"Rosemary's Baby" e la genesi dell'horror moderno
Se si studiano i legami che lo sviluppo dell'arte cinematografica ha intrattenuto, nel corso della sua ancor breve storia, con i movimenti sociali, si noterà che, mentre alcune correnti hanno beneficiato, a livello creativo, di un relativo distacco dalle conseguenze storiche del proprio tempo, altre sono invece state sfruttate da autori e registi per esprimere lo zeitgeist di momenti socio-culturali particolarmente spinosi e complessi.
Ragionando all'interno della logica hollywoodiana dei generi (pur ricordandoci di prendere con le pinze questa superficiale divisione "da scaffale") sembrerebbe che l'analisi del cinema dell'orrore sia, tra tutte, quella più prolifica per quanto riguarda il rispecchiamento che tale indirizzo cinematografico compie rispetto ai malumori e alle problematiche del proprio presente.
A ben vedere tale proprietà di critica sociale non risulta un'aggiunta operata a posteriori su un prodotto già da tempo affermato: al contrario il controverso genere horror contiene in sé analiticamente e già nel momento della propria nascita la capacità di psicanalizzare la propria epoca: possa bastare, come argomentazione di tale tesi, l'imprescindibile lavoro che il saggista Siegfried Kracauer ha scritto sul ventennio di cinema tedesco che precedette l'ascesa al potere di Hitler[1], in cui alcuni film del periodo, come "Il gabinetto del dottor Caligari" o "Nosferatu il vampiro", vengono presentati come l'emanazione artistica di quelle ansie e di quei disagi che avrebbero condotto, di lì a poco, al fiorire del nazionalsocialismo.
Anche gli squilibri e le rivolte studentesche esplose sul finire degli anni Sessanta (in particolar modo l'aspra avversione al mondo borghese e ai valori tradizionali, nonché il sentimento di profonda sfiducia che i giovani del tempo nutrivano verso il futuro) fece sentire la sua influenza su quel genere, che da qualche decennio sembrava destinato ad adagiarsi sulla frivolezza dell'intrattenimento fine a se stesso. In particolare il 1968 segnò la nascita di un nuovo modo di intendere l'horror, grazie soprattutto a due pellicole che, oltre a donare il successo internazionale ai loro autori, avrebbero influenzato enormemente i prodotti futuri di quella corrente cinematografica: "La notte dei morti viventi" di George A. Romero e "Rosemary's Baby" di Roman Polanski.
Già da qualche anno il filone del thriller psicologico stava prendendo piede, grazie ad alcuni fondamentali lavori quali "Psyco" del divo Alfred Hitchcock o "L'occhio che uccide" di Michael Powell, e il minuto quanto energico Polanski aveva già firmato alcune opere di questo tipo, che non avevano però conosciuto il successo di pubblico che di lì a poco avrebbe guadagnato l'adattamento del romanzo di Ira Levin.
Nel 1962 il cineasta polacco aveva esordito in patria con "Il coltello nell'acqua", in cui ci si divertiva a frantumare la saldezza della coppia borghese tramite l'incursione di un elemento estraneo (la stessa operazione che Pasolini avrebbe compiuto qualche anno dopo con "Teorema"); nel 1965 era il turno di "Repulsione", che portava alle estreme conseguenze, fino a giungere alla dissociazione psichica della protagonista, le ansie di una giovane belga continuamente minacciata da un senso di abbandono e di solitudine; nel 1966 esce il beckettiano "Cul-de-sac", opera sperimentale che tematizza l'assurdo e il grottesco dell'esistenza.
Ma è nel 1967 che Polanski arriva a fare i conti con la precedente tradizione horror, grazie a "Per favore non mordermi sul collo": commedia demenziale ricca di humor e ironia che si rifà al filone vampiresco aperto dalle opere della celebre casa di produzione britannica "Hammer Film Productions". Tramite una dissacrante risata viene dunque decretata la fine di quel modo di fare film che per anni aveva goduto di ottima salute e che era a lungo sopravvissuto grazie alla reiterazione di una formula vincente, fatta di creature mostruose, atmosfere esotiche, mondi lontani ed elementi magici e misteriosi, ma che era stato quanto più lontano da qualsivoglia intento di critica sociale.
Liberatosi dunque dal pesante passato di un genere ormai divenuto dozzinale, Polanski incontrò nel '68 Bob Evans, con l'intento di girare un film sullo sci, ma quando il produttore americano gli sottopose le bozze di un nuovo romanzo horror che trattava di gravidanze demoniache e di sette sataniche nella moderna New York, il progetto sullo sci passò subito in secondo piano: stava per nascere "Rosemary's Baby" e, con esso, un nuovo modo di intendere l'orrore nel cinema.
Il diavolo nel quotidiano
Ciò che avvicina il capolavoro di Polanski al succitato esordio di Romero è il fatto che entrambi i titoli rinunciano all'elemento esotico e all'indeterminatezza spazio-temporale, che rappresentava uno scudo grazie al quale la situazione orrifica era tenuta tradizionalmente distante dalla realtà dei fatti: qui l'orrore è invece ambientato nel presente quotidiano, l'orrore è il quotidiano stesso: il trionfo del capitalismo, la folle corsa verso il successo, i valori tradizionali della famiglia e dell'educazione cattolica si trasformano ora, metaforicamente, in un parto satanico irreversibile. La generazione della tensione e della paura diventano d'ora in avanti solamente un mezzo per esprimere la visione del nulla ideale e dell'ipocrisia che si nasconde dietro al tanto decantato stile di vita dell'Occidente.
In linea con le nuove tendenze hollywoodiane che da lì a poco sarebbero esplose nel movimento della "New Hollywood", Polanski rinuncia a qualsivoglia possibilità di lieto fine, di ottimismo e di speranza: l'oggetto del film diventa eccezionalmente negativo e pessimista, perché è il presente storico stesso ad apparire, a questa nuova generazione di registi, drastico e mostruoso.
La giovane coppia benestante e agiata che, in cambio del successo lavorativo, vende la propria progenie a Satana, diventa dunque il simbolo di una società irrimediabilmente corrotta e disprezzabile.
A differenza della freddezza stilistica di Romero, però, l'occhio cinico di Polanski sfrutta ogni possibilità concessa dalla messa in scena, a partire dalla claustrofobia degli ambienti, che diventano protagonisti stessi della vicenda, fagocitatori di ogni via di fuga, celerini a guardia della mania psichica dei loro abitanti. Come già era stato in "Repulsione" e come sarà ne "L'inquilino del terzo piano", l'appartamento si trasforma in un ventre materno generatore di paranoia e follia, in cui la mdp è mossa da una cinetica insofferenza che raramente si concede pause: l'irrequietezza dei movimenti di macchina e i primi piani esasperati della spettacolare Mia Farrow, uniti all'inquietante accompagnamento musicale firmato dal genio polacco di Krzysztof Komeda, introducono la protagonista (e assieme a lei lo spettatore) in un ambiente in cui ogni oggetto quotidiano (un libro, un guanto dimenticato, una collana) viene trasformato in un elemento perturbante e malefico.
Ma pur concedendosi talvolta a un moderato sperimentalismo d'importazione europea, che fa breccia soprattutto nella sequenza onirica del concepimento, la struttura portante dell'opera rimane saldamente hollywoodiana: a differenza di certo cinema avanguardistico del tempo (in particolar modo quello francese, con cui Polanski era venuto in contatto) che aveva quale obiettivo il sovvertimento dei canoni stilistici classici, la pellicola in questione non rinuncia all'immedesimazione dello spettatore né al confezionamento di una storia che mantenga, pur nella sua evidente ambiguità, una sostanziale coerenza e chiarezza espositiva. Sarà il soggetto stesso a farsi poi carico di ogni intento di denuncia verso una società settaria, che non risparmia nessuno e in cui scienziati, attori, medici, viaggiatori e avvocati vengono rappresentati come un'enorme congrega diabolica dedita al culto del male.
Bisogna tuttavia evitare di cadere nell'errore dell'identificazione di tali sette con quelle che di lì a poco scossero la vita dell'America e della stessa famiglia del regista, la cui moglie verrà assassinata brutalmente dagli adepti della famiglia Manson: l'associazione criminale che "Rosemary's Baby" descrive non è l'immagine di un gruppo ristretto di fanatici fissati con l'esoterismo, ma, come abbiamo già ripetuto, la borghesia nel suo complesso e l'intera società occidentale, nei cui confronti la sfiducia del cineasta rimarrà indissolubile (si pensi a un'opera minore, ma ben più recente come "La nona porta" in cui è reiterata questa concezione dei vertici culturali come di cricche mefistofeliche).
L'ambiguità fondamentale
"Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quell'altro, voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante: l'incertezza."[2]
Quanto viene dichiarato dal regista di fronte ai critici dei "Cahiers du Cinéma" introduce quella che è la seconda caratteristica fondamentale di "Rosemary's Baby" e, in generale, del cinema di Polanski, la quale rappresenta un secondo punto di rottura con il passato di tale genere cinematografico: ovvero l'impossibilità di risolvere la matassa narrativa in una soluzione univoca e indubitabile.
In linea con quanto anche la filosofia e il mondo culturale del tempo andavano affermando a proposito di un necessario relativismo, il cinema stesso diventa il mezzo per esprimere una "perenne ambiguità", una "verità narrativa beffarda e proteiforme che sfugge alla stretta logica dello spettatore proprio quando egli crede di averla afferrata"[3].
L'ambiguità interpretativa è anch'essa un segno distintivo della nuova ondata cinematografica americana, già propria delle avanguardie francesi, ma Polanski la sa utilizzare per dare nuova linfa al genere horror: se fino a questo momento, eccezion fatta per "Gli uccelli" e per altri casi singolari, lo spettatore era abituato a raccapezzarsi, alla fine della narrazione, in una risoluzione del plot chiara e definita, ora questa possibilità gli è preclusa: il sentimento dominante rimane lo sgomento, l'incertezza, il dubbio, l'esitazione, ovvero proprio quel sentimento che dominava i cuori delle giovani generazioni sul finire degli anni Sessanta.
Ma "l'ambiguità agisce soprattutto a livello strutturale, dal momento che "Rosemary's Baby" si sviluppa attraverso la irrisoluta dialettica tra polo soggettivo e oggettivo, senza permettere mai di decidere se la protagonista è vittima delle sue allucinazioni demoniache o di una realtà satanica niente affatto sognata"[4]. L'istanza narrante perde qui ogni onniscienza e si appoggia al punto di vista della protagonista, che non abbandona mai la scena, impedendoci ogni possibile visione oggettiva dei fatti.
La grandezza del film, a livello formale, sta nel mantenerci continuamente sull'indecisione se credere in Rosemary, convinta di essere la vittima designata di un'enorme congiura, o se fidarci del buon senso degli altri personaggi e dubitare della sanità mentale della futura madre.
Anche "Repulsione" conteneva questa duplicità, che veniva però risolta nel finale: la sequenza terminale di "Rosemary's Baby" si caratterizza invece come il momento culminante di tale doppiezza: allo spettatore non è concesso di vedere il volto del neonato, ma ne vediamo i riflessi nell'espressione della madre, terrorizzata dal frutto del proprio grembo, ma al contempo sicura nell'assumersi l'incarico di prendersene cura, in una paradossale unione di disgusto, terrore e amore materno.
Generare il Male
È chiaro che la metafora della gravidanza demoniaca che la pellicola tematizza ha come primaria utilità quella di denunciare i valori familiari e il concetto stesso di maternità, che nell'epoca capitalista si trasforma in capriccio, nonché ogni valore e ogni azione partorita dal ventre posseduto della nuova società occidentale, e in ciò il soggetto appare fin da subito nella sua genialità: ciò che si presenta inizialmente come un evento lieto e una situazione gioiosa degenera vorticosamente in un incubo a occhi aperti e l'atmosfera del film, che era stata aperta in un clima da soap opera, viene trasformata di conseguenza.
Ma l'incubo può essere anche letto come un inconscio rifiuto della maternità, che costringe l'esile Rosemary a "uscire dal guscio dell'infantilismo per conquistare il senso adulto della responsabilità"[5] in una società in cui nessuno sa più assumersi la responsabilità di nulla. Il rifiuto della responsabilità che l'essere madre provocherebbe porta nella protagonista i segni della psicosi, la pulsione di vita degrada in fretta in pulsione di morte, l'atto sessuale viene elaborato dal proprio inconscio e trasformato in stupro, il venire al mondo della vita lascia il posto all'inquietante culla nera in cui riposa il figlio del demonio.
"Rosemary's Baby" si caratterizza come il capostipite di una serie di film sulla procreazione del male, che tanta fortuna avrà soprattutto negli anni Ottanta grazie a titoli quali "Eraserhead", "Alien", "Il demone sotto la pelle" etc. Ma soprattutto l'eredità del capolavoro polanskiano risiede nel filone cinematografico riguardante l'occulto e il satanismo, ormai diventato un cliché, comprendente titoli di grande spessore e influenza quali "L'esorcista" di William Friedkin, "Audrey Rose" di Robert Wise o "Il presagio" di Richard Donner, e che ancora oggi fa sentire la sua voce.
L'opera che consegnò al mondo il talento di Roman Polanski, dunque, si impose innanzitutto come un nuovo modo di affrontare il cinema dell'orrore, capace di spaventare tramite nuove immagini e assieme di far riflettere sulle piaghe aperte del proprio tempo.
Note
[1] Siegfried Kracauer, "Da Caligari a Hitler - una storia psicologica del cinema tedesco" (Lindau, 2007)
[2] Intervista con Michel Delahaye e Jean Narboni, "Les Cahiers du Cinéma" n. 208, Gennaio 1969
[3] Stefano Rulli, "Roman Polanski" (Il Castoro, 1992)
[4] Ibid.
5] Ibid.
cast:
Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon, Sydney Blackmer, Maurice Evans, Ralph Bellamy
regia:
Roman Polanski
titolo originale:
Rosemary's Baby
distribuzione:
Paramount Pictures
durata:
136'
produzione:
William Castle Production
sceneggiatura:
Roman Polanski
fotografia:
William Fraker
scenografie:
Richard Sylbert
montaggio:
Sam O'Steen, Bob Wyman
musiche:
Krzysztof Komeda