In un'edizione all'insegna delle mega-anteprime e del red carpet sovraffollato è facile dimenticarsi dei "piccoli". Una modesta proposta per riscoprire la Venezia nell'ombra.
Cenzorka (Peter Kerekes, Repubblica Slovacca/Repubblica Ceca/Ucraina, Orizzonti)
Claustrofobico viaggio in un carcere femminile ucraino. Il tema è la maternità negata, su cui incombe la scure della classe sociale: che fine fanno i neonati delle prigioniere povere e sole al mondo? Alla foucaultiana documentazione dell'istituzione totale si alternano interviste ad alto tasso di realismo, tra gelida durezza e sprazzi di umanità, che ricordano l'Abel Ferrara di "Napoli, Napoli, Napoli". Film in tinta monocromaticamente grigia, dal rigore qua e là estetizzante, che può vantare quella che è forse la scena di parto più dettagliata e repellente della storia del cinema.
Amira (Mohamed Diab, Egitto/Giordania/Emirati Arabi Uniti/Arabia Saudita, Orizzonti)
Il contrabbando dello sperma dei carcerati è una pratica su cui le cronache si sono raramente posate: anche solo per questo, il film dell'egiziano Diab merita una medaglia al coraggio. Ambientato in una Palestina tutta tornelli e posti di blocco, affronta di petto la crisi d'identità di una ragazza, della sua famiglia e del suo popolo. Dramma di ammirevole sobrietà anche nei momenti in cui la carica emotiva sfonda il termometro, sorretto dalla straordinaria giovane protagonista. Finale da brividi, di quelli che ti condannano all'insonnia. Opera classicamente "da premi" che, contro ogni pronostico, è rimasta a mani vuote.
Miracol (Bogdan George Apetri, Romania/Repubblica Ceca/Lettonia, Orizzonti)
L'unico miracolo è che non esistono miracoli, ma solo la possibilità e la necessità di fare la cosa giusta: questa la tesi suggerita da un film incentrato sul dibattito religioso e che non a caso prende le mosse da un convento. Collage di penetranti piani sequenza raccordati da dialoghi automobilistici dalla marcata vena filosofica (da Platone a Leopardi passando per Voltaire e Sade), segato in due da un'atroce scena di stupro, a tratti insostenibile. La Romania tratteggiata da Apetri è un paese allo sbando e senza Dio, contesa tra il rabbioso razionalismo degli "esperti" (l'ispettore tutto d'un pezzo, il disincantato medico) e l'ingenua credulità della gente comune (il tassista, il poliziotto anziano). Qualche ingorgo nella matrioska di finali uno dentro l'altro, prima di un congedo grottesco che amplifica l'enigma di un'opera profondamente inquieta.
Life Of Crime 1984-2020 (Jon Alpert, USA, Fuori Concorso)
Il "Boyhood" dei documentari estremi. Oltre trent'anni di vita violenta tra le strade di Newark, seguendo i tormentati percorsi di tre dannati della terra. Più che il crimine, è la tossicodipendenza il Virgilio di una discesa all'inferno senza un barlume di speranza, che azzanna le budella e le torce fino allo strazio. Documentarista di lungo corso, controverso per l'aperta manipolazione delle riprese e gli invadenti interventi da fly in the soup, Alpert non si ferma davanti a nulla e mette sotto accusa l'intero sistema legale, penitenziario e sanitario statunitense. Il conflitto tra salute e libertà, in questi tempi pandemici, non è tema da lasciare indifferenti. La produzione targata HBO potrebbe essere corresponsabile di certe soluzioni posticce, specie negli enfatici commenti musicali. Crudo come un'etnografia di Philippe Bourgois, è decisamente il film più agghiacciante del festival. Discutibile e discusso, com'è giusto che sia.
Vidblysk (Valentyn Vasyanovych, Ucraina, Concorso)
Il grande maledetto del Concorso, troppo intransigente per raccattare premi. Con le sue appena 23 inquadrature per 125 minuti, questo film d'amore e guerra impressiona per l'inflessibile potenza della messa in scena, l'accurata preparazione degli attori e la scarna bellezza dei dialoghi. Long take alla Roy Andersson (in fondo anche qua c'è di mezzo un piccione) che somigliano a tableaux vivants quando non a nature morte, con improvvisi fiotti di violenza a scuoterne la pittorica icasticità. Il riflesso del titolo è quello dell'illusione incolpevole che cagiona infelicità e morte, in un apologo sull'imperfezione e la fragilità commentato da immagini solide e impeccabili. Fine artigiano visivo, a un sol passo da un laccato formalismo, l'ucraino Vasyanovich (anche DoP e montatore) ha vinto la sezione Orizzonti di due anni fa.
Republic Of Silence (Diana El Jeiroudi, Germania/Francia/Siria/Qatar, Fuori Concorso)
Il titolo più temuto della kermesse, autentica sfida per spettatori dalla palpebra impavida. Tre ore di videodiario pubblico-privato (più pubblico che privato) attraverso cui vivisezionare non tanto la guerra civile siriana, quanto i sensi di colpa di espatriati ed esuli, con un punto di vista parziale e politicamente più che opinabile. La fanno da padrone treni/stazioni e aerei/aeroporti, a sottolineare una dimensione esistenziale alienata, perennemente transitoria tra un nonluogo e l'altro. Girato alla carlona con gran dispiego di formati e definizioni, montato in alternanza a telegiornali e altro materiale d'archivio, è un cinemastodonte che risulta affascinante nel suo negarsi a qualsiasi fascino. Talmente oscuro, velleitario e sconclusionato da strappare ammirazione.
Vera Andrron Detin (Kaltrina Krasniqi, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord, Orizzonti)
Alzi la mano chi ha mai visto un film con protagonista un'interprete per sordomuti. L'intreccio (in parte autobiografico) è depistante, con innesco da commedia brillante ma prosecuzione in un drammone patrimoniale degno di certe pagine di Federigo Tozzi. Con uno stile derelitto ma dai colori vivaci, nei paraggi di Kaurismaki, la Krasniqi ritrae un Kosovo arretrato, maschilista, dilaniato da faide tribali tra famiglie simili a clan. Sordomuto, per l'appunto.
Sokea Mies, Joka Ei Halunnut Nähdä Titanicia (Teemu Nikki, Finlandia, Orizzonti Extra)
Il repertorio di menomazioni sensoriali prosegue con un'esperienza cinematografica retta da una duplice trovata: eleggere a protagonista un vero malato di sclerosi multipla; calare lo spettatore nella sua cecità attraverso una sfocatura dello sfondo stile "Il figlio di Saul". La freschezza è da opera prima, per quanto Nikki abbia già una ventina di regie alle spalle. Desolata, farraginosa e popolata da tipacci senza scrupoli, la sua Finlandia è leggermente diversa dal paradiso di solidarietà ed efficienza propinatoci dalla narrazione dominante. L'exploit melodrammatico finale depotenzia un po' l'altrimenti ben tesa tenuta narrativa. Carinissima l'idea di scrivere i titoli di testa in braille, affidandone la lettura a un simulatore di voce. Film per cinefili, nato cult. Astenersi fan degli Scorpions. Colpo di scena, il film sembra aver già trovato una distribuzione.
Inu-Oh (Masaaki Yuasa, Giappone/Cina, Orizzonti)
Unico film d'animazione del lotto, ma ce lo facciamo bastare: il ritorno di uno dei più acclamati maestri del genere è così appagante da saziarci in un sol boccone. Opera rock in chiave anime dall'impatto estasiante, sincretica sia nelle tattiche visive cui fa ricorso sia nella quantità/qualità dei temi eterni con cui si confronta (la vendetta del rampollo tradito, la palingenesi dello storpio-crisalide recluso, la maschera come strumento punitivo o emancipatore, il mare spettatore silente ma anche anfiteatro del mutamento). Geniale l'utilizzo della musica rock per rappresentare l'irruzione del nuovo nella tradizione musicale e teatrale nipponica, come anche l'acuto discorso sul potere come lotta tra narrazioni contrapposte e vicendevolmente inammissibili. E la dialettica tra i due protagonisti (il conformista cangiante acclamato e poi dimenticato vs il ribelle incorruttibile marginalizzato ma riscoperto post-mortem) è in fondo quella che anima l'intera storia dell’arte. Le possibili equazioni cinematografiche ("Amadeus" + "Tommy" + "Jesus Christ Superstar"?) o letterarie ("Faust" + "Edipo Re" + "Amleto"?) falliscono nel restituirne la statura archetipica e l'ammaliante grazia. Un capolavoro.
On The Job: The Missing 8 (Erik Matti, Filippine, Concorso)
La più bella sorpresa del Concorso. Tre ore e mezza che volano come un falco in picchiata in questo tiratissimo thriller civile d'ambientazione filippina, sapientamente scorsesiano nell'amministrazione delle musiche e dei piani sequenza. L'inchiesta sulla sparizione di otto giornalisti (ispirata a un reale fatto di cronaca) diventa lo scoperchiamento dei soprusi di un potere corrotto, ma anche la presa di coscienza di un personaggio con un piede in due scarpe, costretto a guardare in faccia il marcio sotto al tappeto. Che si tratti di inquadrare piaghe annose (i galeotti reclutati per fare il lavoro sporco) o fresche di inchiostro (le fake news emanate da un apparato populista), Matti colpisce nel segno con precisione da cecchino. Impossibile citare una sequenza che si stagli sulle altre, anche se il montaggio alternato tra il karaoke e la sparatoria o la rivolta carceraria sulle note degli Animals sono già storia del cinema. Meritatissima Coppa Volpi a John Arcilla, vero eroe della premiazione. E se un film del genere non vi soddisfa, per citare il suo personaggio, "che un fulmine vi colga"!