drammatico | Usa/Regno Unito/Ungheria (2024)
ATTENZIONE SPOILER
Tre sequenze.
Uno. L'architetto ungherese Laszlo Toth (Adrien Brody) arriva da profugo negli Stati Uniti. I passeggeri sono esilarati dalla vista colossale della Statua della Libertà, che però viene inquadrata capovolta. Due. A metà della storia il mecenate e committente di Laszlo, il ricco imprenditore Van Buren (Guy Pearce), stupra l'artista nelle cave di marmo di Carrara. Tre. Nel finale, la nipote di Toth introduce la mostra dell'architetto ormai anziano alla Biennale di Venezia, spiegando nel dettaglio come le opere dello zio trasfigurino artisticamente l'esperienza vissuta nei campi di sterminio nazisti.
Bastano alcune tra le sequenze più significative a illustrare con che mano grossolana sia stato dipinto questo affresco fluviale dell'America del Dopoguerra. Coerente con la filmografia di Corbet, "The Brutalist" si pone all'intersezione tra estetica e politica per indagarne le mutue contaminazioni nel secolo che più di ogni altro ha realizzato il potenziale tragico del sublime attraverso gli stermini di massa dei totalitarismi. Così arriva l'ennesimo ritratto capovolto del sogno americano (uno), l'ennesima denuncia dello sfruttamento dell'artista da parte del sistema capitalista (due), l'ennesima rappresentazione dell'arte come potenza salvifica in grado di riscattare le miserie e le meschinità umane (tre). E non basta: c'è spazio per riflettere anche su immigrazione, razzismo, sulle visioni utopiche e la brutale indifferenza degli artisti, sulla storia statunitense e in particolare della Pennsylvania, su capitalismo e ingiustizie sociali, sulla funzione politica del cinema e dell'arte, sull'eredità culturale del trauma, e infine sulle condizioni storiche che hanno portato alla fondazione dello stato di Israele, peraltro con un ambiguo "Non fatevi ingannare: è la destinazione che conta e non il viaggio" che sembra piuttosto voler negare la storia e affermare il presente status quo con uno slogan puerile che sa di propaganda e qualunquismo, per non dire di peggio.
Per fortuna non si giudicano le opinioni politiche ma il film, e allora va detto che il problema di "The Brutalist" è innanzitutto estetico: un problema di equilibrio, pesantezza, trivialità, didascalismo. Malgrado i 215 minuti di pellicola (troppi), i temi (troppi anche quelli) si accatastano senza mai assumere la parvenza ordinata di un discorso, come massi in una frana invece che mattoni in un palazzo. Troppo spesso le vicende e le inquadrature scelte per raccontarle scadono in simboli grossolani, come Lady Liberty rovesciata, o persino nel cliché. Incommentabile lo stupro dell'artista, idea da saggio finale alla scuola di sceneggiatura. Altrettanto cringe il party tra i marmi di Carrara, più posticcio della pubblicità di un villaggio turistico. La sceneggiatura si limita a traghettare i personaggi verso un destino annunciato, con dialoghi diretti e prolissi che, come il finale, dicono troppo e aggiungono poco. In un certo senso "The Brutalist" è un film perfettamente riuscito: come gli edifici brutalisti è vasto, capiente, pesante, intenzionalmente rudimentale, e lascia sempre visibile la sua struttura portante. Quello che manca del brutalismo è la pretesa semplicità, la schiettezza.
Del brutalismo Corbet replica soprattutto l'aspetto grandioso e solenne, a cominciare dal formato panoramico VistaVision che come una macchina del tempo trasporta il pubblico agli anni '50 di "Vertigo", alla spettacolarità dei 70mm di "2001: Odissea nello spazio". Eppure, gli elementi portanti non sono tanto la scenografia o i ripetuti grandangoli, campi lunghi, contre-plongée sui grattacieli, quanto il corpo e il viso di Adrien Brody profuso in un'interpretazione sofferta, commovente, monumentale. Anche qui, ahimé, non supportato quanto merita dal contrappunto mediocre di un Guy Pearce che ha il fascino verboso e benestante di un venditore d'auto usate, lontano anni luce dalla fame sinistra di Daniel Day-Lewis ne "Il petroliere" o dalla megalomania trascinante di Welles in "Quarto Potere", tanto per citare un paio di ispirazioni evidenti. Quella fra Toth e Van Buren è una chimica esausta, un duello che non punge. Nemmeno la moglie Erszebet (una pur brava Felicity Jones), relegata quasi al ruolo di infermiera, ha spazio per ravvivare un triello che doveva forse assomigliare a quello di "The Master".
Un poco di brutalismo al cinema. Dal basso a sx in senso orario, "High-Rise", "Arancia meccanica", "Blade Runner 2049" e "The Brutalist". Paradossalmente, quest'ultimo è il titolo che meno di tutti ha sfruttato l'architettura come linguaggio espressivo all'interno del medium cinematografico.
Insomma, Corbet carica quasi interamente sulle spalle del protagonista il peso insostenibile di un immaginario che le sue immagini non sanno immaginare, perché "The Brutalist" gradualmente si ripiega su un'odissea privata, mancando in maniera clamorosa l'opportunità di inserirsi fra quei titoli e quei modelli che hanno reso grande l'architettura al cinema (Fritz Lang, Jacques Tati, Jean-Luc Godard, Stanley Kubrick, Michelangelo Antonioni, Wes Anderson, ma tra i titoli si possono citare anche "Il ventre dell'architetto", i due "Blade Runner"...). Per fortuna c'è la colonna sonora di Blumberg, un'ossatura sinfonica che accompagna il film sin dai titoli di testa concepiti a mo' di partitura. Blumberg fonde strumenti orchestrali, sonorità elettroniche e rumori diegetici in un cemento musicale che lega il discorso audiovisivo rovesciando l'assunto di Goethe per cui l'architettura è musica congelata: la musica è architettura sciolta, che cola tra gli interstizi del film riempiendo i buchi lasciati dalla sceneggiatura, accompagnando e sostenendo la diegesi.
In sintesi, "The Brutalist" è il più classico dei "vorrei ma non posso". Malgrado elementi di pregio e sequenze notevoli (le cave di Carrara su tutte), mantiene poco rispetto alle sue smisurate ambizioni. Se l'architettura è, come sosteneva Le Corbusier, "capacità di stabilire attraverso materie inanimate dei rapporti in movimento", Corbet qui fa esattamente il contrario, utilizza i rapporti in movimento tra immagini e suoni ma non riesce mai veramente ad animare i suoi personaggi e la sua storia, troppo impegnato ad aprire parentesi mai chiuse. A visione finita, la lotta immane di Toth per erigere un edificio che non si sa bene se sia una biblioteca, una chiesa o un centro congressi, ricorda anche troppo il rapporto di Corbet con il suo film, una figura immensa che sembra ancora in gran parte prigioniera del marmo. Chissà che la citazione di Goethe che apre il film, "nessuno è più schiavo di chi si crede libero", non si possa leggere anche come una sottile autocritica.
cast:
Adrien Brody, Guy Pearce, Felicity Jones
regia:
Brady Corbet
titolo originale:
The Brutalist
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
215'
produzione:
Brookstreet Pictures, Kaplan Morrison
sceneggiatura:
Brady Corbet, Mona Fastvold
fotografia:
Lol Crawley
scenografie:
Judy Becker
montaggio:
Dávid Jancsó
costumi:
Kate Forbes
musiche:
David Blumberg