Dopo aver esplorato il folklore del New England coloniale in "The Witch" e le leggende marinaresche in "The Lighthouse", sembrava che per Robert Eggers fosse finalmente giunto il momento di confrontarsi con l'attesissimo remake di "Nosferatu il vampiro", annunciato da lungo tempo e mai realizzato.
Le Norne però, Dee nordiche della fortuna, cucivano per il giovane talento statunitense un diverso destino. Così, anziché sulle brumose cime dei Carpazi, il regista di Strafford è approdato tra i freddi mari del Nord per confrontarsi con la sanguinosa mitologia scandinava.
In questo "The Northman", infatti, Eggers si confronta con la leggenda norrena divenuta celebre nel canone occidentale per via della sua rivisitazione shakespeariana: il giovane principe Amleth, futuro erede al trono di un non meglio precisato regno vichingo, è testimone dell'omicidio del padre/Re per mano del malvagio zio Fjölnir. Dopo essere fuggito per scampare alla morte, ritorna tra le proprie genti e interroga il teschio del defunto giullare Heimir, il quale lo avvia verso il suo inesorabile destino di vendetta.
Le similitudini con il teatro del Bardo finiscono però qui: non aspettatevi soliloqui sull'essere e sul non essere o riflessioni sulla verità che si nasconde dietro alla follia. Alla dimensione tragico-drammatica, infatti, la sceneggiatura (scritta assieme al poeta islandese Sjón) preferisce la componente epica, fatta di spade magiche, inquietanti valchirie a cavallo, duelli muscolari e soprattutto fiumi di sangue.
Sulle differenze tra il tragico e l'epico e sul ruolo che il destino gioca in questi diversi approcci narrativi, vale però la pena spendere qualche parola in più, per fornire un contesto più solido all'analisi del film. Cosa caratterizza la tragedia? Al di là degli aspetti stilistici e strutturali, ciò che accomuna tra loro tutti gli eroi tragici è l'ineluttabile duello che ognuno di essi ingaggia contro il destino, dove le ambizioni personali si scontrano coi disegni di una sorte avversa che conduce all'autodistruzione. L'eroe tragico incarna la lotta dell'individuo contro un fato prevaricatore e solitamente nefasto, da cui cerca inutilmente di fuggire. Come Edipo, allontanato da Tebe per salvarsi dalla profezia che inevitabilmente si avvera. L'eroe tragico non ha vere colpe, né vera consapevolezza, perché giunge alla propria fine tramite un'incontrollabile eterogenesi dei fini.
Al contrario l'eroe dell'epica abbraccia volontariamente il proprio destino glorioso e sceglie di perseguirlo, cosciente dei danni che esso provocherà a sé stesso e alla propria stirpe. Così Achille rimane nell'ira nonostante essa "infiniti addusse lutti agli Achei". Così Odisseo ritorna "per l'alto mare aperto", indifferente ai doveri coniugali e al monito divino. Così Achab conduce il Pequod verso il sicuro naufragio, pur di affondare l'arpione tra le bianche carni della balena.
Eggers sembra qui preferire la seconda categoria e il guerriero vichingo interpretato dal nerboruto Alexander Skarsgård, a differenza dell'omonimo shakespeariano, corre verso la propria missione fatale con convinzione, come si corre verso il Valhalla degli eroi epici.
Ma talvolta, tra una sequenza e un'altra, la messa in scena sembra suggerire allo spettatore un'altra possibilità, mantenendo aperte le porte dell'ambiguità. Viene così da chiedersi se le profezie siano veri segni divini o il delirante frutto della trance; se il duello per impossessarsi della spada magica sia avvenuto o meno; se Olga sia davvero una veggente o semplicemente un'arrivista pronta a tutto pur di ottenere la libertà. È davvero il protagonista un cavaliere norreno senza macchia e senza paura o è piuttosto un cocciuto Don Chisciotte, armato di un ferro vecchio e innamorato di una schiava dai facili costumi?
La doppiezza del punto di vista arricchisce l'epica eggersiana di un'interessante componente moderna; ma l'operazione fallisce quando la duplicità viene trasferita dal piano narrativo a quello diegetico. Con il colpo di scena che improvvisamente cambia le carte in tavola e toglie ogni dubbio sull'errore del protagonista, ci si aspetterebbe che anche quest'ultimo venga scosso dalla tensione psicologica, dall'introspezione, dal sospetto. Ci si aspetterebbe una caduta, la vittoria tragica di un destino che non era stato compreso fino in fondo.
Invece no: paradossalmente, il proverbiale "dubbio amletico" investe tutti fuorché il nostro Amleto, che prosegue la propria battaglia anche quando il fato pare sgretolarsi sotto i colpi del suo ferro affilato. E lo stile narrativo non viene meno, mantenendo la pomposità dell'epica classica nonostante la destrutturazione di ogni epica sia ormai evidente allo spettatore. È questa rottura tra lo stile narrativo - tra il punto di vista dell'istanza narrante e il punto di vista del pubblico a incrinare l'intera struttura del film.
Vengono spontanei due paragoni. Il primo è con il "Valhalla Rising" di Refn, nel quale le visioni profetiche di One-Eye guidano il protagonista verso un destino la cui veridicità è però mantenuta reale fino in fondo e che trasforma infine la vendetta in una redenzione dal sapore cristiano. Il secondo è con il recente "The Green Knight" di David Lowery, che però faceva seguire alla modernità della narrazione anche una modernità dello stile e che quindi appare come un tentativo molto meglio riuscito rispetto a "The Northman".
La sensazione è che l'opera in questione avrebbe potuto essere un ottimo prodotto, se lo stile eggersiano avesse saputo adattarsi meglio ai risvolti narrativi. È infatti innegabile il talento che il regista dimostra dietro alla macchina da presa, la capacità di regalare scenari visivamente sorprendenti e di trovare la migliore inquadratura per ogni ripresa. Ciò che manca è piuttosto un'idea di cinema capace di andare oltre alla mera estetica e a un perfezionismo scolastico che rischia spesso di sconfinare nella maniera.
Tale manierismo va a discapito di altri aspetti (come una caratterizzazione dei personaggi secondari qui indiscutibilmente piatta) che in un film di questo tipo ci si aspetterebbe essere più curati e dà la fastidiosa impressione che l'intera operazione non sia altro che un tentativo autocompiacente di nobilitare il blockbuster.
Abbiamo già citato il cinema di Refn: in "Valhalla Rising" l'estetismo e i giochi di luce sono funzionali alla creazione di un'atmosfera misticheggiante ed eterea. Ma l'autore di "Drive" e di "The Neon Demon" ha saputo creare negli anni un vero e proprio marchio autoriale, caratterizzato da un estetismo dirompente che sa andare oltre le regole scolastiche e che assume su di sé il rischio dell'eccesso: un cinema che può anche non piacere, ma che porta con sé un'idea filmica ben precisa e difficilmente replicabile. Eggers, al contrario, pare eccessivamente legato all'amore per la perfetta geometria e per il vezzo stilistico: i suoi vichinghi si battono crudelmente in piani sequenza magistralmente diretti, ma sotto ai manti di lupo si può ancora percepire l'odore dell'acqua di colonia.
Non si può certo dire che "The Northman" sia un brutto film. È certamente un'opera capace di dare grande piacere all'occhio di chi guarda e di gestire il ritmo, rendendo scorrevole un minutaggio per nulla breve. Se però da un lato è notevole il tentativo di Eggers di adattarsi a un cinema che strizza l'occhio a kolossal come "Conan il barbaro" o "Excalibur", dall'altro la sua mano sembra prestarsi meglio a produzioni più ridotte, a spazi più ristretti (la casa, il faro) e alle dinamiche dell'horror. Se dunque non si può mettere in dubbio la sua effettiva bravura, ciò che ci auguriamo è che fin dai suoi prossimi lavori possa trovare lo spazio per sviluppare al meglio la propria autorialità.
cast:
Alexander Skarsgard, Anya Taylor-Joy, Nicole Kidman, Ethan Hawke, Willem Dafoe, Bjork , Oscar Novak, Claes Bang
regia:
Robert Eggers
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
137'
produzione:
Regency Enterprises
sceneggiatura:
Robert Eggers, Sjón
fotografia:
Jarin Blaschke
scenografie:
Craig Lathrop
montaggio:
Louise Ford
costumi:
Linda Muir
musiche:
Robin Carolan, Sebastian Gainsborough