Immaturo regista di torbidi b-movie o cineasta fondamentale per il cinema di genere degli anni 60? Cerchiamo di offrire qualche delucidazione con questa rapida esplorazione della (brevissima) vita e delle (pochissime) opere dell'enfant prodige della Swinging London misteriosamente deceduto a soli 25 anni nel 1969
Prologo: una discutibile premessa storica
All'interno di questo immenso continente cinematografico un ruolo principe lo ha la Gran Bretagna della Swinging London, nella quale vengono prodotti sia film di grande successo come quelli della saga di James Bond o le pellicole horror della Hammer2 che i capolavori (frequentemente "di genere", per l'appunto) di autori come Roman Polanski e Michelangelo Antonioni, anche grazie a copiosi finanziamenti provenienti dalle major hollywoodiane. In quest'ambiente inizia e termina la brevissima carriera di Michael Reeves, la cui morte all'inizio del 1969, dopo aver realizzato quella che forse è una delle pellicole più rilevanti di questa stagione, può ben venir utilizzata per rappresentare la crisi del cinema britannico di poco conseguente, dovuta in buona parte proprio al tracollo del cinema "di genere" incapace di reggere il confronto con quello ben più ardito originario degli USA e alla mancanza di personalità influenti quanto quelle del periodo precedente.
Capitolo I: i dolori del giovane Reeves
Cortometraggio di 10 minuti diretto dal diciassettenne aspirante regista con l'aiuto degli amici (e sostenitori) di sempre Tom Baker (qui alla macchina da presa) e Ian Ogilvy (fra i protagonisti, come accadrà in tutti i successivi lavori di Reeves), Intrusion3 dimostra di essere la prova di una personalità registica di certo immatura ma già conscia dei suoi modelli e capace di rielaborarne (in relazione ai mezzi amatoriali a disposizione) alcune determinati tratti stilistici e suggestioni. Il corto in bianco e nero (più bianco che nero data l'ambientazione nevosa), rintracciabile facilmente su Youtube in una versione senza audio, narra (riprendendo la trama del primo, perduto, corto di Reeves, Carrion) la rapina compiuta da due giovani criminali ai danni di un'altrettanto giovane coppia e le (moderatamente) sanguinose conseguenze della stessa, facendo uso di una montaggio alternato gestito, nonostante l'inesperienza del regista, in maniera funzionale e quasi sperimentale per come scompone le sequenze finali e le alterna in mono anticlimatico (sebbene ciò sia anche prosaicamente attribuibile all'inesperienza del giovanissimo regista). Prescindendo da ciò e dalla recitazione innegabilmente discutibile, Intrusion merita di venire ricordato non solo per i debiti manifesti verso i propri modelli, cioè la raffigurazione della violenza per Siegel e l'uso del montaggio e dei movimenti di macchina che echeggia quello del primissimo Godard, ma soprattutto per la presenza in nuce di temi che ritorneranno nella produzione successiva di Reeves, come quello della violenza proveniente dall'esterno come matrice di caos (in quest'occasione però annullato dal pacificatorio finale), oltre che come prova della ricerca di una qualche sorta di professionalità da parte dell'imberbe Reeves.
Il successo che ha il cortometraggio, proiettato in occasione di un festival nella sua scuola, presso il circuito cinefilo locale è per il giovanissimo regista la conferma del suo talento come metteur en scene e lo spinge ad abbandonare gli studi e a cercare il prima possibile un impiego nell'industria cinematografica. Dopo pochi mesi parte per gli Stati Uniti e, inviata una lettera nel quale si presenta a Don Siegel e annuncia (quasi minaccia) il suo arrivo, giunge a Los Angeles e si reca direttamente a casa del grande regista, dichiarandosi suo grandissimo fan. Probabilmente colpito dalla convinzione di Michael Siegel offre lui un posto come direttore del doppiaggio, fino al trasferimento del giovane a Boston, dove incontra il produttore e amico di famiglia Irving Allen, il quale ha recentemente siglato un contratto per la coproduzione di film a basso budget di ambientazione storica. Allen si sta apprestando a dare il via alla produzione di "The Long Ships"4 (1964), film diretto dal celebre direttore della fotografia Jack Cardiff e finanziato anche col supporto della repubblica jugoslava, e quindi, date le difficoltà organizzative della coproduzione, decide di fornire al regista un assistente laborioso e che non dia preoccupazioni: la scelta cade ovviamente sul diciannovenne Reeves. Probabilmente è proprio la totale mancanza di esperienza di vita cinematografica a rendere Michael un assistente a dir poco ininfluente tanto che in seguito vi è stato chi ha contestato la presenza del ragazzo sul set. Medesima sorta capita nell'altra produzione in cui Reeves viene inviato da Allen, cioè "Genghis Khan" (1965) di Henry Levin.
Discorso ben differente è quello che si può fare riguardo all'italo- francese Il castello dei morti vivi (1964), la cui moltiplicazione di pseudonimi5 con la quale la crew italiana ha nascosto le proprie origini ha spinto a ipotizzare che il giovane Reeves abbia avuto un ruolo ben più preminente di un tradizionale assistente alla regia (e alcune discusse testimonianze confermerebbero anche ciò)6. Girato in Lazio, anche nel celebre Parco dei mostri di Bomarzo, Il castello dei morti vivi vede la partecipazione di Christopher Lee e di un esordiente Donald Sutherlan e narra le vicende di una compagnia di Commedia dell'Arte alle prese, durante le guerre napoleoniche, con il conte Drago, sadico feudatario ossessionato dalla morte (e dai morti), ed è per Reeves il terreno di prova definitivo delle sue capacità prima dell'esordio alla regia. Infatti, come regista della seconda unità, il giovane Michael pare abbia diretto le sequenze della foresta, quelle prive degli attori principali, e si sia fatto così notare dal produttore Paul Maslansky, già conosciuto sul set di "The Long Ships", il quale offre finalmente all'aspirante regista la possibilità di girare il suo esordio a basso budget.
Capitolo II: Back to England (via Roma)
Sarebbe però ingiusto non riconoscere all'opera prima di Reeves i suoi indiscutibili meriti: una confezione estetica pregevole per i pochi mezzi a disposizione, la riuscita, per quanto frammentaria, costruzione della tensione, anche grazie alle efficaci musiche "morriconiane" dell'amico Ralph Ferraro, e il finale aperto e negativo (sebbene in quest'occasione possa essere riconducibile a un banale cliffhanger). E ovviamente la sequenza iniziale del linciaggio di Vardella (causa di tutte le sventure della vicenda), diretta con maestria e con un'indiscutibile capacità (e volontà) di shockare lo spettatore, replicata con ancora maggiore efficacia nell'intro del capolavoro del '68. I'll be back, afferma l'alienata Veronica/Vardella nel finale. Lo stesso sarebbe valso per Michael Reeves.
Per l'appunto il giovane regista ritorna in Gran Bretagna dove, forte del discreto successo commerciale della sua opera prima, inizia immediatamente a lavorare su nuove sceneggiature, fra le quali si ricordano l'horror "The Devil's Discord" e l'hitchcockiano "Appassionata"9, spesso col supporto del ritrovato amico Tom Baker. E' proprio questi a consegnare a Michael la sceneggiatura di "Terror for Kicks", un fanta-horror scritto da John Burke e palesemente ispirato all'"Esperimento del professor K" (1958) di Kurt Neumann con l'aggiunta di velleità psicologiche che si richiamano forzatamente alla Nouvelle Vague. La sceneggiatura è già finita nelle mani del Compton Group, piccola casa produttrice i cui due dirigenti, Michael Klinger e Tony Tenser10, si sono fatti notare coproducendo "Repulsion" di Roman Polanski (e anche il successivo "Cul-de-sac") e ora desiderano investire su registi giovani, probabilmente perché ritenuti non solo più apprezzati da buona parte del pubblico e della critica, ma anche più manipolabili. Per Reeves l'incontro è davvero fortunato, dato che Tenser dà carta bianca al ragazzo e lo mette addirittura in contatto con una star (in decadenza) come l'ottuagenario Boris Karloff, il quale accetta a sorpresa di entrare nel cast a costo di corpose modifiche della parte del proprio personaggio: Reeves e Baker quindi iniziano la revisione dello script e finiscono praticamente per riscriverlo totalmente, esautorando Burke dal processo e sottolineando il contesto contemporaneo del film. Con un budget di sole £25.000 (di cui ben £11.000 utilizzate per pagare il cachet di Karloff) e il solito gruppo composto in buona parte da amici e conoscenti (si contano Baker, Ian Ogilvy ancora protagonista, la fidanzata di Reeves Annabelle come costumista e l'autore dell'ottimo score Paul Ferris11) le riprese iniziano a metà del '67.
Ancora una volta le difficoltà produttive costellano la produzione di "Terror for Kicks", ora ribattezzato The Sorcerers (giunto da noi con l'abominevole titolo Il killer di Satana), con avvenimenti tragicomici come il fermo della produzione da parte della polizia durante la scena (naturalmente girata senza permesso) della corsa in moto sulla A4, i pianti di Reeves quando si rende conto dell'impossibilità di girare in una decina di location e gli scontri col dirigente del British Board of Film Censors John Travelyan12. L'inizio quasi neorealista in cui il professor Marcus Monserrat (Karloff), "esperto in ipnosi medica", si reca in un negozietto e poi nello spoglio appartamento che condivide con la moglie (Elizabeth Lacey) è esemplificativo del tono aspro ed essenziale scelto da Reeves per trattare un tema e un soggetto non particolarmente originali e a rischio di ridicolo involontario, optando per un'ammirevole (a tratti quasi documentaria) ricostruzione dell'epoca. Alla riuscita di ciò giova la trama parallela delle avventure dell'annoiato giovane Mike Roscoe (Ogilvy), il quale riassume in sé molti dei tratti tipici del ventenne londinese tipo oltre a quelli (prevedibili data la scelta del nome del personaggio) dello stesso regista. Tramite la discesa in una spirale di follia e di violenza che vive il protagonista manovrato mentalmente dal professore e dalla sua volitiva moglie dopo uno psichedelico esperimento Reeves costruisce un vero e proprio affresco del quartiere di Soho, della sua umanità alla ricerca di distrazione e degli inquietanti spettri che stanno per fare capolino dopo la "summer of love".
Per questa ragione Benjamin Halligan, nella sua monografia dedicata a Michael Reeves, individua nello sprofondare nella follia di Mike la premonizione del collasso del sogno psichedelico di "pace e amore" che da lì a poco si sarebbe conclamato, la cui ricerca di soddisfazione distrugge l'egualitarismo di superficie e rivela la natura fondamentalmente egoistica di questo impulso. Infatti è per avere un attimo di evasione e provare nuove sensazioni che il protagonista si sottopone all'intervento dei mefistofelici coniugi Monserrat ed è solamente per provare piaceri che ormai non le sono concessi e per sperimentare un potere sulla vita altrui mai avuto che il personaggio della Lacey si contrappone al marito e spinge il giovane a compiere atti sempre più efferati.
Il tragico e anticatartico finale, a cui si giunge dopo l'efficace thrilling del montaggio alternato delle due linee narrative13, non riscatta nessuno dei personaggi portati in scena, nonostante il sacrificio del professore, fortemente voluto dal morituro Karloff per dare una sfumatura positiva al proprio personaggio, e dimostra di essere l'unico finale possibile per l'opus n°2 di Reeves. La distruzione dei tre personaggi principali accomunati dal medesimo mal di vivere è anche l'ennesima variazione sul tema "Eros e Thanatos", come sottolinea l'esplosione-orgasmo che conclude il film. Meno banale da questo punto di vista risulta invece il critico Robin Wood che, nel brevissimo saggio "In memoriam Michael Reeves", vede nelle fiamme che partendo dall'esplosione evadono dal profilmico e paiono espandersi alla stessa pellicola la distruzione stessa del film e del cinema stesso, ricordando inoltre che il modo in cui i coniugi Monserrat descrivono al giovane le sensazioni che proverà ("estasi senza conseguenze e piacere senza assuefazione") è assimilabile alla narrazione degli effetti di alcune sostanze psicoattive che andavano affermandosi (in primis LSD), e ovviamente del sesso, ma anche della stessa "innocua invenzione" che è il cinema. Pur risultando forse un'analisi eccessivamente lambiccante essa rende però esplicito il carattere eminentemente "aggressivo" del cinema di Reeves che ora, rincuorato dal successo di pubblico e finalmente anche critico (si ricordi che in Italia vince l'Asteroide d'oro al Festival del cinema di fantascienza di Trieste, oltre a un doppio premio per i due navigati protagonisti), ritiene di essere pronto a realizzare il suo capolavoro.
Capitolo III: "Il grande inquisitore" e la morte del linguaggio
di mezzi che impedisce di reclutare un numero adeguato di attori per le scene di massa oppure le insistenze di John Trevelyan per edulcorare la crudissima sceneggiatura) rendano ancora una volta difficile la realizzazione dell'opera di Reeves è il contrasto fra lui e Price a compromettere del tutto la relazione fra i due e a rallentare le stesse riprese15.
Girato con un budget di £83.000 Witchfinder General risulta la più corposa produzione di Tenser, e per una buona ragione: è un monumentale affresco di una determinata epoca e situazione storica16 (l'Inghilterra durante la guerra civile) che, sfruttando la vicenda della ricerca (un'altra !) da parte del capitano di cavalleria Richard Marshall (Ogilvy) della fidanzata Sara (l'esordiente Hilary Heath) e la successiva vendetta, descrive un mondo violento e fortemente irrazionale, di cui l'astuto e ineffabile cacciatore di streghe Matthew Hopkins (personaggio realmente esistito) e il suo avido assistente John Stearne (Robert Russell) sono soltanto due propaggini simboliche. Non si pensi perciò che l'opera di Reeves sia assimilabile a un film in costume particolarmente brutale nella rappresentazione della violenza oppure un horror che utilizza l'ambientazione storica come pretesto per i contenuti osceni che esibisce: queste due letture, frequenti anche presso la critica specializzata (si veda il già citato libro di Halligan), colgono solo in parte il potenziale insito nell'opus magnum di Michael Reeves e inoltre facilitano la decontestualizzazione del film dal percorso del ventiquattrenne regista. Infatti esso, pur nella sua brevità, mostra alcuni motivi conduttori che si ripresentano tutti ne Il grande inquisitore e ivi deflagrano, mettendone a nudo la forza espressiva.
La visione pessimista di Reeves (convinto sostenitore della natura fondamentalmente egoistica e irrazionale dell'essere umano17) si palesa definitivamente in questo film e culmina nella crudeltà di un finale che si distingue per capacità di messa in immagini della violenza inattesa per glin standard del cinema mainstream dell'epoca (si ricordi che "Witchfinder" viene girato prima di film molto biasimati per la loro brutalità come "Il mucchio selvaggio" o "Strain Dogs" di Peckinpah oppure "Arancia meccanica" di Kubrick). Inoltre il tema del viaggio e della quéte esce finalmente dalla funzione quasi decorativa in cui era stato costretto nei film precedenti e anzi si colora di tratti epici che rimandano esplicitamente il western e, nell'insistenza degli stessi (si pensi alle lunghe scene di cavalcata, alle raffigurazione dei villaggi, al ruolo da personaggio che viene attribuito al paesaggio rurale inglese18), si propongono quasi come un modello di epica popolare per la terra britannica: la medesima funzione che il western assolve (ha assolto) per gli Stati Uniti. Tutto ciò conferma un altro già evidenziato punto focale del cinema reevesiano, ovvero l'atteggiamento volutamente aggressivo nei confronti della materia filmica (come si è evidenziato nei punti precedenti) ma anche verso lo spettatore, che si concretizza nella libera e (in parte) imprevista rielaborazione di temi e stilemi del cinema popolare e soprattutto nel continuo attacco al fruitore e alla sua capacità di sostenere la visione, tramite la cruda e diretta rappresentazione della violenza e la privazione di ogni giustificazione per essa.
La già citata sequenza iniziale risulta alquanto esemplificativa di questo approccio, mostrando l'impiccagione di una presunta strega, con un movimento a lento seguire il trascinamento della donna verso il patibolo e privando lo spettatore di ogni accompagnamento musicale o di dialogo che esplichi (e giustifichi o edulcori) ciò che accade (se si escludono le biascicate preghiere di un sacerdote) per lasciarlo solo con le insostenibili urla della vittima scalpitante. Il movimento di macchina che si muove dal corpo che ancora scalcia al crinale di una collina vicina non tenta di sottrarre lo spettatore alla visione del supplizio ma si muove alla ricerca del tacito e distante colpevole, Matthew Hopkins per l'appunto, la cui responsabilità viene sancita dallo zoom sulla sua figura che termina con un freeze-frame accompagnato dal nome e dalla qualifica dell'uomo: witchfinder general. Non è un caso che questo sia anche il titolo della pellicola di Reeves, in quanto è solo in quel momento che il film effettivamente inizia, generandosi dalla morte che porta questa figura che, ancor prima di essere effettivamente presentata, viene qualificata come il motore di tutta la vicenda. Non risulta così pretenziosa l'assimilazione del personaggio interpretato da Price con il Potere stesso, tenendo anche conto de Il killer di Satana: se ivi esso era un'entità impalpabile che, "richiamata" dall'invenzione del professor Monserrat, diveniva nelle mani della moglie di questi causa di tutti gli avvenimenti, e di tutte le sciagure del film, qui si personifica ma, grazie alla recitazione per una volta controllatissima e gelida dell'attore americano, riesce comunque a mantenersi impersonale e a svolgere il medesimo ruolo del film precedente, portando morte e sofferenza ovunque vada, addirittura indipendentemente da ciò che faccia.
Giunti a questo punto urge rimarcare nuovamente che Il grande inquisitore19 vada letto all'intero dell'opera di Reeves, in quanto altrimenti si potrebbe essere tentati di interpretare il finale della pellicola come positivo e liberatorio e, dato l'anno di produzione della pellicola, interpretarlo in maniera libertaria. Invece, è proprio la tragica efficacia del finale a mantenere il film del 1968 nella poetica pessimista di Reeves e a rappresentarne il vertice: la furiosa vendetta del capitano Marshall non rappresenta la riparazione dei torti subiti né il trionfo della gioventù sul passato, così come le urla di Sara non sono certo di giubilo ed esaltazione ma, ancora, di dolore, orrore e follia. La circolarità scatenata dalla presenza dei terribili strepiti ad ambo gli estremi del film sancisce quindi la capacità corruttrice del Potere e della violenza che ne è lo strumento e la conseguenza ma soprattutto l'immodificabilità di questa condizione. Proprio per questa ragione la cornice storica non si riduce a un mondo distante e col quale il presente non ha nulla a che fare ma diviene un simbolo stesso della sorte sfortunata dell'essere umano, a prescindere dal contesto storico, geografico e sociale, che non è altro che i diversi ambienti in cui il Male umano, l'unico Male, si manifesta. Con le urla di Sara non termina solo il film.
E in effetti le urla non cingono solamente la pellicola dalle due estremità ma ricorrono al suo interno, nelle frequenti scene di torture, roghi e combattimenti, divenendo una sorta di leitmotiv che presto, anche alla luce delle riflessioni precedentemente esposte, si muta nella cifra stessa del film e delle sua filosofia negativa. Il pessimismo reevesiano infatti non investe solamente la società umana di oggi e di ieri ma travolge anche quella che probabilmente è la principale facoltà espressiva dell'umanità: il linguaggio. Non è di conseguenza un caso se nello sviluppo della vicenda la parola (intesa come logos) si riveli spesso essere menzognera e dannosa: dalle menzogne che la coppia di cacciatori di streghe adopera per conseguire i propri fini alle chiaramente false confessioni delle loro numerose vittime, passando per le spiegazioni incomplete ed errate che vengono date a Richard dai suoi superiori e le molteplici promesse ovviamente infrante, fino alle più prosaiche urla ferine, forse capaci di esprimere ben più e ben più fortemente del logos. D'altronde il film termina con gli strilli sconvolti di Sara e con le frasi deliranti e sconnesse di un ormai folle Richard. A possibile sostegno della fondatezza di questi spunti tematici si consideri che nei medesimi anni la crisi del linguaggio e della sua capacità di significare è al centro della ricerca di vari pensatori e filoni artistici, come ad esempio le ricerche del cosiddetto Nuovo Teatro, rifacendosi al magistero di Antonin Artaud20, il quale vedeva nel valore vocalico, e quindi fisico, della parola piuttosto che in quello semantico la possibilità di dare ancora senso. Basti citare (fra i molti che seguono i principi proclamati nel suo miliare "Il teatro e il suo doppio") l'inventore del "mimo corporeo" e teorico teatrale Etienne Decroux che giunge alla totale eliminazione dalla parola significante dall'arte della scena, sostituendola con il verso inarticolato, oppure la nascita del "teatro della phoné" di Carmelo Bene, puntante a rendere la parola volutamente incomprensibile e a ricercare il massimo dell'efficacia nell'assenza di significazione, ovvero nello strepito, nel lamento e nell'urlo. Allo stesso modo Reeves costringe la parola a farsi menzogna o vaniloquio (e al riguardo sarebbe interessante riflettere sui possibili legami con l'opera di un altro fondamentale autore teatrale, il conterraneo Samuel Beckett21) oppure a ridursi, nella speranza di poter ancora esprimere qualcosa, al verso animalesco che è l'urlo femminile che apre e conclude il film, riconducendo alla tragica odissea che esso contiene anche la stessa parabola della civiltà occidentale del Linguaggio, portando il pessimismo di Reeves a un livello cosmico e perciò apocalittico in ambedue i sensi.
Capitolo IV: Diminuendo
Per questa ragione il giovane Reeves decide di proseguire la sua carriera nella prolifica casa di produzione di Tony Tenser, il quale gli propone ripetutamente varie sceneggiature, a volte rifiutate dallo stesso regista ("Kill Me Kindly", horror psicologico con "nulla di psicologico" a detta di Reeves), a volte accettate ma poi bloccatesi in preproduzione (il road movie in salsa irlandese "O'Hooligan's Mob"). Per uscire da questo impasse Reeves decide di accettare la proposta dell'AIP di girare il biopic "De Sade" con l'intenzione di adoperare ancora la materia da exploitation per portare avanti la sua pessimistica riflessione sulla natura violenta e irrazionale dell'uomo. Purtroppo la stessa casa produttrice blocca il film poco prima dell'inizio delle riprese e destina Michael Reeves alla realizzazione di "The Oblong Box", ennesimo film della serie liberamente ispirata a Edgar Allan Poe iniziata da Roger Corman23. Per l'equilibrio psicologico del giovane autore è il colpo di grazia e Reeves finisce col frequentare vari psichiatri per poi rifiutarne sempre le cure: gli ultimi, sfortunati, mesi del 1968 spingono Michael, ormai preda di una tremenda depressione, a isolarsi e a rifiutare di tornare su un qualsiasi set.
Abbandonato dalla fidanzata e con la madre (cui era legatissimo) frequentemente malata si può pensare che la fatale morte di Michael Reeves avvenga in questo frangente: invece a metà gennaio lo raggiunge la notizia che la neonata casa di produzione Granada Films ha acquistato i diritti del romanzo breve di Walker Hamilton "All The Little Animals", da sempre una delle sue letture preferite e ben assimilabile alla poetica reevesiana per la centralità che ha il viaggio in esso e per la cupa umanità che lo popola, e che inoltre ha intenzione di offrirgli l'incarico di vergare la sceneggiatura e in seguito metterla in scena. L'entusiasta Reeves decide quindi di accettare le cure psichiatriche in modo da poter tornare a lavorare e di tentare un reinserimento nella Tigon British, sempre contando nel generoso supporto di Tenser per trattare con la Granada Films, con l'intenzione di dare il via alla seconda fase della sua produzione, convinto di aver raggiunto con l'anticatartico finale di Witchfinder General la maturità.
Bibliografia
Questa monografia non sarebbe mai stata realizzabile senza:
- "Michael Reeves" di Benjamin Halligan, l'unico saggio a lui interamente dedicato
- "In Memoriam Michael Reeves" di Robin Wood (rintracciabile qui)
Note
1 Termine di difficile traduzione, all'epoca utilizzato per indicare tutto ciò che era più innovativo.
2 Celeberrima casa di produzione britannica fondata nel 1934 e specializzatasi nel genere horror, di cui fu regina fino agli anni 70. Nel 2012 è tornata a produrre con "The Woman In Black".
3 La cui edizione proiettata originalmente pare iniziasse con la scritta "Dedicated to Jean-Luc Godard".
4 In parole povere, l'ennesima variazione de "I vichinghi" (1958) di Richard Fleischer, con Kirk Douglas.
5 La regia è attribuita (a sequenze alternate), per la cronaca a: Herbert Wise (cioè Luciano Ricci), Warren Kiefer (Lorenzo Sabatini), l'assistente alla regia Frederick Muller, Michael Reeves.
6 Secondo Halligan fu lo stesso Lee ad affermare ciò in alcune interviste.
7 La quale stette sul set per soli 2 giorni e un totale di 16/18 ore di lavoro al giorno.
8 Memorabile per il suo valore trash la sequenza in cui Vardella uccide il viscido oste con una falce e la scaglia a terra, andando a intersecarsi con un martello che si trova casualmente a terra !
9 Effettivamente realizzato dalla Hammer nel 1970 con titolo "Crescendo" per la regia di Alan Gibson.
10 Molto noti, soprattutto il primo, per i legami con la malavita londinese, specialmente coi fratelli Kray.
11 Tutti partecipanti anche alla produzione de Il grande inquisitore.
12 Cugino alla lontana di Michael Reeves e membro del BBFC da 1958 al '71.
13 Si tiene a far notare che è un'interessante caratteristica di tutti i film di Reeves.
14 Tramite la quale Tenser gestì la parte finale delle riprese di The Sorcerers.
15 Sono note, a volte più del film stesso, le liti e gli scontri dei due, spesso causate da questioni infime come l'inappropriatamente teatrale recitazione di Price oppure le sempre più frequenti sbronze dello sconfortato attore.
16 Sono notevoli, e non tutti solo superficiali, i punti di contatto col capolavoro di Kubrick "Barry Lyndon" (1975), il quale svolge una funzione simile di analisi storica (seppur nella ben diversa ottica kubrickiana) al film di Reeves. Allo stesso modo ambedue hanno un valore allegorico considerevole.
17 Halligan riporta che durante le riprese avesse affermato più di una volta che "niente è più sicuro che la natura egoistica dell'essere umano".
18 Al riguardo Emanuela Martini afferma, come riportato nella recensione de "Il grande inquisitore" del "Morandini", che "con la sua acuta sensibilità paesaggistica, riporta l'horror a radici ancestrali, connaturate alle stesse caratteristiche fisiche e psichiche del paese, a Stonehenge, ai celti, alle zone oscure dei cicli cavallereschi".
19 Per una volta non si sottovaluti il titolo italiano e i suoi echi dostoevskijani che potrebbero favorire anche interessanti interpretazioni.
20 Padre (1896-1948) del Teatro della Crudeltà e teorico teatrale principale della metà del XX secolo. Noto principalmente per "Il teatro e il suo doppio", fondamento di molto teatro successivo in cui esalta il teatro come arte della scena, del corpo e dell'attore, giungendo infine a puntare al miglioramento dell'essere umano tramite l'esercizio e al superamento del concetto di spettacolo.
21 Riguardo a Beckett si preferisce accennare brevemente alle considerazioni di Gilles Deleuze sullo scredito del linguaggio da lui perseguito tramite la parodia e la privazione di senso del logos, per ridurlo a "fantasma".
22 Ricevendo così anch'egli una presunta lettera di Reeves che potrebbe essere definita un vero e proprio manifesto poetico. Questa viene riportata da Halligan in una versione integrale di cui lui stesso mette in dubbio la totale autenticità.
23 E che avrebbe avuto nuovamente Vincent Price tra i protagonisti.
24 Tuttavia vi è chi suppone che per la varietà di barbiturici utilizzata quella dose, soprattutto perché probabilmente mischiata ad alcol, sarebbe potuta essere fatale con un certo grado di probabilità.