circo che ad animali eleganti come i cavalli (e qui invece le focali si allungano, con abbondanza di primi piani, mezzi busti e piani medi, e con i totali sulla sala da ballo che esprimono un senso di costrizione). Tutt’altro che eleganti, infatti, sono i concorrenti man mano che si dilunga la maratona, in particolare durante il secondo derby, quando, trascorsi ormai cinquanta giorni sulla pista da ballo, li vediamo sfiancati e deformi, immortalati nelle loro smorfie e nei loro gesti innaturali.
Ma tutta la gara di ballo - non soltanto in occasione dei derby - è una continua, estenuante esibizione di sofferenze e di bassezze, di cui il pubblico si nutre cinicamente, con il culmine rappresentato dai piccoli, umilianti spettacolini che vengono improvvisati da alcuni dei concorrenti per racimolare poche monetine, lanciate per terra dagli spettatori come si lanciano le noccioline agli animali dietro le gabbie degli zoo (un’immagine che Gloria evoca esplicitamente come possibile, raccapricciante evoluzione dello spettacolo, quando ciò in realtà sta già avvenendo). Quelle monetine vengono raccolte dai partecipanti con il fervore che può derivare soltanto dalla disperazione. E’ una delle immagini più forti e destabilizzanti del film. E’ la messa in scena della distruzione del sogno americano, brutalizzato e ghettizzato dalla mortificazione fisica e psicologica dei protagonisti.
E non è tutto, perché il culmine della bassezza morale deve ancora arrivare e si raggiunge proprio durante la sequenza del secondo derby: l’assurdo teatrino della maratona non si ferma nemmeno davanti a un uomo che crepa d’infarto e che viene trascinato a forza al traguardo dalla sua partner per evitare l’ennesima sconfitta esistenziale, l’eliminazione dal concorso[8].
The Show Must Go On, lo spettacolo deve continuare. Ma lo show non è nient’altro che una messa in scena di cattivo gusto che contrappone, da una parte, gli ultimi, i disperati, gli umiliati e offesi dalla crisi e dalle sue conseguenze, e dall’altra il pubblico pagante, gli spettatori che assistono a quella mortificazione, mossi dalle più svariate finalità: quella dello sfruttamento capitalistico (i ballerini possono avere uno sponsor, indossando maglioncini con i nomi di marchi o esercizi commerciali), che del resto fa il paio con lo sfruttamento insito nelle intenzioni di chi ha organizzato la gara; oppure la finalità dell’appagamento borghese, quella di chi può sentirsi confortato dalla mera constatazione dell’esistenza di condizioni ben più misere delle proprie, finalità che Rocky asseconda cinicamente (e consapevolmente) boicottando quella concorrente che, con la sua eleganza, poteva scardinare nel pubblico quella rassicurante sensazione: Alice, l’attrice britannica, vestita e acconciata come la diva dell’epoca Jean Harlow, verrà privata di uno dei suoi eleganti abiti da ballo, aprendo la strada alla sua deriva psico-fisica.
Un film (ancora) attuale
Non c’è lotta di classe, in "Non si uccidono così anche i cavalli?", c’è soltanto la rappresentazione di un sistema iniquo, in sfacelo, socialmente ripugnante. La reazione è necessariamente lasciata allo spettatore, e non ai personaggi, che accettano pressoché passivamente la propria condizione, diventando anzi gli indispensabili ingranaggi di quell’indecorosa messinscena.
In questo senso - citando ancora La Polla - "They Shoot Horses" è un film "sul rapporto tra Capitale e Spettacolo, sull’impressionante capacità del Capitale di rendere merce la sopraffazione, il dolore, la miseria, la fame (e anche l’arte)"[9]. Un messaggio di una straziante attualità, se si considera che quanto racconta Pollack è ciò che ormai quotidianamente ci viene propinato dalla società dello spettacolo, in un clima appena meno degradante ma ugualmente imbarazzante.
Il parallelo regge la prova del tempo pure se si torna indietro all’antichità, come suggerisce Chatrian paragonando i protagonisti del film ai gladiatori che intrattenevano i romani, a scapito della propria vita, negli anfiteatri di venti secoli fa[10]. Ma se in quel termine di paragone manca il requisito fondamentale della volontarietà (di chi si sottopone a una tale spettacolarizzazione), tale requisito non manca in coloro che, oggigiorno, si prestano alle più svariate umiliazioni pur di finire in uno spettacolo televisivo, oppure nella speranza di ottenere un’audience (principalmente, sui social network) per ambire a una svolta nella propria condizione.
Se dunque umiliante è la gara di ballo, il finale è invece totalmente desolante, non lasciando spazio ad alcuna forma di rivincita o di speranza. E invero già durante il film, mostrando alcuni flashforward della detenzione e del processo a Robert[11], Pollack aveva fatto capire allo spettatore che avrebbe potuto aspettarsi tutto tranne che un lieto fine.
Il concorso, dal punto di vista dei partecipanti, è sostanzialmente una truffa (dai 1.500 dollari verranno detratte le spese) e Pollack non ne mostra nemmeno la conclusione, preferendo chiudere sulla presa d’atto della sconfitta esistenziale della protagonista, che giunge alla decisione radicale del suicidio assistito, l’equivalente della soppressione del cavallo azzoppato.
Se nel romanzo Gloria è già votata al suicidio e sta cercando soltanto il coraggio di compiere l’estremo gesto (o qualcuno che lo faccia per lei), in Pollack la protagonista femminile è invece una donna dura e sprezzante, sopraffatta dal cinismo, una pessimista cronica il cui ultimo barlume di speranza viene a spegnersi dopo la constatazione di esser stata, suo malgrado, la pedina di un raggiro operato sfruttando i poveri disgraziati.
Insomma, non c’è sopravvivenza in un film radicalmente incentrato sul tema della sopravvivenza. Non c’è speranza né fiducia nell’avvenire, e sicuramente non ne ha Gloria, un personaggio che trabocca disillusione da ogni espressione.
Non c’è dunque una conclusione nel film, contrariamente a quanto avviene nel romanzo, che esplicita un esito sia per la maratona di ballo, sia per il processo a Robert.
C’è giusto spazio, prima dei titoli di coda, per qualche fotogramma che mostra - ancora una volta - come lo spettacolo sia pronto a ricominciare nonostante l’ennesima tragedia, tra i surreali e ampollosi commenti dell’imbonitore.
Il 1969 sarà un anno cruciale per l’esplosione di quella corrente che verrà battezzata New Hollywood. In quell’anno, infatti, uscirà una lunga serie di pellicole che caratterizzeranno il movimento e ispireranno le future opere e generazioni: tra gli altri, "Alice's Restaurant" di Arthur Penn, "Bob & Carol & Ted & Alice", di Paul Mazursky, "Easy Rider" di Dennis Hopper, il già citato "Il mucchio selvaggio" di Peckinpah, "Non torno a casa stasera" di Francis Ford Coppola, "Un uomo da marciapiede" di John Schlesinger.
Se già non fosse stato chiaro che nel cinema americano la musica era definitivamente cambiata, "Non si uccidono così anche i cavalli?" lo ribadirà una volta di più con la forza raggelante della disperazione dei suoi protagonisti.
Note:
[1] Franco La Polla, "Sydney Pollack", La Nuova Italia, 1978.
[2] Franco La Polla, "His Own Private Utah", in "Sydney Pollack. Il cinema, i film", a cura di Luciano Barisone e Leonardo Gandini, Voir Trade, 2007. Del resto, con lo stesso metro di giudizio, vale a dire quello dell’incidenza sul genere, La Polla affermava come anche altri due capisaldi della filmografia pollackiana, "Yakuza" e "I tre giorni del Condor", non arrivassero a mostrare "particolari innovatività formali e strutturali". Aspetti che invece, prosegue il critico, ritroveremo in un altro film minore e per lo più dimenticato come "Il cavaliere elettrico".
[3] La Polla, "Sydney Pollack", op. cit.
[4] Nessun rimando (più o meno ironico) all’attualità: il discorso di Hoover è citato in Hobsbawm, "Il secolo breve", Rizzoli, 1995.
[5] Tra coloro che vengono ad assistere alla maratona di ballo, annunciato in pompa magna dal presentatore Rocky, c’è Mervyn LeRoy, fresco regista (lo era nel 1932) della pietra miliare del gangster movie "Piccolo Cesare". Nel libro, invece, il regista che assiste tra il pubblico è Frank Borzage.
[6] Carlo Chatrian parla invece di "film concettuale", anticipatore "del pensiero critico nei confronti del postmoderno, ovvero di quel senso di perdita di realtà che contraddistingue l’oggi" (Chatrian, "I segni del tempo", in "Sydney Pollack. Il cinema, i film", a cura di Luciano Barisone e Leonardo Gandini, Voir Trade, 2007).
[7] Sempre Chatrian ha affermato che "They Shoot Horses" è "probabilmente l’immagine più forte ed efficace con cui sia stata descritta la Grande Depressione" (Chatrian, ibidem).
[8] Anche questo, un episodio non presente in McCoy, ma aggiunto nella sceneggiatura. Si tratta probabilmente di uno dei momenti più controversi da un punto di vista logico, considerato che mostra un raro spunto d’orgoglio nel personaggio di Gloria, che nel libro è invece totalmente disillusa, non lasciandosi mai a un ancorché minimo slancio di ottimismo, ma anzi ricordando periodicamente quei propositi suicidi che Pollack, invece, nasconde quasi del tutto, con l’effetto di aumentare lo shock del finale.
[9] La Polla, "Sydney Pollack", op. cit.
[10] Chatrian, op. cit.
[11] La struttura temporale del film è in tal senso antitetica rispetto a quella del libro, ove il presente è dato dal processo a Robert e la maratona di ballo viene raccontata come un lungo flashback (che è invece il presente in Pollack).
cast:
Jane Fonda, Michael Sarrazin, Susannah York, Gig Young, Bonnie Bedelia, Bruce Dern, Red Buttons
regia:
Sydney Pollack
titolo originale:
They Shoot Horses, Don't They?
durata:
120'
produzione:
Palomar Picture, Chartoff-Winkler/Pollack
sceneggiatura:
James Poe, Robert E. Thompson
fotografia:
Philip H. Lathrop
scenografie:
Harry Horner, Frank McKelvy
montaggio:
Fredric Steinkamp
costumi:
Michael J. Harte, Mina Mittelman
musiche:
Harry King, Johnny Green, Lynn Willis