Sokurov si aggiudica il Leone d'Oro per il suo "Faust". A Michael Fassbender la meritatissima Coppa Volpi come miglior attore. Per Crialese premio speciale della giuria
Dai nostri inviati alla 68esima mostra del Cinema di Venezia
La mostra si conclude e inizia il tempo dei bilanci. La 68.ma edizione della Mostra Internazionele d'Arte Cinematografica di Venezia ha presentato un'eccellente selezione di opere in concorso e fuori con tanti nomi che hanno destato interesse sin da prima dell'inizio: David Cronoenberg e Roman Polanski in primis, ma anche Abel Ferrara, il ritorno di Friedkin e Johnny To, non da ultimo Aleksandr Sokurov che avrebbe portato a compimento la sua tetralogia di opere dedicate al collasso del potere. Da non dimenticare Tsukamoto con il suo ultimo lavoro per la sezione orizzonti. Tra gli italiani partiva favorito Crialese che dopo "Sospiro" e "Nuovo mondo" avrebbe cercato di approdare in una "Terraferma" e molte aspettative erano riposte anche ne "L'ultimo terrestre" esordio cinematografico del fumettista pisano Gipi, al secolo Gian Alfonso Pacinotti.
Tra i grandi ci sono state fragorose cadute. Il più sordo dei tonfi ha accompagnato la proiezione del "4:44 Last Day on Earth" del newyorkese Ferrara che con la sua pellicola apocalittica riesce a stupire solo negativamente. Meglio sorvolare su abomini come il lavoro della Comencini e dell'atteso Garrel che insieme alla pellicola hongkongese "Seediq Bale" prodotta dal maestro dell'azione John Woo rappresentano il fondo vuoto e noioso di questa manifestazione. Anche il "Terraferma" di Crialese seppur premiato dalla giuria rimane una pellicola mediocre.
Anche il canadese Cronenberg, un maestro indiscutibile del mondo di celluloide, pur presentado una valida pellicola, formalmente e tematicamente compatta ed ineccepibile, non stupisce offrendo un "A Dagerous Method" troppo freddo e calcolato. Ma la qualità media delle pellicole è molto, ma poprio molto alta: anche la spy story "Tinker Tailor Soldier Spy" dello svedese Alfredson è un lavoro meritevole di attenzione, le attese riposte nel "Carnage" di Polanski si rivelano ben riposte, un film teatrale e molto di sceneggiatura in cui il regista conferma le sue capacità nel gestire una materia pericolosa dove il rischio di staticità e noia è dietro l'angolo. Dall'oriente approdano al Lido veneziano "Himizu" di Sono, pellicola sotto tono per un regista sempre interessante e il "A simple life" che grazie ad una regia delicata e composta, ma soprattutto ad una interpretazione della vita proprosta dall'attrice Deanie Ip, ricompensata dalla giuria guidata da Darren Aronofsky, merita di essere ricordato.
"Shame" di McQueen scaglia un pugno nello stomaco degli spettatori che non possono che rimanere incantati dalla maestria di questo regista - quasi un neofita cinematografico dopo una lunga carriera in altre arti - e dalle interpretazioni superbe degli attori, Fassbender su tutti che viene anche giustamente ricompensato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Un film bellissimo.
Da ricordare anche la tendenza di alcune commedie per un umorismo pessimista e cinico, come "Dark Horse, "Poulet aux prunes" e il già citato "Carnage". Un paio di film appassionanti da tenere sotto occhio sono il nuovo dramma di Lioret e "Café de Flore" di Jean-Marc Vallée.
Sorprende "Alps" di Lanthimos (invero accolto in maniere molto contrastanti), il regista greco che già in passato aveva meritato d'esser tenuto d'un certo riguardo a Cannes e che con la sua terza pellicola centra il Premio Osella per la sceneggiatura, chi già aveva conosciuto il suo "Dogtooth" non rimane stupito: il film è compatto e articola tutte le idee del regista in un film concettuale e che non scende ad alcun compromesso. La prima vera perla di questa Mostra.
Ma alla fine l'ambito Leone d'Oro viene assegnato giustamente al "Faust" di Sokurov, un'opera d'arte completa, un capolavoro del cinema contemporaneo che insieme al "The Tree of Life" premiato a Cannes rende il 2011 un grande anno per il cinema.
Tutti i premi:
E' il "Faust" di Aleksandr Sokurov a vincere il Leone d'oro come miglior film a Venezia 68.
Leone d'argento alla regia per il cinese Cai Shangjun e il suo "Ren shan ren hai (People Mountain People Sea)", in concorso come "film sorpresa" della mostra e quindi annunciato solo il 6 settembre.
Emanuale Crialese si aggiudica il premio speciale della giuria per "Terraferma", mentre la Coppa Volpi come migliore attore va a Michael Fassbender per "Shame" di McQueen. Migliore interpretazione femminile secondo la giuria è quella di Deanie Yip in "Tao jie (A Simple Life)" di Ann Hui.
Il premio Marcello Mastroianni (destinato a un giovane attore o attrice emergente) è stato assegnato a Shôta Sometani e Fumi Nikaidô per "Himizu" di Sion Sono. Premio Osella per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Robbie Ryan per "Wuthering Heights" di Andrea Arnold e Osella per la migliore sceneggiatura a Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou per "Alpis (Alps)".
Leone del Futuro (miglior Opera Prima) "Luigi De Laurentiis" a "Là-bas" di Guido Lombardi, presentato alla Settimana della Critica
9 SETTEMBRE
Faust
di Aleksandr Nikolaevic Sokurov – In concorso
Liberamente ispirato al Faust di Goethe, o meglio cercando di far fiorire quello che tra le pagine di Goethe si trova in germoglio, è il nuovo film di Sokurov che rappresenta l'episodio conclusivo della sua tetralogia del potere: dopo aver presentato tre personaggi storici (Hitler, Hirohito, Lenin) ne ricerca ora in una figura mitico-letteraria l'archetipo e la cifra ultima. Film complesso, poetico e riflesso, ricco visivamente e dalla non semplice lettura, pittorico nel ricreare atmosfere, teatrale nelle dinamiche dei corpi nello spazio è la migliore pellicola presentata alla 68.ma mostra del cinema di Venezia. Per differenti aspetti può essere paragonato senza timore a pellicole come “Barry Lindon” e “Stalker” questo lavoro del russo Sokurov che sotto una meravigliosa fotografia generalmente verde d'un verde putrido, fangoso, marcescente seppellisce i personaggi di questa storia, già tutti cadaveri, carni in decomposizione il cui fetore è quasi avvertibile. Un film molto parlato che non si risolve nell'essere semplicemente discorsivo, ma servendosi di ogni forma espressiva di cui può avvalersi va ben al di là della narrazione di una storia determinata nel farsi nodo di domande metafisiche. Un'opera terrena e celestiale. L'alto ed il basso, l'esterno e l'interno ecco in quale equilibrio si muove Faust che con le sue mani scava nelle viscere umane mentre con la sua mente cerca di scrutare oltre la volta celeste. Tracotanza, hybris che lo rende piccolo e insulso nel suo voler dominare lo scibile e l'inconoscibile, che lo stringe a tutta l'umanità torbida anch'essa, avida, iraconda alla quale si avvinghia in una continua danza dei corpi, tutti insulsi e piccoli, ammassati come le anime dannate della penna di Dante, del pennello di Bosch stavolta però rinchiuse in schermo ristretto a 4/3. È questo un ritratto deformato fatto d'immagini distorte e luci alterate per una storia di formazione, o meglio di decostruzione, profonda e inventiva ad ogni livello e nel rileggere/riscrivere l'opera di Goethe pretenziosa e sfacciata, in ogni momento sublime e viscerale. (SP)
Voto: 9
Life Without Principle
di Johnnie To – In concorso
Una giornata, un ginepraio di storie immerse in un gioco di cui nessuno rispetta le regole. È il giorno del crack finanziario della Grecia che infliggerà un ennesimo colpo alle finanze mondiali in un periodo di crisi globale quello in cui il regista hongkongese Johnnie To getta i personaggi del suo “Life without principle”. Tutti bisognosi di denaro verranno travolti e coinvolti in una storia che dalla mafia all'alta finanza attraversa ogni strato sociale. Mastro nel ritmo e nella messa in scena To struttura il suo film come una piramide di eventi che tendono verso uno stesso ultimo punto, prima dilatando e poi serrando sempre più i tempi il film procede in una fuga concitata verso il finale. Il denaro è il cuore della pellicola e attorno ad esso ruotano tutti i personaggi con i loro sentimenti e la violenza che sono capaci di agire. Quali scelte compieranno? Cosa arriveranno a fare per una porzione di ricchezza? Una pellicola intricata e che con una interessantissima narrazione ellittica degli eventi mantiene alta la tensione per la sua intera durata. Un film decisamente cool. (SP)
Voto: 6.5
8 SETTEMBRE
L'ultimo terrestre
di Gian Alfonso Pacinotti – In concorso
Luca è alienato dal mondo in cui vive e si trova a vivere l'alba dell'arrivo degli alieni sulla terra. Non riesce a stabilire relazioni, se non con il padre e la sua amica trans Roberta, vive ai margini di un mondo che lo emargina e dal quale, diffidente, si tiene a sua volta a distanza. Incapace di fidarsi delle donne, vive sulla soglia di una società che nei più differenti modi attende l'imminente sbarco dei visitatori extraterrestri: chi prega e si affida all'enciclica papale “Adventus martianis”, chi cerca risposte in truffatori che propongono bislacche filosofie new age, chi ha paura o chi semplicemente continua la propria vita come nulla fosse, come Luca. Come Luca che prosegue la sua vita da alieno, da diverso, strano, isolato da una società fatta di denaro e di sesso (spesso fatto per denaro), come Luca che non riuscendo a superare i confini che trova e le barriere che interpone tra sé e gli altri guarda il mondo attraverso un binocolo. C'è chi rivolge i telescopi verso il cielo, chi invece da lontano guarda in basso. Commedia e tragedia delle contraddizioni, con “L'ultimo terrestre” finalmente una buona pellicola italiana sbarca al Lido veneziano, comica e intelligente manipola la società italiana in una distopia fantastica che nel suo grottesco risultato ci restituisce un realistico e conciso ritratto del mondo in cui viviamo. Buona la prima per il fumettista, ora anche regista pisano Pacinotti. (SP)
Voto: 6.5
4:44 Last day on Earth
di Abel Ferrara – In concorso
Pretenzioso, noioso, pacchiano e profondamente ruffiano Abel Ferrara, con una carriera di tutto rispetto alle spalle, guarda all'apocalittico futuro col suo ultimo lavoro “4:44 Last day on Earth”. La fine della terra è vicina e causata dalle scellerate azioni degli uomini stessi che con le loro azioni hanno condotta ad un tale assottigliamento della barriera d'ozono da risultare infine fatale, è l'ultimo giorno prima della fine di tutto mentre in un appartamento newyorkese una coppia spende le ultime ore tra ordinaria quotidianità ed esplosioni emotive. Un film ridicolo, nella sceneggiatura e nella regia entrambe firmate Ferrara, Dafoe ce la mette tutta, ma si fa trascinare a fondo dalla barca sgangherata che il regista americano prima manda alla deriva infarcendola di banali riflessioni eco-teo-esistenziali e poi inabissa con un simbolismo facilone. Tra ammiccanti uroburi e banalizzazioni del pensiero buddista degne del miglior discorso da bar provinciale, tra un senso di colpa latente e l'impossibilità della redenzione la pellicola vorrebbe spingere in direzione di un umanitarismo basato sul reciproco rispetto e sulla fratellanza tra gli uomini. WOW, questa si che è avanguardia! Il regista americano sembra stanco e sbrigativo, non è chiaro nel comunicare e nel dirigere anche se di spunti interessanti ce ne sarebbero, ma non sviluppati o non adeguatamente per lasciar spazio sempre alla più semplice e comoda soluzione; raggiunge l'eccellenza solo la fotografia in questa pellicola di cui si posso salvare una manciata di scene. Troppo poco. (SP)
Voto: 4.5
7 SETTEMBRE
Sbadigli e qualche fischio alla prima del film di Cristina Comencini. Sotto le aspettative l'opera di Sion Sono, e anche "Cime Tempestose" di Andrea Arnold, con Kaya Scodelario protagonista.
People Mountain, People Sea
di Cai Shangjun – In concorso
"People Mountain, People Sea" del regista cinese Cai Shangjun è il film sorpresa della 68° Mostra del Cinema di Venezia. A ben vedere, più che di una sorpresa si è trattato di un vero calvario: l'anteprima prevista in mattinata nella sala Pasinetti è stata infatti annullata per un problema tecnico e rinviata al pomeriggio nella sala Darsena. Ma la proiezione è stata di nuovo annullata nel bel mezzo del film a causa di un falso allarme che ha visto metà della sala, giuria compresa, fuggire dal panico dalla grande struttura (per la cronaca, la colpa è da imputare ad una lampada alogena andata in cortocircuito, ndr). La storia è quella di un uomo che parte alla ricerca dell'assassino del fratello minore, una storia di vendetta sullo sfondo di una Cina povera e violenta, privata di ogni forma di giustizia. Lo stesso regista dichiara: "In Cina la legge c'é ma nelle zone più remote del Paese si sta ancora 'costruendo'. In situazioni come quella del film prevalgono le leggi sotterranee e sociali". (MD)
Hahithalfut (The Exchange)
di Eran Kolirin – In concorso
L'oggettività delle cose, l'esser-oggetto degli oggetti non è mai qualcosa di già stabilito a priori, fisso e immobile, dato e in quanto tale mortifera presenza di un mondo eternamente identico. Ogni oggetto è sempre oggetto per un soggetto umano che vi si rapporta, che ci entra in contatto nel suo uso quotidiano e che in quest'uso lo riempe di senso. Ogni oggetto è oggetto per un soggetto che si trova ad averci a che fare a partire da un certo stato emotivo, da una determinata prospettiva, ma cambiando l'attitudine di chi vi si rapporta ogni oggetto acquista un differente significato e un nuovo senso. Partendo da questi impliciti presupposti il regista israeliano Kolirin ci presenta una inaspettata sorpresa a questa mostra del cinema di Venezia nella sua opera “Hahithalfut”, un film tanto profondo quanto divertente che racconta l'odissea tra gli oggetti di Oded, dottorando in fisica, che scopre inaspettatamente le infinite possibilità intrinseche alle cose a partire dalla prospettiva in cui le guarda. Tutto prende avvio da una improvvisa sensazione di estraneità all'appartamento in cui vive, tanto semplice e comune quanto spaesante, che lo condurrà a cercare sempre nuovi modi di affacciarsi sul mondo degli oggetti, delle cose, degli spazi che da sempre lo circondano o che ancora non sie era spinto a cercare di conoscere. In un eccezionale equilibrio tra riflessività e humor il regista Kolirin dirige questa meravigliosa, grottesca avventura: come uscire dalla propria vita e rientrarvi da estranei. (SP)
Voto: 7
Himizu
di Sion Sono – In concorso
Un bel passo indietro rispetto a “Cold Fish”: tra disagio esistenziale e conflittuali (fino alle estremamente conseguenze) rapporti genitori/figli si muove il film “Himizu” con tensione e lirici voli sopra le macerie post tsunami in un altalenante pastiche di generi e tematiche che non si amalgamano tra loro, ma lottano e spiazzano lo spettatore che si trova immerso in un mare dalle contrastanti correnti. Storia di formazione, deformazione e di una violenta distruzione mostra un japanese dream fatto di ordinaria mediocrità e brutale annichilimento, ma è proprio la de-costruzione che edifica nei personaggi una scintilla vitale. “Himizu”, in italiano “La talpa” (sì, proprio come il film di Alfredson), è una pellicola troppo discontinua ed altalenante che non riesce mai a trovare una propria distinta identità, ma regala momenti di grande cinema, infatti, vale la pena vederlo anche solo per la straordinaria sequenza d'apertura: un piano sequenza onirico sulle macerie lasciate dal passaggio dello tsunami mentre una voce off declama le parole di Villon "Riconosco una mosca nel latte, riconosco un cavallo da un asino, riconosco chi lavora da chi non fa niente, riconosco il sonno dalla veglia, so riconoscere un uomo dall'abito. Conosco tutto, tranne me stesso". (SP)
Voto: 6.5
Quando la notte
di Cristina Comencini – In concorso
Sceneggiatura prevedibile e dialoghi rinvenuti nel cestino a fianco della scrivania: se Crialese aveva deluso col suo “Terraferma” la Comencini annoia e l’Italia per il momento non ci fa una bella figura. Anche Filippo Timi, di solito bravissimo, alle prese con un personaggio troppo caricato e piatto, casca male e non riesce a risollevare le sorti di un dramma deludente. Marina si reca in montagna con il figlio di due anni per un mese e conosce la ruvida guida alpina Manfred. Seguono sviluppi tutto sommato prevedibili. Psicologia da supermercato e metafore per duri d’orecchi (quel quadro in ospedale che ritrae una moderna Madonna con bambino ripetuto due volte), “Quando la notte” è prima di tutto una storia di figli e genitori, ma soprattutto di madri. Gli uomini rischiano di diventare ectoplasmi informi e macchiette inutili. La storia d’amore tra i protagonisti si sviluppa soprattutto nella seconda parte, scadendo anche nel ridicolo – complici i dialoghi di cui sopra. Quando la noia. (DD)
Voto: 5
Wuthering Heights
di Andrea Arnold – In concorso
Le cime tempestose della regista, già premio Oscar, Andrea Arnold sembrano piuttosto un'interminabile cordigliera che si estende per le due ore e mezza di durata e adatta nel più crudo modo possibile l'omonimo e celebre romanzo. La storia è sempre la stessa, la rappresentazione è affascinante e nella curatissima messa in scena emerge come vero protagonista la natura dello Yorkshire: alcune riprese spesso in controluce nell'avvolgente fotografia naturale ricordano immediatamente il recente “The Tree of Life” facendo avvertire un senso di ridondanza, ma proprio nella rappresentazione dell'ambiente naturale il film trova il suo punto di forza. Visivamente apprezzabile, in alcune scene vividamente intenso, sulla distanza ripetitivo e noioso. (SP)
Voto: 5.5
Ennesima trasposizione cinematografica del classico di Emily Brontë. Viene da chiedersi se davvero se ne sentisse la mancanza. Andrea Arnold ci mette del suo con tutto l'impegno possibile per smarcarsi dalle opere precedenti, ma il risultato è abbastanza monotono. La regista di "Red Road" sembra concentrarsi sull'animalità di Heathcliff e Catherine al di là del loro amore impossibile e tormentato: lei lecca le ferite di lui, lui si lecca le labbra alla vista del sangue di lei. La cinepresa indugia sugli animali, cani, lepri braccate, tormentati o uccisi senza pietà dalla rabbia feroce di Heathcliff - che lo porta a sbattere letteralmente la testa contro il muro. Camera a mano, inquadrature concitate, buie, cupe, claustrofobiche si alternano ad aperture su paesaggi brumosi, dalla fotografia fredda e accecante. Girato in 4:3, ripropone spesso le fessure attraverso cui Heathcliff guarda, osserva, medita vendetta. Aspettiamo fiduciosi la prossima opera della Arnold, nella speranza di vedere qualcosa di più personale e non solo personalizzato (DD).
Voto: 6
Camera a mano, audio in presa diretta, Jonathan Demme si reca nel quartiere di Lower 9th Ward a New Orlerans dove abita la signora Carolyn Parker, divenuta ammirevole simbolo di una lotta personale per ottenere la ricostruzione della propria casa e della chiesa dopo l'uragano Katrina. La signora Parker è stata l'ultima a evacuare l'area e la prima a ritornare. Pur abitando per tre anni in una sistemazione provvisoria e fatiscente, la Parker e sua figlia non hanno mai perso la speranza di far ritornare le cose come prima. Un progetto personale con cui Demme mette la sorridente e tenace signora Parker di fronte alla cinepresa e le fa raccontare la propria vita. Compaiono i suoi figli e suo fratello, veniamo a conoscenza del loro passato e delle loro aspettative, dei problemi alle ginocchia della signora Parker e della sua ricetta per il pollo: il tutto con estrema genuinità e contagiati dalla sua vitalità e dal suo ottimismo. Ma Demme ce la mostra in tutta la sua naturalezza e non risparmia anche i momenti difficili, come quando in chiesa sembra rubare un'immagine della sua protagonista momentaneamente sconfortata. Un ritratto umano per un progetto coltivato negli anni che racconta gli strascichi della tragedia dell'uragano Katrina da un punto di vista semplice e reale. (DD)
Voto: 6,5
Là-bas
di Guido Lombardo – Settimana della Critica
A Castel Volturno 3 anni fa la camorra uccise sei migranti africani in una sartoria per una rappresaglia legata allo spaccio di droga nel territorio. Lombardo racconta l’immigrazione africana e la mancanza di alternative che spesso si riducono a una drastica scelta di campo tra la malavita e la vendita di fazzoletti ai semafori. Yssouf è il classico (ma vero) personaggio pulito e idealista, con ambizioni da artista, che vorrebbe rimanerne fuori, ma rimane invischiato a causa di suo zio Moses che gli mostra la via più facile. La criminalità si ingoia tutto, si porta via tutto: l’amore, le ambizioni, i sentimenti, le amicizie e ti lascia nudo a scappare, a correre, a cercare rifugio lì dove sapevi che era giusto stare fin dall’inizio. Basso costo e impegno civile per un film impegnato, onesto, lodevole e apprezzabile nelle intenzioni, un po’ meno nello sviluppo e nello stile che risente di qualche ingenuità e di qualche cliché da gangster movie. Grande impegno e partecipazione del cast. (DD)
Voto: 6
6 SETTEMBRE
Il ritorno di Tomas Alfredson sulla scia di un'elaborata spy story ambientata in piena Guerra Fredda. Presentato fuori concorso anche l'ultima fatica del Maestro Ermanno Olmi: "Il villaggio di cartone"
Tinker, Tailor, Soldier, Spy
di Tomas Alfredson – In concorso
Uscirà nelle sale italiane nel Gennaio 2012 con il titolo “La talpa” questa intricata spy story firmata Tomas Alfredson. Il regista svedese già autore nel 2008 di una delle più interessanti pellicole horror dell'ultimo decennio, il delicato “Lasciami entrare”, si mette nuovamente alla prova con un film di genere. Alfredson questa volta prende in mano il thriller adattando per il cinema un romanzo di John LeCarré ambientato nella Londra degli anni '70. Lo sguardo del regista si posa delicato in ogni inquadratura con lenti movimenti di camera che fendono lo spazio e riportando il filone spionistico al più classico whodunit basato sulla parola ed il discorso. Continue citazioni hitchcockiane si succedono nel corso della pellicola incasellando in un immaginario classico le spie malinconiche di Alfredson: come la camera si fa largo negli spazi così il regista penetra nel cuore della solitudine dei suoi personaggi incapaci ed impossibilitati d'avere relazioni autentiche, personaggi cui è stata negata ogni possibilità di credere e fidarsi dell'altro. Sospetto, angoscia, un vuoto isolamento interiore è tutto quello che resta nel grigio Circus dell'intelligence britannica. Dimenticate feste sfarzose in lussuose ambasciate e lunghi inseguimenti con sparatorie all'ultimo caricatore, non pensiate di trovare frenetici montaggi e spettacolari esplosioni perché “Tinker, Tailor, Soldier, Spy” riconduce il filone spionistico alle sue componenti elementari dirigendosi nel più classico ed elegante dei sentieri. Con un accurato tocco estetizzante il regista riversa nella pellicola la sua lettura non solo del conflitto freddo, ma anche dell'atmosfera di quegli anni: sono delle piccole perle i flashback di una festa degli anni '60. Così la pellicola si fa largo lasciando spazio ad un realismo freddo e indicando il rapporto omoerotico tra i personaggi di Firth e Strong ci consegna le prime figure di 007 gay semplicemente accennandolo nel sottotesto, ma affidandogli le chiavi per poter interpretare a pieno le emozioni e le azioni del personaggio interpretato da Mark Strong vibranti in quel lento distante bacio di piombo che grida nel silenzio del finale. In concorso a questa Mostra veneziana Alfredson ci consegna il suo ultimo eccezionale lavoro. (SP)
Voto: 7.5
Guardatevi attorno perché potrebbe essere un agguato. Potrebbe anche essere vero il sospetto che aveva Controllo: che ai vertici dei servizi segreti di Sua Maestà si sia infiltrata una talpa di Mosca. Tocca allora a Smiley, fresco di pensione, tornare operativo e indagare sui vecchi compagni di squadra: lo stagnino, il sarto e il soldato. Il titolo originale fa riferimento a una filastrocca inglese, che al posto di “spy” proseguirebbe con “sailor”. Efficace riduzione del romanzo di John Le Carré del 1974 (in italiano “La talpa”), con un cast di altissimo livello: Gary Oldman, Colin Firth, John Hurt, e molti altri volti familiari. La regia è assolutamente funzionale alla storia, senza sbavature, a volte fin troppo accademica. Il film, pur non entusiasmando e non uscendo da certi canoni, ha il pregio di mantenere sempre alta la tensione e il livello di attenzione, complice anche una sceneggiatura chiara, che non si fa mai involuta come succede a molte spy story. Elegante nelle musiche, nei costumi, nella creazione delle atmosfere, si cala in piena guerra fredda tra Budapest, Istanbul e Londra, negli intricati meccanismi di equilibri del gioco a scacchi tra i due blocchi, svelando il sottile confine che separa la scelta di campo e la lealtà in tutti i sensi. (DD)
Voto: 6,5
Tao Jie - A Simple Life
di Ann Hui – In concorso
La storia vera di Ah Tao, domestica di 4 generazioni della stessa famiglia, viene raccontata dalla regista cinese Ann Hui con estrema sensibilità evitando ogni superfluità e aggirando il rischio (sempre in agguato in pellicole del genere) di cadere in una pacchiana retorica sentimentale. Con una regia asciutta, che rispettosamente cerca di far emergere i personaggi da sé a partire dal loro quotidiano, incastra lentamente tante istantanee del carattere di Ah Tao e del suo rapporto col figlioccio Roger che ha cresciuto più come una madre amorevole che come una efficiente domestica. Ann Hui è essenziale, quasi documentaristica nel seguire la vita del microcosmo di un ospizio di Hong Kong dirigendo una pellicola che fa ridere e fa piangere con la semplicità che indica sin dal titolo. Si potrebbe rimproverare una eccessiva lunghezza della pellicola ma la straordinaria interpretazione di Deanie Ip, probabilmente la migliore sin ora in questa rassegna, incanta. (SP)
Voto: 6.5
Conferenza stampa "Il villaggio di cartone"
Ventitré anni dopo “La leggenda del santo bevitore” Ermanno Olmi e Rutger Hauer si ritrovano per “Il villaggio di cartone” presentato fuori concorso a Venezia 68, ma il regista spiega che i loro contatti umani non sono mai andati perduti. A presenziare al loro fianco anche Michael Lonsdale. Olmi spiega la necessità di liberarsi dagli orpelli, anche di una certa cultura, perché altrimenti “saremo solo maschere, uomini di cartone, incapaci di entrare in contatto con gli altri”. Riguardo al tema della solidarietà fortemente presente nel suo film, dice: “Se non apriamo la nostra casa agli altri non possiamo aprire quella del nostro animo per entrare in contatto con loro”. E a chi sottolinea come il suo percorso artistico sia stato spesso contraddistinto dal dubbio della fede, che ne “Il villaggio di cartone” è espresso dalla figura di un prete con dubbi religiosi, dichiara che per essere uomini di fede è necessario avere dubbi. “E’ comodo affidarsi alle ideologie, dobbiamo pensare in proprio: questa è libertà. La storia è sempre la stessa: la lotta tra bene e male. Cambia con le epoche, ma è cominciata con la vita stessa”. (DD)
5 SETTEMBRE
L'umorismo cinico di Solondz raccoglie molti consensi alla prima proiezione, così come si rivela una gradita sorpresa "Shame", il viaggio nelle perversioni di Steve McQueen con uno strepitoso Fassbender. Delude il "Terraferma" di Crialese.
Terraferma
di Emanuele Crialese – In concorso
Né infamia né lodi per l'ultima fatica di Crialese. Il regista italiano, tanto atteso a questa mostra veneziana, con il suo “Terraferma” presenta un polpettone ricco di buoni sentimenti, di colpe e di redenzioni inscenate attraverso delle ridicole interpretazioni attoriali. Una finocchiaro minuscola, immota espessione di bronzo per Filippo Pucillo. Sarebbe tuttavia difficile stroncare completamente la pellicola perché lo sguardo del regista si impone come uno dei più interessanti del panorama nostrano. Ma la pellicola è e resta pretenziosa nel voler affrontare un tema politico di petto, indecisa nel non risolversi ma semplicemente nel seguire i personaggi, insipida nel riproporre contrasti già presenti nella tragedia greca (lo scontro tra la legge del cuore e quella dello stato) in una salsa buonista e melensa. Il fatto che il panorama cinematografico italiano sia una oscena terra desolata aperta al dileggio e stuprata dalle barbare scorribande di continue oscenità di celluloide non ci autorizza ad osannare una pellicola decente come nuova terra promessa. Naufragio. (SP)
Voto: 5
Il tema dell' "isola" sembra essere un pallino fisso per il regista di origine siciliana. Questa rappresenta la porta di accesso al pensiero dominante di un autore che in pochi anni ha catturato gli occhi della critica italiana grazie all'originalità di una poetica genuina, come testimonia "Respiro", il suo film più riuscito. Il concepimento di "Terraferma" va invece ricercato nel progetto del film precedente, "Nuovomondo", in cui veniva analizzato il concetto dell'emigrazione italiana. Il nuovo lavoro di Emanuele Crialese, presentato in concorso alla 68° Mostra del Cinema di Venezia, ne capovolge il tema cardine virando per contro sull'immigrazione, problematica ben più scottante ed attuale dati i precedenti dell'ultimo ventennio (ricordiamo l'Albania descritta da Amelio in "Lamerica"). L'Idea di intraprendere un percorso come questo, tanto umanitario quanto ostico, richiede sicuramente un'accurata disamina e un'attenta riflessione del problema. "Terraferma" non sempre ci riesce, anzi, sembra cadere nel tranello della facile e buonista demagogia, ribadendo più volte una visione dell'insieme sicuramente condivisibile ma pur sempre moralistica e facilotta (il finanziere Santamaria tratteggiato come un perfido nemico del popolo, il ralenti eloquente all'arrivo dei carabinieri in spiaggia). Ma il film è anche in grado di strappare meritati applausi, come dimostrano le sequenze dell'attacco notturno al peschereccio o l'ironia graffiante rappresentata da una gara di tuffi su di un'imbarcazione turistica guidata da un cinico Beppe Fiorello e sulle note della celebre Maracaibo. Crialese si schiera da subito con nonno Ernesto, punta tutto sulla saggezza delle tradizioni tramandate da padre a figlio, quella che ne eleva famiglia e spirito di umanità. Valori che cozzano irrimediabilmente con gli interessi privati ed egoistici del figlio ("Adesso stai a vedere che la pubblicità è più importante di un povero cristo lasciato in mezzo al mare" sono le parole di nonno Ernesto). Dell'intero cast la Finocchiaro è sicuramente la più profonda ed espressiva, al contrario di altri personaggi fantasma che non riescono mai ad entrare nel racconto (i tre ragazzi del nord in villeggiatura, il bambino etiope geloso del fratellino appena nato). La strabiliante plongèe conclusiva non basta a fare di "Terraferma" un film ambizioso capace di entrare in lizza con altre pellicole di Venezia. Rimane la concretezza di un film sostanzialmente onesto ma che non commuove anche a causa di una prevedibile impronta didascalica. (MD)
Voto: 6
Crialese si perde nei meandri di una retorica piuttosto facile e telefonata e ne esce un pasticcio. Tra la vita nella piccola isola siciliana in mezzo al Mediterraneo e gli sbarchi di clandestini che pongono il dilemma etico sulla solidarietà e il conflitto tra leggi (quella del mare e quella italiana, di fatto e di diritto), Crialese sceglie una strada facile che non convince più di tanto. Focalizza l’attenzione su una famiglia di pescatori e sul salvataggio di una profuga incinta, e salvo qualche impennata emozionante, è un film irrisolto. Persino la Finocchiario, di solito bravissima, sembra trovarsi impacciata. Si avvertono eco lontane, reminescenze di Pasolini, nel verismo della storia, nell’uso della lingua, nella frontalità di alcune inquadrature, e in quel Filippo Pucillo che ricorda Ninetto Davoli. Spiace dover liquidare un film italiano di uno dei nostri registi più interessanti, ma sembra di essere di fronte al temino svolto con le migliori intenzioni da uno dei primi della classe, ma senza troppa ispirazione. (DD)
Voto: 6
Dark Horse
di Todd Solondz – In concorso
Script strepitoso, che combina elementi, tempi e codici della commedia brillante con il surreale, l’onirico e il viaggio mentale per cortocircuiti alla Charlie Kaufman. Il regista di “Happiness” conferma la propensione della 68° Mostra del Cinema per un umorismo caustico, cinico, cupo, corrosivo e pessimista. Ma “Dark Horse” sa essere ancora più spietato di “Carnage” e di “Puolet aux Prunes”. Come per il film della Satrapi non c’è davvero speranza per Abe, un bambinone che ci fa ridere e sorridere, ma allo stesso tempo suscita amarezza, un profondo senso di pietà. Solondz si serve di musiche pop di pessimo gusto che, come in altri suoi film ("Happiness", "Perdona e dimentica"), diventano didascaliche per la storia che sta raccontando e i sentimenti che vivono i suoi personaggi. Solondz indaga nuovamente i rapporti umani, interpersonali e familiari. I suoi personaggi hanno tutti bagagli pesanti: per dirla con Abe “siamo tutti persone orribili”, portatori sani di miseria e disperazione che Solondz sa raccontarci con un sorriso beffardo sulle labbra, scommesse perse in partenza. Il titolo infatti è un’espressione per definisce un outsider su cui vale la pena di scommettere: quello che Abe vorrebbe essere per suo padre. Dopo una prima parte divertente assistiamo a un calo fisiologico e a una virata verso il surreale. Un po’ come per il film della Satrapi, che si dirigeva però verso il sentimentale. Gli autori di Venezia mandano SOS disperati di un’umanità in crisi, sola, rassegnata e incattivita. Il film di Solondz è uno schiaffo in faccia assestato guardandoci dritto negli occhi con l’espressione austera del padre di Abe, un fantastico Christopher Walken. (DD)
Voto: 8
I film firmati da Todd Solondz si riconoscono all'istante. Non che risultino mai ridondanti o pomposi, anzi. La fantastica propensione del regista statunitense nel saper fondere tristezza e ilarità, cinismo e pietà lo rendono quasi unico nel panorama cinematografico internazionale, il caso vuole, al pari dell'ultimo Polanski. "Dark Horse" (ovvero la "scommessa", il cavallo nero su cui puntare) inizia in modo similare all'ultimo "Perdona e dimentica", la mdp fa capolino su un tavolo che funge da collante al dialogo tra un uomo e una donna, due tipici perdenti di stampo solondziano. Ma questa volta lo script non è concentrato su più avvenimenti bensì tiene il peso di un'unica vicenda, quella di un bamboccione peterpaniano che vive ancora in casa dei suoi genitori (tra gli attori, tutti molto bravi, spunta la maschera inespressiva di un superlativo Christopher Walken), Il quale si innamora di una giovane donna dilaniata dalla depressione e affetta da altri gravi problemi di salute. Per la prima volta Solondz sprigiona con rabbia il suo pensiero dominante attraverso i dialoghi del protagonista principale Abe (lo sfogo prolungato sulla cattiveria degli uomini), pensiero che raggiunge l'acme nel bellissmo e crudele epilogo. Nel mezzo, la solita agghiacciante ironia (soprattutto nel tema musicale) che più di una volta confluisce in vera e propria demenzialità vista anche l'indole del protagonista. E ancora, gli accattivanti intermezzi onirici, la ciclicità delle azioni compiute da Abe. Elementi che non fanno altro che denotare la staticità dell'essere, la triste condizione del genere umano, la sua sostanziale inutilità ("Nessuno ha bisogno di te"). In fondo di "cavalli neri" mancati il mondo è pieno e sono più di quelli che uno pensa. Solondz ce lo insegna. (MD)
Voto: 7
Insospettabile perverso, Brandon, vittima delle proprie ossessioni, debole e disperato, ma dal fascino magnetico. Un rapporto quasi incestuoso con la sorella Sissy, che il protagonista tenta di allontanare da sé, di evitare, quasi come se quell'attrazione profonda, angosciante, che provoca ancora più vergogna, andasse soffocata in ogni modo possibile: mortificandosi con un sesso che si fa via via più vuoto, più estremo, reiterato, malato. Brandon non è in grado di provare altri sentimenti: qualunque rapporto che sembra poter essere più profondo è inconciliabile col sesso che per lui rimane legato al solo atto sterile e fine a se stesso, la pornografia, la masturbazione, la prostituzione. Michael Fassbender generoso e straordinario, una delle migliori interpretazioni maschili della Mostra, incarna nel proprio corpo il dolore della sua stessa depravazione. Carey Mulligan si lascia alle spalle i bronci coi lucciconi di "An Education" e "Wall Street il denaro non dorme mai" per un caschetto biondo e un personaggio complicato da disadattata. La regia di McQueen è coadiuvata da una fotografia curatissima, non ha paura di indugiare con long-take sui volti, sulle situazioni. Soprattutto ha il grande merito di andare fino in fondo con lucida coerenza, premendo sull'acceleratore anche nelle scene più estreme e sofferte. Una gradita sorpresa "Shame": crudo, intenso e coraggioso. (DD)
Voto: 8
La 66° edizione della Mostra del Cinema di Venezia decretò, tra le altre cose, il successo a sorpresa di Tom Ford che, pur in un campo a lui pressochè sconosciuto, riuscì con immensa bravura a partorire un dramma profondo e maturo impreziosito da un meticoloso stile registico. Oggi la storia che più assomiglia a quella dello stilista statunitense è sicuramente quella di Steve McQueen, regista, scultore e fotografo britannico. "Shame" è la sua opera seconda, dopo l'esordio folgorante di "Hunger" (che tra l'altro si è anche aggiudicato la Caméra d'Or a Cannes per il miglior esordio). Protagonista è ancora una volta Michael Fassbender e la "vergogna" del titolo è quella del suo personaggio, un uomo profondamente disturbato dal sesso, ossessione che prende forma in una patologia incontrollabile.
"Shame" è un film devastante. che esprime con spiazzante facilità e commovente bellezza le pulsioni di un uomo messo a nudo dalla sua dignità. Come ha sottolineato lo stesso regista, Brandon è imprigionato mentalmente, isolato da qualsiasi relazione/comportamento che possa discostare dal sesso, unica vera fonte di nutrimento per la sua anima. La mdp persevera costantemente dinanzi a nudi integrali, ai rapporti sessuali e alle svariate forme di depravazione che il personaggio commette senza mai scadere in un eccesso fine a se stesso. Pellicola che ricorda molto da vicino lo scandalo di "Eyes Wide Shut" e il culto della carnalità dei corpi di "Crash" (le cicatrici della sorella, i primissimi piani dei corpi nudi), "Shame" emana tutto lo spleen della poetica baudelairiana e capovolge con deplorevole cinismo il Brassens di "Les Passantes" ("les lêvres absentes de toutes ces belles passantes"). La padronanza, l'eleganza e assieme la maturità di Steve McQueen (nonostante abbia solamente poco più di quarant'anni) è poi testimoniata dalla forte impronta gestuale ed espressiva, da dialoghi scarni e indidpensabili, da una colonna sonora trainante e da una cartolina d'amore tutta dedicata a New York (i grandi grattacieli a vetro, le luci notturne che immergono la metropoli in un'atmosfera eterea, la lenta "New York, New York" cantata da una bravissima Carey Mulligan).
L'ultima nota di merito, forse la più importante, va a Michael Fassbender e alla sua prova mostruosa: una maschera perfetta ed anonima pronta ad esplodere a contatto con l'impulso sessuale. Coppa Volpi già prenotata. Film eversivo e contemporaneamente indispensabile "Shame" è sicuramente l'opera che ad oggi meriterebbe di vincere il Leone d'Oro alla 68° Mostra di Venezia. (MD)
Voto: 8,5
McQueen è molto più che un regista dal talento indubbio: amante di lunghi, intensi e mai sterili piani sequenza, coinvolgente nel saper coniugare una semplice e stringata costruzione del dialogo con una sua unica grammatica delle immagini, capace di giocare con una narrazione ellittica senza risultare criptico e soprattutto maestro nel gestire e trasmettere estreme emozioni di confine. Può prendervi e sbattervi contro la pellicola ancora ed ancora finché non sarete entrati nello stato emotivo che vuole iniettarvi. Chi è rimasto affascinato dal suo precedente lavoro “Hunger” potrà ritrovare in “Shame” le medesime ragioni per apprezzarlo nuovamente. Un film che si avverte epidermicamente e che rovescia il discorso che sottostava al suo precedente lavoro: se allora il protagonista si trovava incarcerato e attraverso la dimensione fisica si creava il suo spazio e conquistava una libertà ora Brendan (Fassbender) libero, bello e ricco nella New York dalle infinite possibilità, si crea la propria prigione fatta di sesso dipendenza, si confina ad un isolamento da ogni contatto con altri esseri umani che non sia puramente fisico. “Shame” è un film che si può avvertire fisicamente come un pugno nello stomaco, offerto da un regista di capacità potenzialmente illimitate con a disposizione la coppia Fassbender-Mulligan in piena grazia. Se qualche appunto può essere fatto riguarda prima una certa vacuità concettuale che il terremoto emozionale scatenato può far passare in secondo piano: McQueen può farvi provare qualsiasi emozione voglia, ma non certo stimolare alcun pensiero e poi l'indecisione finale affidata ad una apertura interpretativa che inizia ad essere abusata nel cinema contemporaneo. Ma è questa indubbiamente una delle migliori pellicole presentate fin'ora da questa selezione veneziana insieme al “Carnage” di Polanski e alla perla “Alps” di Lanthimos. (SP)
Voto: 7,5
Photographic Memory
di Ross McElwee - Orizzonti
Ross McElwee è un fotografo professionista ma ancor prima un amorevole padre. Daniel, il figlio primogenito, sta attraversando il lungo tunnel dell'adolescenza tra problemi in famiglia e una preoccupante propensione all'uso di droghe e al pericolo in generale. La domanda di Ross è allora quella di tanti altri padri: "Anche io ero così da ragazzo?". Partendo da questa riflessione puramente biografica e introspettiva, il regista impugna la videocamera e parte alla ricerca del suo tempo perduto, quello che aveva vissuto in Bretagna tra Marcel (suo amico e collega di fotografie) e Maud (il suo amore più autentico) più di trentotto anni fa. Il film-documentario è un'interessante disamina proustiana sull'essere se stessi e sui cambiamenti temporali e personali che subiamo nel corso della vita, a cavallo tra ingenuità e maturità, sfrontatezza e moralità. Il parallelo tra padre e figlio fa affiorare sicuramente tutti quei valori che generazione dopo generazione stanno venendo meno a causa di una tecnologia lobotomizzante e priva di valori. Come sottolinea il regista in uno dei tanti monologhi della pellicola, oggi la fotografia non esiste quasi più e di conseguenza non ne viene più letta la sua poetica ("in ogni fotografia si nascondono più cose di quelle che uno si immagina"), quella che poi magicamente entrerà a far parte dei ricordi indelebili della nostra vita passata. (MD)
Voto: 6,5
4 SETTEMBRE
Soderbergh contagia il Lido con il suo cast stellare. Ad affiancarlo durante la presentazione di "Contagion" Matt Damon e Gwyneth Paltrow. Al Pacino raccconta la sua passione per Oscar Wilde, mentre sul fronte Orizzonti James Franco dedica un documentario a Sal Mineo.
ContagionVoto: 7
Wilde Salomé
di Al Pacino - Fuori concorso
Voto: 6.5
Conferenza stampa “Wilde Salomé”
Camicia bianca e capello lungo per lui, vestito rosso e sorriso smagliante per lei: Al Pacino e Jessica Chastain rispondono alle domande dei giornalisti su “Wilde Salomé” presentato fuori concorso a Venezia. “Non so cosa sia” ammette Al Pacino, “sono confuso anch’io perché non è né un film né un documentario.” L’idea infatti era di creare un prodotto che rivelasse qualcosa su se stesso e sul processo del fare un film, oltre a dare al pubblico una diversa chiave di lettura su Oscar Wilde. Ci sono voluti molti anni a Pacino per completare “Wilde Salomé”. L’attore spiega che inizialmente non sapeva di preciso dove andare finché non ha fatto un passo indietro, come un pittore di fronte alla tela che sta dipingendo, e trovato finalmente la giusta direzione. “Oscar Wilde era un visionario” continua “anche per aver voluto una società più umana, e per questo l’hanno attaccato, anche usando la sua vita sessuale contro di lui. Era una mente superiore, rara e onesta.” Pacino sulla Chastain dichiara: “Dovevo averla per questo ruolo”. L’attrice ha raccontato il processo di lavorazione e le prove che si sono svolte a singhiozzo in diversi luoghi per molto tempo. “Per la prossima volta” chiosa Pacino “consiglio a me stesso di utilizzare una sceneggiatura” (DD)
Sal
di James Franco – Orizzonti
3 SETTEMBRE
Il pessimismo della Satrapi, l'esistenzialismo di Lanthimos e "A Dangerous Method" di Cronenberg
A Dangerous Method
di David Cronenberg - In concorso
In "Spider" la schizofrenia di Ralph Fiennes faceva il suo ingresso in scena con l'arrivo di un treno. Quasi dieci anni dopo Keira Knightley si ritrova imprigionata all'interno di una carrozza che viaggia spedita verso l'ospedale psichiatrico di Zurigo. E' un lungo passo indietro quello di David Cronenberg che mette di nuovo mano a uno dei principi cardine della sua intera filmografia: l'inconscio e la psicoanalisi. Lo fa questa volta partendo dall'origine e confrontandosi con i diretti interessati. "A Dangerous Method" elabora il triangolo umano e professionale che vede coinvolti tre grandi della moderna teoria psicoanalitica, quella che nei primi del novecento si stava affermando nella Vienna Mitteleuropea. Quel che ne esce è un raffinato ed elegante film di costume (sontuosa la fotografia) e al tempo stesso un'indagine mai doma sulle menti dei protagonisti, evidenziata dal continuo rimando epistolare tra Freud e Jung. Anche lo spettatore, al pari di Sabina, subisce in qualche modo il transfert che deriva dal cinema di Cronenberg. La carne, il sangue, il sesso, tutti elementi elevati all'ennesima potenza dal regista canadese nel corso degli anni sembrano apparentemente annullarsi in questa pellicola, per poi riemergere invece nel profondo della psiche e con maggior spasmo (gli atti sessuali di stampo masochistico, la mdp che sembra non staccare mai sulla coperta sporca di sangue, il bellissimo finale). La "trasformazione" (altro riferimento puramente cronenberghiano) del regista è continua, questo perchè parallelamente "A Dangerous Method" è anche un mèlo a tutti gli effetti, una tormentata storia d'amore tra una donna e un uomo che non può ricambiare il nobile sentimento (creando così in qualche modo una situazione inversamente proporzionale a "M. Butterfly"). Tra il cast, sicuramente da rivedere la pazzia ostentata dalla Knightley che sembra far del tutto per enfatizzare la parte, tra smorfie palesemente forzate e tic continui. Cronenberg, così come Jung, lavora sull'archetipo e sull'inconscio collettivo dello spettatore che scaturisce dal suo ammaliante cinema. E lo fa splendidamente, con un film asciutto e quanto mai crudo, come solo lui è in grado di realizzare. (MD)
Voto: 7
Lascia un po’ freddi la trasposizione sullo schermo di Cronenberg della storia d’amore tra Gustav Jung e la sua paziente (poi divenuta psicoanalista a sua volta) Sabina Spielrein. Lo sfondo è quell’Europa che si affaccia ai disastri della prima guerra mondiale e si appresta ad accogliere con fatica la portata delle teorie freudiane. Elegante messa in scena con cui Cronenberg sembra anche rendere un dovuto omaggio ai padri della psicanalisi e alla rivoluzione che i loro studi hanno portato nel mondo scientifico, sociale e culturale (“Chissà se sanno che stiamo portando loro la peste” dice Freud/Mortensen recandosi coi colleghi negli Usa per un convegno). Apprezzabile l’ironia dei dialoghi, dove emerge tutta l’importanza dell’interpretazione del sogno e della parola (la precisazione sulla distinzione tra psicanalisi e psicoanalisi), le discussioni sul transfert, l’etica e la morale (il satiro Gross/Cassel). Nemmeno Cronenberg però è immune alle insidie del film basato su fatti reali. Pur non volendo realizzare un biopic, ma concentrandosi maggiormente sul rapporto distorto e di dipendenza reciproca tra Jung e la Spielrein (è in secondo piano quello tra Freud e Jung), ne esce un’opera tutto sommato debole. Chissà come sarebbe stato se i sogni, da narrati a parole, fossero stati visibili. (DD)
Voto: 6,5
Poulet aux Prunes
di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud – In Concorso
Il pollo alle prugne è il piatto preferito di Nasser Ali che la moglie (Maria de Medeiros) prepara in un estremo tentativo di distoglierlo dal suo lucido progetto: lasciarsi morire una volta che il suo violino è andato irrimediabilmente distrutto. Di “Persepolis” restano il nome di un cinema di Teheran che il fratello di Nasser Ali tenta di proporgli per cercare di consolarlo, restano lo stile delle animazioni e degli sfondi, le tematiche di impegno politico legato all’Iran, il fumo come elemento estetico e un umorismo spietato e corrosivo. Attesa opera seconda della Satrapi che non delude e dunque non rinuncia al suo stile per confezionare una storia malinconica velata di ironia (nella prima parte) e romanticismo (nella seconda) ambientata a Teheran a fine anni cinquanta. Il violino è per Nasser Ali la sola ragione per cui vivere, che non rappresenta solo e semplicemente il fare musica, l’arte, ma anche un ricordo imprescindibile, lontano eppure palpabile, eterno – lo scopriremo poi. Nella seconda parte il film prende un po’ troppo il largo verso il sentimentale sfociando in un finale amaro, ma quello che resta è un pessimismo di fondo, un’ironia spietata e corrosiva esaltata da trovate più o meno riuscite, tra momenti demenziali (lo stile di vita americano messo alla berlina), surreali e onirici. Mathieu Amalric quasi sempre sullo schermo con la sua rassegnata espressione, tra flashback e flashforward che ci raccontano la vita del protagonista e quella di chi gli sta vicino, accompagnato dall’incantevole Golshifteh Farahani. (DD)
Voto: 7
Conferenza stampa "Poulet aux Prunes"
Il 3 settembre è stata la volta di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud che, insieme al cast principale, hanno presieduto la conferenza stampa per il dramma "Poulet Aux Prunes", storia di un musicista che si lascia morire di fame dopo che il suo amato violino viene distrutto in mille pezzi. Entrambi i registi provengono dal fumetto e dall'animazione. "Veniamo tutti e due dal disegno" spiega la Satrapi, "e il disegno è il nostro modo di fare cinema. Sicuramente continuerà ad essere il nostro futuro". Paronnaud parla invece del film: "Volevamo omaggiare il cinema degli anni cinquanta. Penso che il film sia una dichiarazione d'amore verso il cinema ma anche verso la bellezza e l'amore". Alla domanda se nella pellicola si intravedesse una flebile fiamma di speranza, la Satrapi ha così risposto lasciando la platea di stucco: "La vita stessa è nichilista, non c'è speranza nella nostra vita di tutti i giorni. Il film di riflesso è interpretato da personaggi morti". La regista francoiraniana ha poi continuato: "Tutti si ricordano di Romeo e Giulietta, tutti si ricordano Chinatown di Polanski ma nessuno ricorda le pellicole che si concludono con un lieto fine".
E' dello stesso avviso l'attore Mathieu Amalric che chiude affermando: "Poulet Aux Prunes è un film a metà tra la coscienza della vita e la consaevolezza della morte". (MD)
Scialla!
di Francesco Bruni – Controcampo italiano
Prodotto da Rai Cinema e già acclamato dalla critica, “Scialla! (Stai sereno)” è l’opera prima di Francesco Bruni, brillante soggettista di molte commedie italiane nonché sceneggiatore fidato di Paolo Virzì (“Ovosodo, “Caterina va in città”, “La prima cosa bella”), contribuendo in tal modo alle fortune riscosse dal regista livornese. A ritmo di hip hop made in Italy e costruito su di un linguaggio guascone e romanesco sin dal titolo, il film non pare centrare nuovi stimoli e anche l’intento di realizzare un film volutamente leggero e godibile viene meno a causa della sua fortissima ridondanza con le convenzioni che ruotano attorno al suo genere. Il disagio giovanile, così come l’adolescenza che incombe in relazione alla continua metamorfosi sociale, è sicuramente affrontato con piglio e con spirito giusto, prendendo le distanze insomma dal patetismo di Moccia e affini (anche se qua l’amore è più quello per la famiglia). Le risate non mancano, anzi. Ciononostante il film non ne vuole sapere di abbattere il muro del cliché e dell’ovvietà. La storia è sentita e risentita e le varie figure stereotipate (professori-amici degli studenti, padri mancanti nella vita dei figli, caduta e relativa redenzione del giovane immaturo) non aiutano certo a scardinare nuovi orizzonti alla commedia di genere nostrana. Le cose migliori? Sicuramente gli attori. Bentivoglio è perfetto nel ruolo dell’intellettuale trasandato, la Bobulova è smagliante e sexy in versione pornostar, mentre il vero trionfatore è Filippo Scicchitano, prima volta sullo schermo e già con personalità da vendere. Più che il film, la vera rivelazione del controcampo italiano sarà lui. (MD)
Voto: 5
Alps
di Yorgos Lanthimos – In concorso
Lanthimos approda al Lido con una pellicola dura e senza compromessi quanto il suo precedente lavoro, il bellissimo “Dogtooth”. Con “Alps”, film in concorso a questa mostra veneziana, riprende il discorso che aveva già iniziato, ma alzando la posta in gioco. Infatti se in precedenza descriveva uno scenario a dir poco sconcertante nel presentare un'umanità ignara del proprio destino e consegnata ad un impietoso demiurgo ora ci conduce verso un sentiero ancora più estremo: “Alps” è il nome di un gruppo di sostegno, con fini di lucro, che restituisce ad amici e parenti una persona cara deceduta inviando un “attore” che ne interpreta la parte per il tempo necessario ad elaborare il lutto. Una pallida e malata resurrezione è l'uomo di Lanthimos, una vuota marionetta incapace di vivere una propria esistenza se non cercando di riempirsi di contenuti esterni. Una pellicola difficile, che non lascia scampo, né salvezza né catarsi in questo gioco di identità rubate e di emozioni strappate al dominio della morte. Ancora una volta Lanthimos continua a porre domande interessanti, questa volta sul significato e senso dell'uomo nell'epoca della sua riproducibilità tecnica elevando ad un ulteriore e più inquietante livello ogni discorso che aveva intrapreso in “Dogtooth” si conferma come l'ultimo cantore del vuoto esistenziale nell'interrogarsi e interrogarci in cerca della possibilità di un senso al di là del naufragio tra vuoti significanti e significati sterili. (SP)
Voto: 8.5
Abbastanza pretenzioso Lanthimos con questa parabola sull’annullamento del sé. Messa in scena scandita da tempi morti, lunghe inquadrature, dialoghi surreali e ironici per quattro personaggi in cerca d’autore, o meglio di altri personaggi da sostituire e impersonare. Il gruppo “Alpi” infatti si propone di sostituire “freschi” defunti per aiutare le famiglie e gli amici a superare il trauma. In realtà per un desiderio di riempire le loro stesse vacuità con un’ossessione perversa. Il baffuto e autoritario Monte Bianco, la ginnasta e il suo maestro, e soprattutto l’infermiera Monte Rosa (davvero brava Aggeliki Papoulia) compongono il club. E se l’intento narrativo e tematico di Lanthimos è lodevole, lo svolgimento lo è un po’ meno. Sospeso in un’aria rarefatta, si respira un’intrigante e slavata atmosfera dell’assurdo che rimane attaccata addosso, ma il film lascia un senso di inappagante inconcludenza. (DD)
Voto: 6,5
Il maestro
di Maria Grazia Cucinotta – Controcampo italiano
La poliedricità della Cucinotta è sicuramente una delle notizie più interessanti del panorama cinematografico italiano. Prima modella, in seguito attrice sia per il grande che per il piccolo schermo, produttrice di pellicole italiane e internazionali e ora anche regista in questo cortometraggio presentato alla Mostra di Venezia e in lizza per la sezione Controcampo. “Il maestro” del titolo, come ha lei stesso affermato, rappresenta la vita di tutti i giorni ed è interpretato con bravura da Renato Scarpa. Si tratta di un lavoro a carattere autobiografico carico di alienazione e solitudine senile, ma che si conclude con un commovente slancio di speranza. (MD)
Toutes nos envies
di Philippe Lioret – Giornate degli autori
Lioret è affascinato per sua stessa dichiarazione dagli incontri prima che dalle storie, gli incontri e i percorsi delle persone (i personaggi, ma anche gli attori), e dai problemi sociali. A chi gli chiede l’ingrediente segreto dei suoi drammi rivela che è una questione di energia, quell’energia che si trova proprio nelle persone, nella verità dei volti, nel fatto di raccontare una storia giusta e che coinvolge tutti. E ci riesce anche questa volta il regista di “Welcome” con un film toccante, profondo, intenso e doloroso. Lioret sa essere asciutto, diretto, senza artifici e mai banale, propone un cinema semplice e profondo, fatto di piccole cose (volti, appunto, storie verosimili), con la grande capacità di mettere l’attore al posto giusto all’interno dell’inquadratura e nello spazio. Sono personaggi coraggiosi, tenaci e insistenti quelli di Lioret, con cuori forti, tanto da affrontare l’attraversamento della Manica a nuoto, o, come qui, da sostenere con dignità la sorte di un male incurabile per tentare di esaudire in qualche modo i propri piccoli desideri. Personaggi che oppongono la solidarietà e la speranza in un mondo crudele e dalle leggi (di natura e dell'uomo) spietate. E proprio il sostenersi a vicenda sembra per Lioret una delle poche vie praticabili. La tematica sociale questa volta si esprime nei contratti-frode e nelle pubblicità ingannevoli delle società di prestiti facili. Ma sono soprattutto i due protagonisti, l’incantevole ed elegantissima Marie Gillain, e Vincent Lindon, confermato dopo “Welcome” a colpire e lasciare il segno. Lunghi minuti di applausi in sala per una delle opere più interessanti viste finora alla Mostra da chi scrive. (DD)
Voto: 8
Café de Flore
di Jean-Marc Vallée – Giornate degli autori
Torna a Venezia dopo sei anni da “C.R.A.Z.Y.” il canadese Jean-Marc Vallée nella sezione Giornate degli autori con un film che ha come filo conduttore la canzone omonima del titolo. È lo stesso Vallée a dichiarare che la genesi è proprio il tema musicale da cui sono derivate le immagini e la storia, imperniata su temi di amore, pace e riconciliazione. La musica ha quindi un peso fondamentale nel legare le due storie parallele: una ambientata a Montreal nel 2011, l’altra a Parigi nel 1969. Da una parte un quarantenne che ha tutto dalla vita (benestante, sano, un lavoro eccitante da deejay, una donna che ama e due figlie avute dal matrimonio precedente), dall’altra una donna coraggiosa e forte, costretta ad allevare da sola un figlio affetto da sindrome di Down, portatrice di un amore materno viscerale ed estremo. Musiche scelte pensando soprattutto ai Sigur Ros, che, dice Vallée “fanno venire voglia di vivere e di fare cinema”, ma soprattutto quell’urlo ripetuto più volte di (ri)nascita e di dolore di “Breathe” dei Pink Floyd, una delle scelte più emozionanti. Vallée ha curato anche il montaggio, e forse qui stanno la forza e il limite dal film: la capacità di coinvolgere, guidare ed emozionare nonostante alcuni cali di ritmo nella fase centrale, ma anche un certo virtuosismo tamarro, da videoclip, fatto di estetica pura, slow-motion e musica a tutto volume. Progetto comunque affascinante ed emozionante, che raccoglie applausi sinceri. Tra incursioni e visioni a la “Donnie Darko” e uno scioglimento della trama che riporta a “Hereafter” - su cui si evita di poco lo scivolone. Ottimo cast, tra cui una quasi irriconoscibile Vanessa Paradis e Kevin Parent. (DD)
Voto: 7
2 SETTEMBRE
Lo avevamo lasciato in balia dei fantasmi il nostro caro Polanski (“The Ghost Writer”) e proprio come un fantasma (non è presente alla Mostra) il regista torna in scena con il suo ultimo lavoro: una rappresentazione de “Il dio della carneficina”, pièce teatrale della drammaturga francese Yasmina Reza, che, collabora anche alla sceneggiatura. Sin dalla conferenza stampa la Winslet era stata più che chiara: la “carneficina” è quella che si compie ai danni della famiglia e dell’animo umano. Il film appare almeno superficialmente come una commedia aperta alle mille problematiche delle relazioni interpersonali e focalizza l’obiettivo su due coppie che si ritrovano casualmente tra le mura di una casa di New York (il film è però stato girato a Parigi per via delle note vicende giudiziarie che gravano sul regista). Polanski sceglie come registro l’ironia, la presa in giro, l’ilarità, aiutato da un’interpretazione superba del cast e da dialoghi accattivanti (il raffronto giocoso tra Ivanhoe e il più moderno Spiderman), al limite dell’indecenza e del sacrilego (“Chi ha voglia di recitare un Ave Maria mentre scopa?”). A ben vedere, la sensazione è però quella di un film che trasmette, neanche in maniera troppo latente, un pessimismo e un’insensibilità spiazzante. La comunicazione implode, perdendo del tutto il suo valore ed innescando guerre continue dapprima tra una coppia e l’altra e, in seguito, tra i due sessi. Come anticipato dall’eloquente e bellissima locandina, le emozioni di Alan, Nancy, Penelope e Michael sono un cratere in continua eruzione, ognuno è soggiogato da immoralità e cattiverie ben assortite, da maniacali atti di gelosia su beni di consumo (la rivista, il cellulare, la borsa). Il vomito, già scena cult, è solo una naturale conseguenza. La teatralità della messa in scena gioca molto su riprese strette e ravvicinate, sulla scia del claustrofobico “Angelo sterminatore” buñueliano (ricordiamo anche il recente e per molti versi simile “Sunset Limited” di Tommy Lee Jones). Ma soprattutto sembra essere questo un film di rottura per il regista, che abbandona il thriller e il noir, ritornando all’ironia pungente di un tempo, quella, per intenderci, di “Per favore non mordermi sul collo”. (MD)
Voto: 7.5
Due coppie ed una stanza, due matrimoni incrinati ed un “incidente” da risolvere. Uno spietato Polanski adatta per il cinema la pièce di Yasmina Reza regalandoci il suo requiem ad una borghesia decadente e senza alcuno charme. Quattro personaggi che si odiano l'un l'altro e tuttavia incapaci di lasciare la stanza danno vita ad uno scontro di idiosincrasie ed ideologie. Con un umorismo impietoso che, partendo da piccoli dettagli amplifica le incrinature dei rapporti di coppia, Polanski certifica la morte delle relazioni codificate e indica la possibilità che il destino di solitudine che appartiene ad ogni uomo non possa altro che essere goffamente mascherato. È questa una sinfonia di corpi nello spazio, in uno spazio in vero ristretto sebbene è un abisso quello che si insinua tra un individuo e l'altro, tra l'evidenza della distanza e l'incapacità di lasciarsi andare. Un'amara, esilarante carneficina dello spirito. (SP)
Voto: 7
Si svolge (quasi) tutta in un interno newyorkese la carneficina di dialoghi brillanti diretta da Polanski e tratta dalla pièce teatrale della sceneggiatrice e scrittrice francese Yasmina Reza. “Carnage”, com’era prevedibile, ha un’impostazione fortemente teatrale, è giocato sui dialoghi e l’interpretazione di quattro attori in splendida forma. Difficile scegliere il migliore tra i vari cambi di registro e di situazione. Tra un John Reilly che si muove a proprio agio e riceve la meritata consacrazione, e un Christopher Waltz nei perfetti panni dell’uomo d’affari senza scrupoli; una Jodie Foster idealista e mai sopra le righe anche nei momenti più nevrotici, e un’elegante e divertente Kate Winslet. Film dal godibilissimo umorismo caustico che sembra debitore tra gli altri di Neil Simon (“Rumors” per intenderci) e che smaschera le convenzioni, demolisce il politically correct sommando piccole rivelazioni dei personaggi. Le due coppie svestono la loro ipocrisia e il finto perbenismo iniziale, abbandonandosi alla loro vera natura (spinti anche da un ottimo scotch scozzese), forse la natura stessa dell’uomo, in una carneficina reciproca, fatta di dialoghi, dispetti, piccole azioni plateali, sfoghi e riscatti. Polanski spolvera la sua verve per dare i giusti ritmi e i giusti tempi agli attori e alla commedia, muovendosi a proprio agio anche in uno spazio ristretto e aggiungendo un’imprevedibile tassello alla sua filmografia. Mentre altri si rodono nel dramma della crisi senza uscita, Polanski sembra andarne a ricercare la fonte nella morale anestetizzata della middle-class occidentale con una commedia corrosiva e attualissima. (DD)
Voto: 7
Conferenza stampa “A Dangerous Method”
Il 2 novembre è la volta di Philippe Garrel e David Cronenberg per la presentazione in sala stampa. Se il primo non può ritenersi del tutto soddisfatto (perplessità e alcuni ululati alla prima del film che vede come protagonista la Bellucci) il regista di Toronto ha da subito ricevuto un incessante scroscio di applausi da parte di critica e stampa per il suo “A Dangerous Method”. Accanto a lui gli attori Viggo Mortensen (che si è presentato con una curiosa mascotte), Vincent Cassel e Michael Fassbender: “Penso sia interessante il lavoro degli attori, che devono cambiare il loro stesso modo di pensare per immedesimarsi nei personaggi”. La pellicola ruota attorno al tema della psicoanalisi freudiana e junghiana, vissuta proprio dai due protagonisti nel periodo della cultura mitteleuropea. Cronenberg, senza perdere la virtù dell’ironia (“Ci vorrebbe una cura per l’intera troupe”), tiene a precisare che il film è un dramma, una fiction e che non vuole in alcun modo porsi come un documentario o come una pellicola prettamente accademica. È contemporaneamente un film in costume (“Il pasto nudo”, “M. Butterfly”) che tratta tra le altre cose la pazzia e l’inconscio umano (“Spider”). “Credo che nel corso degli anni sia cambiato proprio il modo di pensare, la struttura del cervello umano [...] si tratta di una sfida interessante che tutti abbiamo affrontato […] All'epoca c'era una differente concezione dell'uomo e della mente umana. Si credeva fortemente nell'idea di progresso, si credeva che tutto stesse andando verso il meglio grazie alla tecnologia. È un grande tema per un grande soggetto ed ha richiesto molte ricerche”. Freud invece inaugurò una tendenza contrastante mettendo in luce i lati più oscuri della mente umana “Con la sua psicanalisi spiegò che non tutto è razionale” e non necessariamente va verso il meglio sottolineando che “è stata una vera rottura nel modo di concepire l'uomo […] ma ve lo dicevo, è un soggetto complesso quello di questo film”. Temi tanto cari al regista, come già sappiamo, che chiude con un aneddoto simpatico e brillante: “Questa è la 68° Mostra e io ho 68 anni. Il film di apertura è stato “Le idi di marzo” e io sono nato a marzo… Pensateci bene!”. (MD, SP)
31 AGOSTO, 1 SETTEMBRE
Partita la 68esima mostra del Cinema Venezia tra le solite code chilometriche (tanto per l'ingresso in sala quanto per un panino) e le lamentele per la disorganizzazione, pittoreschi "parvenu" mescolati ad appassionati e addetti ai lavori, attese sotto il sole fotocamera alla mano per la comparsa di qualche vip. E le ottime premesse del programma
Conferenza stampa "Carnage"
VENEZIA - Pronti via, la Mostra ha aperto con “The Ides of March” di George Clooney, seguito da Roman Polanski e il suo “Carnage”. Presente il cast alla conferenza stampa (tutti tranne Jodie Foster): tra un baffuto e sornione John C. Reilly e un barbuto e compunto Christopher Waltz, elegante e radiosa, Kate Winslet parla della lavorazione del film. Tratto da una pièce teatrale di Yasmina Reza, è la stessa sceneggiatrice a rivelare che Polanski ha voluto modificarne il finale. La Winslet, già fan della commedia e preoccupata di non essere all’altezza dell’attrice originale, si è sentita attratta dalla tematica familiare e ha parlato della grande sintonia creatasi sul set tra gli attori, mai competitivi, ma uniti, ognuno con le proprie aspettative su Polanski. Waltz ha confermato come la grande precisione di Polanski sia emersa lavorando in uno spazio così ridotto, di matrice teatrale. Mentre Reilly rivela di essersi sentito teso fin dal momento della chiamata del regista e di aver cercato di essere il più funzionale possibile al film. Molto divertimento anche sul set: come la scena del vomito, il cui preparato pare sia frutto di una “ricetta” di Polanski stesso. (DD)
Stockholm East
di Simon Kaijser da Silva – Settimana della critica
Sono andati di nuovo a pescare un dramma familiare nordico i selezionatori della Settimana della critica di Venezia, dopo “Beyond” dello scorso anno, a premiare e tenere sotto controllo una filmografia che si sta dimostrando vivace, dinamica e capace di proporsi in ambito internazionale. Tuttavia il film di Kaijser, all’esordio al cinema dopo molta televisione, risente di un certo formalismo (eccessivo uso di ralenti ad esempio), con momenti buoni e alcuni scivoloni mélo. Un buon cast, tra cui Mikael Persbrandt (“In un mondo migliore”), per un film sul dramma della perdita di una figlia e il senso di colpa, tra menzogne e omissioni. È la sceneggiatrice stessa a rivelare come secondo lei non ci sia la possibilità di controllare le cose che accadono, e l’illusione di poter scegliere sia solo un modo per sopravvivere – chiave di lettura tra le principali del film. Al di là di questo pessimismo scandinavo intrigante, il film passa per alcuni cliché da love story tra il serial di seconda serata e il già visto, l’amore tormentato e incontrollabile, ma soprattutto il perpetrare la menzogna nell’estremo tentativo di restare a galla. (DD)
Voto: 5.5
Scossa
di Carlo Lizzani, Ugo Gregoretti, Francesco Maselli, Nino Russo – Fuori concorso
“Scossa” è il progetto ideato e realizzato da quattro grandi padrini del cinema autoriale italiano: Francesco “Citto” Maselli, Ugo Gregoretti, Nino Russo e il novantenne Carlo Lizzani. Pellicola che inevitabilmente ha il compito di portare al lido di Venezia una ventata di saggezza, e lo fa affrontando un contesto non facile come il terremoto che colpì Messina e Reggio Calabria in quel lontano dicembre del 1908. Il film, realizzato in quattro sintetici episodi, ha come trait d’union tutta la disperazione di un popolo già di per sé fortemente disagiato dalla povertà, dall’ignoranza e dal desiderio di intraprendere una nuova vita oltreoceano. La pellicola segue una libertà totale della forma e del linguaggio (molti dialoghi sono in dialetto) così da creare maggior enfasi ed esaltare le doti personali ed indiscusse di ciascun regista (la teatralità di Lizzani, il carattere epistolare in Gregoretti). Per contro, a perdersi per strada è la concretezza e la solidità del dramma che di volta in volta viene rivisitato sotto nuove prospettive e nuove forme, forse troppe dato che la tragedia passa più volte dal carattere drammatico a quello grottesco, dal teatrale alla denuncia. L’episodio di maggior rilievo è sicuramente l’ultimo diretto da Nino Russo, una sagace commedia agrodolce che sembra davvero trasmettere qualcosa in più. (MD)
Voto: 5
Un Eté Brulant
di Philippe Garrel - In concorso
Suscita ilarità la recitazione della Bellucci e qualche defezione del pubblico della Sala Darsena, compreso un buon gruppo di giornalisti inglesi che mi circondavano, l'estate calda di Garrel. Smontiamo subito l'entusiasmo per i pruriti suscitati dal nudo integrale della signora Cassel - non una grossa novità - chiarendo che si tratta di un'inquadratura che ce la mostra distesa come un donnone di Botero e nulla più. Soprassediamo anche sulle sue smorfie patetiche e sul fatto che una visita dal logopedista si rende sempre più necessaria. Film artificioso, da avanguardia anni sessanta fuori tempo massimo, costruito con tempi morti, lunghe inquadrature, dialoghi insignificanti che spesso sfiorano il ridicolo, come quel "Io credo in Dio" pronunciato dalla Bellucci a letto dopo l'amplesso. Anche il cinema dentro il cinema del film (una ricostruzione della seconda guerra mondiale in Francia, un peplum a Roma) sembra rifarsi a quello degli anni sessanta. Una certa simpatia la concediamo alla sbruffonaggine di Louis Garrel e al suo personaggio di artista maudit. L'intero intreccio sembra pensato come una vicenda da fine ottocento, intinta nell'assenzio, con personaggi dai sentimenti estremi (amore, amicizia, creatività), bohemien vecchio stampo nell'era Sarkozy, utopisti che aspettano ancora la rivoluzione - e qui nulla di male. Nel complesso però film irritante e fine a se stesso. (DD)
Voto: 4.5
Warriors Of The Rainbow: Seediq Bale
di Wei Te-Sheng - In concorso
Wei Te-Sheng, regista pressoché ignoto in occidente, presenta alla 68.ma Mostra del Cinema di Venezia una pellicola a tratti ridicola, tanto che nemmeno l'umidità lagunare è sufficiente a incollare gli spettatori alle poltrone della sala. Il film narra de “l'incidente di Wushe”: Taiwan 1930, le tribù indigene Seediq riunite sotto la guida di Mouna Rudo combattono l'invasore giapponese. Attraverso il potere del mito, capace risvegliare il loro animo battagliero, porteranno avanti una strenua lotta. È un mastodonte di celluloide questo “Seediq Bale” (2 ore e 30 di lunghezza) che ha ben poco da offrire allo spettatore se non l'esibizione prolungata di una violenza devastante: nessuno sarà risparmiato. Uomini, donne, bambini. Sgozzatti, decapitati, impiccati, trafitti. Peccato che quest'anno non sia Miike con il suo stile a presentarci il rituale bagno di sangue veneziano. (SP)
Voto: 4