Billy
Quando giunse a Hollywood a metà degli anni 30, l'austriaco Samuel Wilder (Billy, come veniva soprannominato dalla madre, grande amante della dream factory) era già un uomo di cinema con alle spalle diverse sceneggiature per l'industria tedesca e un esordio alla regia in terra francese. La sua grande capacità di scrittura contribuì a rendere grandi alcune commedie quali "Ninotchka" (1939) di Lubitsch e "Colpo di fulmine" (1941) di Hawks. Ma fu la collaborazione con Raymond Chandler a rendere completo il suo sviluppo artistico da commediografo a drammaturgo, realizzando insieme il capolavoro "La fiamma del peccato" (1944), noir adulterino incentrato sulla figura di un assicuratore dall'istinto omicida che per amore si improvvisa stratega di un delitto pur di ottenere la "doppia indennità". Wilder, fatta sua la grammatica del noir, nel 1950 decide allora di affrontare la stessa Hollywood che gli ha aperto le porte del successo e, insieme al suo fedele collaboratore Charles Brackett, realizza la pietra miliare della sua prima fase di carriera, una dichiarazione spietata che mette a nudo angosce e perversioni all'interno dello star system, opera che come poche altre ha descritto la solitudine del grande sogno hollywoodiano e la crudeltà della sua macchina produttiva. Lungimirante profezia sull'imminente fine dell'età d'oro del cinema classico americano che avverrà un decennio più tardi.
Un tuffo nel passato: con "Maschere di celluloide" (1928) Vidor aveva già adottato il genere sentimentale per descrivere le relazioni e i desideri innocenti al tempo dello star system del muto. Stessa cosa fece Fleming qualche anno più tardi con "Argento vivo" (1933). Un grande debito riconosciuto all'opera di Wilder è però da attribuire a Cukor che nel 1932 smorzò sogno e commedia con il dramma in "A che prezzo Hollywood?", prima che Wellman ne modellò il medesimo pensiero firmando il ben più celebre "È nata una stella" (1937). Nel decennio successivo il cinema classico americano avanzava e con esso i suoi fantasmi. Wilder scorge l'opportunità di realizzare un film proprio su quei fantasmi e comincia a lavorarci. La gestazione del progetto però non fu immediata. Il trattamento ebbe una prima stesura nel 1948 ma Wilder e Brackett si erano accorti che mancava ancora qualcosa allo script. Decisero allora di assoldare il giornalista D.M. Marshan Jr. il quale calcò la mano su un reale fatto di cronaca avvenuto nel 1922 che vide coinvolta l'attrice Mabel Normand sospettata di aver ucciso il suo amante William Desmond Taylor, direttore della Paramount. La fusione tra i due nomi creerà il personaggio di Norma Desmond.
Joe
"Questo è il Sunset Boulevard, il viale del tramonto a Hollywood. Sono circa le cinque del mattino. Arriva la polizia, la squadra omicidi con il solito codazzo di cronisti. In una di queste sfarzose ville è stato commesso un delitto, lo leggerete sui giornali del mattino e ne sentirete parlare alla radio. Lo trasmetterà anche la televisione, perché questo è un fatto grosso e nella faccenda c'è coinvolta una diva del cinema. Ma prima che gli altri vi raccontino questa storia deformandola, prima che i soliti gazzettieri alla caccia di scandali se ne impadroniscano, sono certo che vi piacerebbe sapere la verità, la pura verità". Si apre così "Viale del tramonto", con questa celebre voce fuori campo dello sceneggiatore Joe Gillis (William Holden), protagonista del racconto. C'è un corpo senza vita che fluttua in una piscina ed è proprio quello di Joe, alter ego di Wilder ("che ne sa il pubblico degli scrittori di cinema? Crede che sia tutto merito degli attori e dei registi!"), narratore cadavere che ci introduce in un lungo flashback che durerà per la quasi totalità del film. Voice over e flashback sono due elementi fondamentali dello stile hardboiled cinematografico classico. Eppure, per quanto i rimandi a "La fiamma del peccato" e a "La signora di Shanghai" (1947) di Welles (solo per citare due esempi) siano evidenti, questa è la prima volta che un narratore onnisciente introduce un racconto da morto. Un paradosso stilistico che è una delle più grandi trovate della pellicola, insieme ad altri stili di messa in scena come l'utilizzo della profondità di campo e il chiaroscuro espressionista capace di deformare l'immagine: a tal proposito, si pensi alle inquadrature all'interno della villa. Il collegamento con la corrente espressionista è inevitabile per la presenza di von Stroheim e del suo modo di utilizzare la luce e per una ricerca intrinseca di "un'oscura vita paludosa in cui affondano tutte le cose, sia tagliate dalle ombre, sia sommerse nelle nebbie" come scriverà più di trent'anni a seguire Gilles Deleuze ne "L'immagine-movimento". Lampante è anche il transfert che si viene a creare con l'orrorifica e deforme funzione dei personaggi espressionisti e quella di Norma Desmond, novella Cesare di Wiene o Golem di Wegener.
Se nelle pellicole precedenti Wilder si era soffermato sulle morbose e infedeli relazioni amorose e sugli interessi economici ne "La fiamma del peccato", sull'alcolismo e sul mondo dei bar in "Giorni perduti", in "Viale del tramonto" la visione funerea è spiazzante. Joe Gillis, deluso dai suoi insuccessi professionali, si prostituisce per soldi e diviene l'amante di una ex diva del muto, il lieto fine è negato allo spettatore sin dal celeberrimo incipit e l'atmosfera di morte è onnipresente: il macabro funerale della scimmia di Norma, la villa decadente e la piscina vuota albergata dai topi, i plurimi tentativi di suicidio della donna, il rimando metaforico alla morte del muto e anche il rimando alla lettura di Salomè, la sceneggiatura scritta dalla donna per il suo ritorno sulla scena, che chiede a gran voce la "testa su un vassoio d'oro" del "santo uomo" Giovanni Battista, così da poter sentire "il gelo di quelle labbra". Meticolosa e luttuosa è anche la descrizione letteraria evocata da Wilder/Joe mentre il suono (diegetico) dell'organo nella Toccata e Fuga di Bach imperversa sullo sfondo: "mi guardai bene attorno. Sembrava che in quel luogo il tempo fosse stato colpito da paralisi. La casa era tagliata fuori dal resto del mondo e si disfaceva in solitudine, lentamente".
Norma
All'epoca non furono molti a carpire questo tetro apologo sulla grandezza di Hollywood e in particolare sulla caduca ed effimera fotogenia delle star nel divismo degli anni 20. Wilder esercita un sublime processo di cristallizzazione del tempo introducendo il personaggio di Norma Desmond, interpretata dalla grande diva del muto Gloria Swanson (al ritorno sul grande schermo dopo quasi vent'anni dalla sua ultima apparizione in "Musica nell'aria" del 1934). Con un incantevole espediente di scrittura e senza uscire mai dal prorompente e tragico racconto, il regista crea un interscambio continuo con i processi autobiografici e metacinematografici legati agli abitanti della casa diroccata. Elegante, stravagante, sofisticata come negli anni in cui De Mille le garantì la notorietà, la Swanson interpreta una donna di cinquant'anni che non riesce ad accettare la fine della sua carriera e la sua esclusione dopo l'avvento del sonoro. Il pensiero non può che ricorrere ai più grandi comici del muto che per antonomasia hanno subito improvvisamente l'ingrata sentenza del progresso quali
Chaplin,
Keaton, Lloyd. I primi due vengono argutamente catturati da Wilder. Chaplin viene parodiato da Norma in uno dei momenti più alti e poetici del film mentre il faccione funereo di Keaton è catturato da un fulmineo movimento di macchina durante una partita a bridge che Norma organizza "con dei vecchi amici" quali Anna Q. Nilsson e H.B. Warner, fantasmi di un'epoca passata che sembrano provenire dall'oltretomba. Da una prospettiva fotografica, i tre primi piani su quei "
pallidi manichini di cera", rappresentano allo stesso tempo
studium e
puctum dell'immagine barthesiana, uno dei vertici assoluti del film.
"A noi non occorrevano dialoghi, bastava il volto. E dove... dove sono oggi i volti di un tempo? [...] Questi idioti produttori, questi imbecilli! Ma dove hanno gli occhi? Hanno dimenticato come deve essere una diva?". Lo sfogo di Norma compendia la tragica benché ineludibile caduta della Torre di Babele con la fine del muto che operò da catalizzatore per l'incombente trasformazione della fruizione pubblica e del repentino progresso tecnologico. Il fenomeno del divismo, al di fuori del processo produttivo hollywoodiano, contribuì seminalmente all'analisi sessuale, psicoanalitica e semiologica della pellicola poiché la star era definita dalla sua esistenza al di fuori del film (la storia di Florence Lawrence insegna). Era il cinema delle attrazioni e come tale lo star system era l'elemento chiave per la formazione e l'identificazione della sfera pubblica. Il culto di Valentino, a oggi, rimane forse l'esempio più classico. Nonostante l'apparente crudeltà riservata ai fini del racconto, Wilder tratteggia il personaggio di Norma Desmond con un tenerezza struggente, cercando in ogni modo e nonostante il drammatico epilogo di liberarla dalla soffocante prigione e dalla lacerante solitudine che le ha riservato il destino.
Max
In una delle sequenze chiave di "Viale del tramonto", il servitore e maggiordomo di Norma Desmond rivela a Joe di essere stato il primo regista e primo marito della donna e che l'obiettivo della sua vita è ora quello di continuare a "servirla per adorazione", fino al termine dei suoi giorni. Max, interpretato da Eric Von Stroheim, è l'ennesimo, geniale espediente wilderiano attraverso il quale prende forma un coraggioso processo di nemesi a seguito del senso di ingratitudine e umiliazione che alcuni grandi autori del passato hanno subito, rimanendo arginati tra i perfidi ingranaggi del cinico processo produttivo americano. Nella Los Angeles degli anni 20 von Stroheim era un genio e visionario come pochi altri, all'artificio e alla sfarzosità preferiva di gran lunga il rigore documentaristico di
Flaherty e il realismo esasperato di
Vidor. Con la stessa impavida operazione che spinge Wilder alla realizzazione di "Viale del tramonto", anche il cineasta austriaco naturalizzato statunitense nel 1924 si era spinto in quella che forse si è rivelata in quegli anni la più grande sfida, il più grande sabotaggio, nei confronti dell'
establishment. L'epopea dostoevskiana di "
Rapacità" con tutta la sua soverchiante accusa nei confronti del dio denaro (fotografato metaforicamente con un giallo scintillante e poi imbrattato di sangue nel tragico finale) non piacque per nulla al dispotismo della Metro Goldwyn Mayer che martoriò, storpiò letteralmente la pellicola fino a quasi distruggerla. Il guaio cagionato da von Stroheim fu irreparabile per l'oligopolio delle majors e con quel marchio di infamia non riuscì più a fare film.
Subito dopo l'uscita di "Viale del tramonto" Wilder ricevette le stesse critiche e le stesse intimidazioni rivolte alla sua pellicola (nonostante le undici nomination agli Oscar, tra i quali tre vinti, possano far pensare all'unanime entusiasmo) ma al contrario di von Stroheim, la sua carriera, come ben sappiamo, era solo agli inizi. Il rispetto e la riconoscenza verso quei riprovevoli tempi passati Wilder li condensa in un'eloquente sequenza nella quale Norma e Joe assistono alla visione di un film muto all'interno della villa. Quel film del 1927 è "La regina Kelly" diretto proprio da Eric von Stroheim e interpretato da Gloria Swanson, pellicola che per nessun motivo vedrà mai la distribuzione a fronte del dispendioso impegno economico e autoriale. Sempre Deleuze, a proposito del film del '27, scrive che con quell'opera, in particolare nella sequenza della cena, la stessa ripresa da Wilder, von Stroheim si era rivelato "un luminista della stessa profondità di
Lang e persino
Murnau", come dimostrano tutte le gradazioni del chiaroscuro (le stesse utilizzate da Wilder) "con controluce e giochi di sfocatura".
In "Viale del tramonto" il senso di appartenenza, di "adorazione" per Norma da parte di Max è la più grande prova d'amore che Wilder riserva al cinema del muto, così come la celebre frase conclusiva di Norma: "non esiste altro, solo noi e la macchina, e nell'oscurità il pubblico che guarda in silenzio. Eccomi De Mille, sono pronta per il mio primo piano."
Betty
Wilder compie la più grande delle meraviglie scritturando il personaggio di Betty, dimostrando di non nutrire amore solo per il cinema e i protagonisti bistrattati del passato. Nonostante l'arguta profezia a cui abbiamo già accennato, siamo pur sempre nell'apogeo del cinema classico hollywoodiano e il cineasta di origine mitteleuropea trasmette la stessa passione anche nei confronti del cinema del suo tempo, quello degli anni 50 e dona quel tocco di luce e ilarità che si discostano diametralmente dalle atmosfere cimiteriali di villa Desmond. Betty, anche lei come Joe aspirante scrittrice di cinema, è interpretata da una paradisiaca Nancy Olson, la cui eleganza e affabilità rispecchia il modello archetipico che sarà della MacLaine ne "
L'appartamento". I brillanti dialoghi tra Joe e Betty (indimenticabile la domanda di lei a lui: "non ti capita mai di odiarti?") riflettono tutta la fase di pre-innamoramento e la gioia di vivere tra i due protagonisti nel capolavoro del 1960. La storia d'amore tra i due rapportata a quella di amante tra lo stesso Joe e Norma Desmond (oltre naturalmente al dualismo di sceneggiatura Salomè vs. storia d'amore in fase di realizzazione) rappresenta altresì l'agognato passaggio tra il cinema del muto e quello del nuovo cinema classico hollywoodiano al quale Wilder lancia anche una simpatica frecciatina quando la giovane ragazza nel suo studio si avventura in questa ipotesi di scrittura: "io penserei di tralasciare tutto il lato psicanalisi, il pubblico non vuole pensar troppo". La risposta di Joe/Billy non si lascia attendere: "sì, ma oggi la moda è quella!". Questa risposta del mago Wilder rappresenta anche l'ennesimo vaticinio sul cinema americano della seconda metà degli anni 50, imperniato sulla psicanalisi e sul sesso, si pensi anche solo alle pellicole a venire che avranno come protagonisti
James Dean e
Marlon Brando.
"Viale del tramonto" segnerà la carriera di Billy Wilder in tutta la sua seconda fase di carriera, quella del suo straripante successo con le commedie di "Sabrina" (1954), "Quando la moglie è in vacanza" (1955) e "A qualcuno piace caldo" (1959) soprattutto nella scrittura, con trame serrate, personaggi affascinanti e a tutto tondo, dialoghi sfavillanti ("how would Lubitsch do it?" è il cartello che aveva appeso nel suo studio). Quando negli anni settanta il cinema contemporaneo e la Nuova Hollywood iniziavano a prendere campo, cominciò anche per Wilder il lento declino.
Tra le frasi simbolo del suo capolavoro del 1950, forse la più leggendaria, la più abusata è senza dubbio la confessione cinica e superba di Norma: "Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo". In realtà "Viale del tramonto" affermava esattamente l'opposto, per quanto Wilder cercasse di coccolare fino alla strenua i suoi personaggi decaduti come abbiamo visto.
Una sera, Joe e Betty, al termine del loro lavoro di scrittura, fanno una passeggiata tra i teatri di posa e tra gli scenari all'interno della Paramount. In quell'istante Wilder si abbandona a quella che è insieme la citazione più personale e sottovalutata della pellicola. La scrittura naturalmente a Betty, simbolo del (suo) nuovo cinema a venire: "guarda questa strada, tutto finto, tutto posticcio, cartapesta e gesso. Eppure non c'è strada al mondo che io adori come questa".
Nel 1950, anche grazie a Billy Wilder, il cinema era ancora Grande.
03/02/2018