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recensione di Giuseppe Gangi
6.0/10

mank

L'ingombrante Welles e il povero Mank

Jack Fincher, padre di David, scrive la sceneggiatura di "Mank" negli anni 90, dopo essere andato in pensione. Insieme al figlio regista prova a trovare una produzione interessata al progetto, senza tuttavia ottenere mai la luce verde. Nel frattempo David Fincher, concentrato sulla sua carriera, diviene in breve tempo un filmmaker di culto, guadagnandosi una enorme stima tra gli addetti ai lavori, mentre, col volgere del nuovo secolo, il padre si ammala e nel 2003 muore. La sceneggiatura resta nel cassetto finché, a detta del regista, i vertici di Netflix non gli chiedono quale progetto non sia mai riuscito a realizzare e Fincher rispolvera il lavoro del padre, lo lima insieme a Eric Roth e la piattaforma lo rilascia il 4 dicembre 2020. 

In una recente intervista a Vulture David Fincher ha raccontato come nella libreria del padre spiccasse "Raising Kane", il noto saggio che Pauline Kael scrisse nel 1971 come introduzione alla sceneggiatura di "Quarto potere", facendo intuire come probabilmente sia stata la fonte primaria per il padre. Kael ipotizza che la paternità dello script di "Citizen Kane" sia da ascrivere interamente a Herman J. Mankiewicz che aveva per altro frequentato personalmente Willian Randolph Hearst (la maggior fonte di ispirazione per Charles Foster Kane); inoltre, insinuando dubbi sulle effettive capacità registiche dell'allora esordiente Orson Welles (il quale poteva contare su un direttore della fotografia esperto e geniale come Gregg Toland), Kael desidera ridimensionare il ruolo del regista pioniere del cinema moderno, così da screditare la teoria degli autori (all’epoca dominante). Poco importa se molti critici, da Peter Bogdanovich a Joseph McBride, uno dei massimi studiosi wellesiani, fino a Robert L. Carringer (che in un'impresa filologica ha ricostruito le sette stesure della sceneggiatura) hanno smontato la teoria di Kael, poiché la sua influenza su Welles è stata nefasta e il regista, che negli anni 70 in America era quasi un paria alla ricerca di finanziamenti per portare a termine le riprese di "The Other Side of the Wind", dovrà rinunciare al completamento del suo progetto.
Fincher ha chiosato che le riscritture rispetto alla sceneggiatura del padre hanno riguardato soprattutto il personaggio di Welles, che nella versione del genitore era sin troppo negativa. Ciononostante, il trattamento rimane poco sfumato e anche se più volte si parla di "prima bozza" della sceneggiatura, la totale adesione al punto di vista di Mankiewicz comporta che Welles risulti alla fine né più né meno di un arrogante usurpatore. A tal proposito, è utile analizzare il climax drammatico costruito sul doppio binario presente/passato che viene stranamente segmentato in tre parti, rinunciando quasi del tutto all’intensificazione. Il montaggio mette in serie lo sfogo monologante di un Mankiewicz ubriaco fradicio che a una festa nel castello di Hearst si prende gioco del padrone di casa e di Louis B. Mayer, capo della MGM, frammezzandolo all'arrivo a Victorville di Welles e all'ultimo teso confronto tra loro, alla fine del quale il regista concederà dopo una sfuriata l'accredito come co-sceneggiatore: difficile non notare come il montaggio forgi una saldatura tra Hearst e Welles ed è una faciloneria che funge da spia in un'opera tanto interessante e stratificata quanto profondamente irrisolta.

Il trattamento riservato al protagonista cede invece a un'indulgenza a tratti incomprensibile, soprattutto se si considera il cinico disincanto con cui è illustrata la Hollywood della Golden Age. Mankiewicz viene sbozzato secondo il modello ormai stereotipato del loser: la sua brillantezza fuori dal comune dovrebbe spiegare perché chiunque lo incontri ne rimanga affascinato e motivare la corte di ancelle che lo protegge, sostiene e vizia. La sua singolarità, anche morale, bilancia la spirale di alcolismo e ludopatia in cui il personaggio cade, venendo estromesso dai circoli che contavano e contribuendo, nel caso dell'alcolismo, alla sua prematura scomparsa.

The Hollywood Network

Il protagonista del film di Fincher e il vero Mankiewicz hanno molto in comune, ma non sono la stessa persona e, in tal senso, "Mank" più che un biopic è un'altra fantasia su Hollywood, come lo sono stati con toni, modi e tempi diversi "The Artist" di Michel Hazanavicius, "Ave, Cesare!" dei fratelli Coen e "C'era una volta a... Hollywood" di Quentin Tarantino. Mank è nel film di Fincher un Don Chisciotte che coglie l'ultima occasione datagli da Welles per riscattarsi, per lasciare un segno nella storia del cinema e a suo modo vendicarsi di una realtà, quella di Hollywood, che l'aveva prima fagocitato e poi espulso. 
Mank, quello vero, non era socialista e verosimilmente non ha salvato un intero villaggio dal nazismo. Il subplot politico è quello che più di ogni altro devia dalla realtà storica, essendo volto a disvelare non semplicemente l'ipocrisia dei magnati hollywoodiani (è sufficiente lo show di Mayer che chiede ai dipendenti della MGM di dimezzarsi lo stipendio), ma l'irresponsabile potere di manipolare la realtà facendola aderire ai propri bisogni. Il protagonista serve da baricentro morale in mezzo a una selva di personaggi viscidi e ottusi, terrorizzati dagli ideali socialisti dello scrittore Upton Sinclair, candidato alle elezioni della California. I falsi cinegiornali prodotti dagli studios e utilizzati come mezzi di propaganda repubblicana per danneggiare Sinclair sono un fin troppo chiaro riferimento alle messe di fake news che oggi infestano i social media, alla pervasiva capacità di costruzione dell’immaginario e della sua manipolazione che aveva allora il cinema e che è ora stato polverizzato. In "Mank" si squaderna l'ennesimo racconto dell'individuo incastrato in meccanismi sociali ed economici che inevitabilmente lo schiacciano: la figura di Hearst diviene dunque il catalizzatore dell'amarezza del protagonista, il villain supremo da ferire almeno con la parola scritta, l'unica arma alla quale può ricorrere.

Ritornano pure alcuni topoi tematici che informano l'opera fincheriana: lo sviluppo narrativo di "Mank" ruota infatti intorno «ai concetti di pressione, crisi e complotto, dove, oltre ai protagonisti/eroi (o anti-eroi), a essere centrali diventano le comunità, le forme di aggregazione sub culturale o antropologico-tribale, i network umani e civili che si creano in seno a più ampi agglomerati sociali»[1]. In questo caso a venire esplorate dal regista sono le forme di aggregazione culturali, sociali, antropologico-tribali di Hollywood, in cui il nostro si ritrova a essere l'unico uomo dai saldi principi - ed è con questo spirito che scommette sulla vittoria di Sinclair, benché le chance fossero prossime allo zero. Il lavoro di Fincher che è più facile accostare a questo suo ultimo progetto è "The Social Newtork", che lo stesso regista aveva definito il "Citizen Kane dei film di John Hughes": appare dunque chiaro come "Mank" ambisca a essere una sorta di "The Social Network della Hollywood che produsse Citizen Kane". 
La maggior somiglianza stilistica tra i due film consiste nel ricorso alle analessi e ai dialoghi brillanti. Questi ultimi sono taglienti botta e risposta che in "The Social Network" lambivano l'overlapping per la velocità di esecuzione degli interpreti che parevano rincorrersi in una gara, quasi che l’informazione veicolata dal linguaggio verbale dovesse possedere la medesima rapidità di quella in tempo reale dei social media. Sebbene quest'elemento da screwball comedy sia presente in "Mank", esso è calato in un contesto meno straniante poiché siamo tra gli autori del celebre genere americano [2] e poiché esso penetra anche nel tessuto dialogico di "Quarto potere". Al contempo è ravvisabile come a latitare sia il ritmo, gli scambi risultano spesso prolissi, delle glosse che hanno il compito di spiegare i retroscena inerenti ai rapporti tra le celebrità di Los Angeles, di cui Mank sembra conoscere ogni segreto. È invece proprio il protagonista a non avere alcun segreto, la sua caratterizzazione è esposta in primo piano all’inizio del film e, benché si segua come la sua consapevolezza cresca di pari passo alla sua ferrea volontà autodistruttiva, non c'è alcuna evoluzione. La complessità è più presunta che realmente costruita e, in tal senso, la narrazione per flashback è sostanzialmente un vezzo. Rifacendosi alla lezione di "Quarto potere", viene però meno il cambio di prospettiva, la qualità che John Houseman, dopo aver letto nel film la sceneggiatura partorita dal protagonista, definisce rivoluzionaria. A Fincher non interessa l'atto creativo in sé, quanto il contesto e l’esperienza che produce tale atto: nella linea narrativa del presente filmico Mank giace sul letto con la gamba rotta, tentando di portare a termine la prima stesura della sceneggiatura; su questa trama non particolarmente dinamica se non per le visite che riceve il convalescente protagonista (un carosello di personaggi che devono variamente "tentarlo"  a desistere nell’impresa), si innestano una serie di flashback che coprono gli anni 30, dall'avvento del sonoro, alla conoscenza di William Randolph Hearst e Marion Davies tramite l’amico e collega Charles Lederer, la fallimentare campagna elettorale di Upton Sinclair e la sensazione di stare sprecando la propria vita, tra la bottiglia e la passione per le scommesse. La focalizzazione è fissa e costruita per merito di dissolvenze che spengono i punti luce dell’immagine per scavare nella memoria del protagonista, al contrario della focalizzazione multipla che rendeva interessante "The Social Network" e il suo protagonista geniale sempre più vicino al villain della storia.

I limiti del manierismo

Il lavoro sulle soluzioni espressive di Orson Welles è evidente e forse persino irresistibile per un regista che sull'estetica dell’immagine cinematografica ha investito buona parte del suo talento; non mancano nemmeno riferimenti al cinema di Billy Wilder (ovviamente "Viale del tramonto" e "Giorni perduti") e alcune scene con protagonista Marion Davies (Amanda Seyfried realizza una delle migliori caratterizzazioni della sua carriera) possiedono un glamour felliniano. Se è comprensibile perché certa stampa abbia definito "Mank" un film per cinefili, è altrettanto vero che l'operazione formalista sia tutt'altro che diretta e cinefila presentandosi, anzi, come molto cerebrale. Fincher si concentra su un gioco di prestigio, un'illusione digitale che è il primo segno di quel manierismo che pervade l'opera, ben distante dal feticismo analogico e dall’amore per la filologia della pellicola che informano l'opera di Quentin Tarantino. Il direttore della fotografia Erik Messerschmidt insieme al sound designer Ren Klyce si sono impegnati al fine di sfruttare le tecnologie più avanzate per restituire colori, suoni e atmosfere del cinema hollywoodiano degli anni 30 e 40: così l'immagine digitale in bianco e nero è stata degradata, coi neri resi ancora più scuri e un alone ad appannare alcune zone del frame, la pista sonora sporcata con ronzii e di tanto in tanto appaiono le mitiche cigarette burns indicanti la fine dell'immaginario rullo di pellicola. Trent Reznor e Atticus Ross, storici collaboratori di Fincher, hanno composto una colonna sonora monofonica che si richiama alle partiture dei film della Golden Age, caratterizzate da un suono meno omogeneo che a tratti si fa evanescente. 
L'immagine filmica di "Mank" è quindi un calco manierista che esibisce la propria natura di artificio tecnico, poiché è chiaro che, al netto degli omaggi che possono andare dall'uso della profondità di campo alle citazioni di "Citizen Kane" (Mank addormentato per una bottiglietta di sonnifero, come Kane che spira lasciando cadere la palla di vetro), "Mank" è un film contemporaneo (basti soffermarsi ai raccordi campo/controcampo) che vorrebbe anche negoziare coi termini della realtà contemporanea (la crisi di Hollywood, la crisi dell'immaginario, la crisi morale/valoriale della politica). L'immagine filmica del cinema fincheriano si presenta come una configurazione della realtà variamente declinata, ma in "Mank" rischia di finire in un vicolo cieco semiotico: il tentativo di processare il visibile e l'invisibile, separare il detto dal mostrato è sterilizzato da un'ipersemplificazione molto più classicista delle opere di riferimento. Questa rielaborazione tecnocentrica, volta sostanzialmente all'imitazione, rischia di avere quale esito la sottomissione della regia alla parola scritta.


È lecito pensare che, alla fine, il maggior impulso di Fincher a lanciarsi in questo passion project sia di natura squisitamente personale: la possibilità di omaggiare il padre, attraverso il ritratto a tratti agiografico di Herman J. Mankiewicz. Quando Joseph L. Mankiewicz sta per accomiatarsi dal fratello, dopo avergli proposto di abiurare al progetto, Mank (nel momento più intenso dell'interpretazione di Gary Oldman) gli confessa mestamente di essere un uomo finito. Allora, il futuro regista di "Eva contro Eva" si volta per rivelargli che quello è il miglior lavoro che abbia mai realizzato. Nel virtuale abbraccio e riconoscimento reciproco di due fratelli, c'è forse l'ultimo abbraccio di un figlio al proprio padre. 


[1]  R. Menarini, Le stanze del panico. Il mondo come complotto di David Fincher, in R. Donati e M. Gagliani Caputo (a cura di), The Fincher Network. Fenomenologia di David Fincher, Bietti Heterotopia, Milano, 2011, p. 45.
[2] Secondo Kael Mankiewicz sta dietro, accreditato in veste di soggettista, sceneggiatore o produttore ma sovente nemmeno accreditato, la riuscita di alcune delle migliori commedie degli anni 30, tra cui "La guerra lampo dei fratelli Marx" di Leo McCarey.


12/12/2020

Cast e credits

cast:
Gary Oldman, Amanda Seyfried, Charles Dance, Lily Collins, Arliss Howard, Tom Pelphrey:, Sam Troughton, Tuppence Middleton, Tom Burke


regia:
David Fincher


titolo originale:
Mank


distribuzione:
Netflix


durata:
131'


produzione:
Netflix


sceneggiatura:
Jack Fincher


fotografia:
Erik Messerschmidt


scenografie:
Donald Graham Burt


montaggio:
Kirk Baxter


musiche:
Trent Reznor, Atticus Ross


Trama
Orson Welles ha ottenuto la completa libertà creativa per il suo primo film dalla RKO, la più piccola delle major. Dopo un incidente automobilistico, Herman J. Mankiewicz è convalescente con una gamba rotta a Victorville, in California e ha il compito di in soli sessanta giorni la sceneggiatura del film di Welles. Herman detta la sceneggiatura alla sua segretaria, Rita Alexander, che la scrive notando somiglianze tra il personaggio principale e il magnate William Randolph Hearst. Parallelamente, iniziano dei flashback che ripercorrono alcuni eventi nella Hollywood degli anni Trenta vissuti in prima persona da Mank...