Che il nuovo lungometraggio dello svedese Roy Andersson fosse un lavoro fuori dagli schemi alla vigilia della
71° Mostra veneziana lo si intuiva sin dal titolo. A proiezione ultimata poi, la sensazione non solo si consolida ma si amplifica ulteriormente. Il ramo del piccione in questione si sposta di volta in volta su 39 ambienti diversi che compongono le altrettante riprese fisse utilizzate dal regista per comporre l'intera opera. Una visione statica e d'impasse per scrutare in modo impietoso le azioni di un gruppo di uomini in un imprecisato villaggio nordeuropeo.
Tutto comincia con una sequela di didascalie che, con meri fini ludici, preannunciano allo spettatore tre bizzarri lutti. Un uomo muore d'infarto mentre tenta di stappare una bottiglia di vino ma la moglie è concentrata a canticchiare il
leitmotiv extradiegetico del film nella stanza accanto e non si accorge di nulla; tre avidi fratelli sono al capezzale della madre morente, la quale è decisa a portarsi in paradiso la sua borsa contenente denaro e gioielli preziosi; un cadavere giace in un ristorante ma il terribile dilemma che ne scaturisce è chi si sazierà gratis del suo pasto pagato e non consumato.
L'iter prosegue così, in un'atmosfera spoglia, dilatata dai sporadici dialoghi che inframmezzano i lunghi piani sequenza, tra uomini esistenzialmente nulli e pesantemente incerati sul viso, forse sono già morti senza saperlo. Giocando sulla demenzialità del grottesco e sulla marginalità del quotidiano, Andersson si sofferma su una strana coppia di rappresentanti che tentano in modo del tutto vano di vendere gadget bislacchi per feste e divertimenti. Intorno a loro altre situazioni paradossali si insinuano sottopelle, con soggetti che sembrano provenire dagli
sketch dei Monty Python e dialoghi che paiono estrapolati da una rappresentazione teatrale di Harold Pinter.
Quella di Andersson, oltre a comporre il terzo capitolo della trilogia sull'esistenza costituita anche dai suoi ultimi due lungometraggi ("Canzoni del secondo piano" che si è aggiudicato il Premio della Giuria al 53° Festival di Cannes e "You, The Living" presentato sei anni fa sempre alla rassegna francese, alla sezione
Un Certain Regard) rappresenta sicuramente una sfida nei confronti dello spettatore, chiamato a "resistere" lungo i cento minuti di pellicola, dal tedioso, reiterato e ingombrante fardello della quotidianità, chiamato altresì a sopportare l'abulia degli esseri umani catturati dai quadri della macchina da presa,
zombie che in tempo di crisi globale vagabondano senza meta (la sceneggiatura neanche a dirlo è inesistente) sullo sfondo di un clima plumbeo sia che i piani siano in esterna, o di scarni e fatiscenti arredi sia che i piani siano in interni. Lobotomizzati da un'alienazione comunicativa che inibisce qualsivoglia sentimento di allegrezza e dinamicità, smarriti nel tempo e nello spazio (epifanica la sequenza di Re Carlo XII che fa il suo ingresso in un pub odierno). Viene il dubbio che l'evoluzione dell'
homo sapiens abbia raggiunto il suo acme e che tutto quello che accadrà d'ora in avanti sia un lento e inesorabile ritorno al regresso umano (la guerra, la tratta degli schiavi, il potere classista, la scimmia). La crisi economica, ennesimo, inevitabile ingrediente gettato da Andersson nel calderone dell'assurdo, viene sì trattata a livello superficiale ma viene allegoricamente rappresentata dall'irriverente sequenza del baratto bacio-grappa all'interno del pub.
Se l'apologo sulla società in decadimento e prossima all'apocalisse è resa in forma idonea e originale, a destare qualche dubbio è allora il contenuto dei singoli episodi, troppo decentrati l'uno dall'altro e non capaci di creare un amalgama tale da rafforzare il concetto espresso dal regista. Anche il ritmo esageratamente dilatato (anche se voluto) non può non minare l'accondiscendenza di una larga fetta di pubblico e anestetizzarne un'altra dal torpore generato dai lunghi silenzi della messa in scena.
Al netto dei non pochi buchi da rattoppare, "A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence" rimane comunque un'opera valida e originale, sicuramente fuori dagli standard della Mostra e del cinema odierno in genere, premiato dalla giuria veneziana con un coraggioso (e probabilmente esagerato) Leone d'Oro.
26/08/2014