"Film su un tizio che si infila nel letto ancora caldo lasciato dai due amanti". Questa frase giaceva su un vecchio taccuino e fu scritta da Billy Wilder dopo aver visto il britannico "Breve incontro" di David Lean (1945), classico del cinema sentimentale. La maggior parte dei film, dietro al filo conduttore principale sul quale agiscono i protagonisti, hanno nel loro bagaglio personaggi secondari che si muovono dietro le quinte. Talvolta sono figure potenzialmente interessanti, che avrebbero qualcosa da offrire in una immaginaria visione alternativa o supplementare. Personaggi che entrano ed escono, proprio come accade in "Breve incontro", che racconta la storia di un uomo che vive una relazione con una donna sposata e va, di tanto in tanto, a trovarla a Londra. Gli incontri tra i due avvengono nell'appartamento di un amico di lui di cui poco si viene a sapere. Wilder pensò subito: "sarebbe interessante approfondire un uomo che ogni volta che si infila nel suo letto, trova le lenzuola ancora calde per consumati incontri tra terzi". Uno spunto di partenza che avrebbe potuto prendere mille direzioni (a conti fatti le analogie con il film di Lean sono nulle), ma che Wilder fu costretto a conservare a lungo nel cassetto: tra la fine dei '40 e l'intero decennio dei '50 la censura imperversava senza pietà e il Nostro non era tipo da nascondere la mano, da lasciar filtrare una idea attraverso espedienti e compromessi. Con pazienza lasciò trascorrere il tempo necessario ma, tra un capolavoro e l'altro, mai abbandonò quell'idea che conservava sull'ormai vecchio taccuino.
Subito dopo la realizzazione di "A qualcuno piace caldo" gli anni gli parvero maturi: la censura era sempre meno soffocante e Jack Lemmon era una scelta naturale, praticamente consequenziale alla sua strabiliante prova comica appena offerta al regista.
Quando in breve tempo il progetto prese forma, Marilyn Monroe sembrò molto interessata alla parte della protagonista, ma a Wilder poco sfiorò l'idea, ritenendola inadatta, in quanto come ragazza dell'ascensore le sarebbero saltati addosso praticamente tutti: era troppo. Shirley MacLaine, notata in "Qualcuno verrà", maiuscolo melò di Vincente Minnelli nel quale rubava la scena a figure leggendarie come Frank Sinatra e Dean Martin, fu la prima scelta.
Ne risulta per entrambi l'interpretazione della loro vita: Shirley MacLaine passa con il medesimo calore dalla spigliatezza dell'ascensore alle lacerazioni amorose dell'appartamento. Jack Lemmon, che cela insicurezza e timidezza dietro a un baule di parole sparate a raffica, è straordinario nell'incarnare il cittadino medio per eccellenza, nel recitare con sguardi e con tutto il corpo con una miriade di sfumature cui un riassunto farebbe torto.
Quanto a Fred McMurray, ormai sotto contratto con la Disney e dunque specializzato in film per ragazzi, sostituì Paul Douglas, che morì poco prima delle riprese.
L'atmosfera sul set fu rosea e divertita e i tempi di lavorazione fulminei per una produzione hollywoodiana: il film fu girato - in formato panoramico - in cinquanta giorni e montato in una settimana circa. La stesura del copione, scritto con il fidato I.A.L. Diamond, insostituibile amico-collaboratore da "Arianna" (1957) a "Buddy Buddy" (1981), a detta di Wilder fu molto semplice e, come sempre, cominciava a girare con uno script quasi completo, che sapeva bene dove andare a parare, senza spazio all'improvvisazione, ma con appena qualche margine lasciato in sospeso e pronto a essere riempito o cancellato dopo aver capito cosa potevano dare gli attori, dove potevano portare le prove e le riprese.
Ne venne fuori un successo commerciale che fu protagonista alla notte degli Oscar (dove però, inopinatamente non vinse le statuette per i migliori attori) ma, come non sempre accade per simili trionfi, non solo il tempo non ne ha scalfito la bellezza, ma ne ha avvalorato l'importanza consegnandogli un posto di primo piano nella storia del cinema.
All'epoca non mancarono le voci fuori dal coro, spettatori e critici parrucconi che rimproverarono Wilder di aver realizzato un film sconcio e inverosimile. Il regista rispose: "Non era verosimile? Lo è eccome! Tutti vogliono fare sesso con qualcuno; e se uno è sposato, se può, usa l'appartamento di un amico, non va in un motel. Solo chi è solo al mondo, oppure è molto riservato, ne affitta uno. Avrebbe potuto accadere in qualunque parte del mondo, salvo a Mosca. E sa perché? Perché a Mosca il protagonista avrebbe dovuto mettersi d'accordo con le altre sei famiglie stipate nello stesso appartamento".
Il film comincia con una panoramica sui grattacieli di New York, accompagnata dalla voce fuori campo del protagonista che dapprima sviscera dati statistici sulla enorme popolazione di New York, poi quelli sulla sede centrale della società cui presta servizio: "31.259 impiegati, un numero superiore all'intera popolazione di Netchez, Mississippi" (nella versione italiana infelicemente tradotto in Gallarate, Milano), dice.
Soltanto a questo punto, una volta che siamo stati introdotti nel suo ambito lavorativo - 19° piano, reparto polizze ordinarie, settore contabilità premi, sezione W, scrivania numero 861 - si presenta con precisione (C.C. Baxter = C di Calvin e C di Clifford). In questo modo lo spettatore da una parte entra confidenzialmente in empatia con lui, dall'altra è da subito conscio di quanto poco possa rappresentare un anonimo individuo in un contesto tanto grande.
Per accentuare l'effetto risulta fondamentale il contributo dello scenografo franco-ungherese Alexander Trauner che, costruito il set in un teatro di dimensioni medie, inserì nelle prime file scrivanie di dimensioni normali, poi, fila dopo fila, sempre più piccole, con comparse sempre più basse. Un tocco artigianale che dona un colpo d'occhio sorprendente, tanto efficace da far invidia ai contemporanei effetti della computer graphic.
Nella sua prima apparizione Baxter muove il capo meccanicamente per seguire sulla sua telescrivente gli ennesimi conti delle polizze. Un ticchettio che è soltanto una scoria dei "Tempi moderni" chapliniani. Alla macchina lavorativa si assegna poco spazio dato che è già subentrata nell'animo umano del lavoratore: vedi il preciso coordinamento per non sovraffollare gli ascensori. La tecnologia viene praticamente liquidata in una singola ma significativa sequenza. L'unica volta che nel film vediamo un televisore acceso il protagonista cerca di godersi in santa pace il celeberrimo dramma all star "Grand Hotel" (Edmund Goulding, 1932). Il presentatore dapprima sviscera i grandi nomi del cast, poi rilancia con uno spot pubblicitario, cosa che ripete una seconda volta. La compra-vendita che imbambola il cittadino medio ha finito così per bruciare anche le più celebri pellicole hollywoodiane. Wilder, attraverso Baxter, allora, non può che archiviare la faccenda spegnendo la tv poco dopo la sua l'accenzione.
Il protagonista muove i suoi passi in pochi ambienti: l'appartamento, gli uffici lavorativi (e nelle strade adiacenti a questi due luoghi) e in un locale. Praticamente lo vediamo in esterni soltanto in due desolanti occasioni: seduto nottetempo su una panchina del Central Park, contornato da un forte vento che scuote le foglie, e fuori al teatro che proietta "Music Man", nella vana attesa di veder spuntare da un momento all'altro Miss Kubelik e dove resta solo quando la folla riversarsandosi all'interno del teatro in massa, sembra scossa proprio come le foglie del parco. In questi due frangenti ci appare immedicabile il dramma di solitudine urbana che vive Baxter che, dopo un passato tentativo di suicidio che, goffamente, gli ha soltanto procurato un lieve fastidio alla gamba, ha forse imparato a frenare la delusione un attimo prima che possa sfociare in disperazione.
Nella scena al bar C.C.Baxter viene abbordato da una donna (che potrebbe essere una prostituta) e tra un martini e l'altro i due affogano in pista dei movimenti che rappresentano un contraltare a una celebre scena di "A qualcuno piace caldo": lì Daphne/Jack Lemmon danzava energicamente un tango con il suo spasimante Boccuccia di Rosa/Joe E. Brown porgendosi vicendevolmente una rosa tra i denti. Qui il movimento corporale tra l'uomo e la donna è ridotto a una triste ballata di anime solitarie e sconsolate. Un incontro il cui destino impedirà (salvificamente?) anche il terminale atto sessuale.
Il travestimento, uno dei temi portanti dell'itinerario wilderiano, qui non è esplicato come in precedenti casi: se quello riguardante trucco e vestiario è estraneo alla vicenda, forse anche le maschere sociali sono state già da tempo prese e indossate, finendo tristemente per essere inglobate sotto la pelle della moralità dell'individuo, ridotta a mera prostituzione prima individuale, poi collettiva, a volte conscia, altre volte inconsapevole. Il regista sembra ribaltare la celebre frase di Jean Renoir che, ne "La regola del gioco", diceva che "il tragico della vita è che tutti hanno le proprie ragioni". In "L'appartamento" tutti hanno i proprio torti, anche i due protagonisti, che pur impariamo a voler bene ben presto. C.C. Baxter ha "un problemino con l'appartamento", che presta ai suoi superiori per una scalata carrieristica non soltanto promessa, ma a conti fatti reale. Come in un cerchio concentrico, quando anche il Grande Capo Jeff D. Sheldrake, personificazione della contrattazione sociale, finisce nella macchinazione delle chiavi da prestare, da restituire e poi nuovamente da possedere, la faccenda porta sì a una graduale promozione che va al di là delle più liete aspettative, ma l'ascesa lavorativa implica la correlativa discesa del degrado morale, il principio dell'abiezione della dignità umana. Più la scalata sociale prende quota, più la dignita viene autocalpestata.
Dal canto suo Fran Kubelik, che dietro alla dolcezza del suo viso nasconde un grado di fragilità non minore a quello di Baxter, in un momento confidenziale, raccontando le sue vicende amorose dice chiaramente che prima del potente Sheldrake si innamorò dell'altrettanto altolocato capo di una società finanziaria di Pittsburgh, la sua città. "Mi innamoro delle persone sbagliate", dice la ragazza. Amore? Forse, chissà, ma anche in questo caso il vil denaro comporta una modifica genetica alla radice dei sentimenti primari dell'essere umano, incapace di gestire eticamente le manovre capitali della propria esistenza.
E allora, comicamente e beffardamente, le uniche e sole maschere concesse al nostro C.C. sono quella iniziale, che imbottisce volto e voce di una fastidiosa influenza, e quella pre-finale con l'occhio gonfio fornito da un equivoco e immeritato pugno in piena faccia.
Nell'ambito della storia torna anche un elemento molto caro a Wilder, ovvero l'utilizzo dello specchio come elemento rivelatorio. Sin dal principio della sua carriera il regista ha adoperato inquadrature dove lo specchio era parte dell'ingranaggio narrativo - vedi già l'esordio "Amore che redime" (co-regia di Alexander Esway, 1934) - o addirittura escamotage per ottenere effetti visivi sbalorditivi, come il celebre trucco per riprendere William Holden dal basso della piscina nell'inizio di "Viale del tramonto". Far rivelare la tresca da una ipotetica terza persona era la soluzione più ovvia, mentre quella del portacipria rotto è un'idea semplice e al contempo originale che, in più, offre una vera svolta nell'arco narrativo. Quando C.C. fa notare a Fran la spaccatura del vetro, lei gli risponde dicendo: "mi piace così, mi fa sentire proprio come mi sento". In quel momento il protagonista più che del portacipria sembra appropriarsi di quella frase innocentemente detta dalla ragazza e, forse, per la prima volta realizza il proprio personale degrado. Vede sè stesso diviso in due e comincia a percepire le crepe interiori che da quell'istante cercherà progressivamente di correggere. Una vera e propria frattura il cui dramma sfocia non a caso nel suo appartamento. A questo preciso momento è riconducibile la lenta ma inesorabile scalata verso il riscatto.
Trovato da Wilder e dai suoi collaboratori in Central Park West, l' appartamento, interamente in legno curvato, è definito dal personaggio di Lemmon "perfetto per uno scapolo": non particolarmente grande né tantomeno lussuoso, in alcuni punti trasandato e sprovvisto di utensili basilari, poco calore umano e cibo quasi esclusivamente surgelato.
L'intera parte centrale della pellicola si svolge pressochè interamente tra le pareti della casa.
A tenere a debita distanza l'effetto di teatralità - certamente minore che nel precedente "Quando la moglie è in vacanza" o nel successivo "Prima pagina" - è lo scavo nell'umanità dei due personaggi principali, finalmente scevro da ogni alone sociale. Un uomo e una donna che si liberano della corazza pubblica e si espongono in un piccolo leggero dramma da camera dove gli scambi di opinioni assumono un valore rigoroso: le frasi, le emozioni e i ricordi che girano intorno al proprio essere sono piccole, amare riflessioni che inducono quasi sempre ad un acre sorriso, che miracolosamente regge l'orlo della speranza verso il futuro.
Secondo le intenzioni iniziali dell'autore C.C. Baxter avrebbe dovuto avere un handicap fisico, quasi sicuramente un piede deformato. Con il senno di poi, possiamo affermare senza esitazioni che il protagonista non poteva che essere così come nel risultato finale. Un handicap fisico avrebbe comportato da parte del pubblico una pietà non idonea al risultato: secondo le intenzioni Wilder dice che purchè il personaggio - nonché il film - funzionasse doveva essere un timido che pensa e agisce in perfetta buonafede e che ciò doveva essere fatto capire nel modo più chiaro possibile. L'immedesimazione inevitabile e totale tra il personaggio e lo spettatore sarebbe dunque stata sminuita dall'handicap: Baxter poteva figurare come un poveretto piuttosto del fessacchiotto che risulta essere per la maggior parte del film.
Ma non è soltanto l'immedesimazione e la simpatia che si prova per il protagonista, non il concentrato di fascino e dolcezza di Fran Kubelik, non bambolona sexy e irraggiungibile, ma la bella ragazza dell'ascensore della quale è difficile non innamorarsi. Non sono soltanto le caratteristiche dei due protagonisti a smorzare le tonalità drammatiche esposte fino ad ora. "L'appartamento" non è una commedia con il ritmo indiavolato di "Uno, due, tre!", ma ha una comicità che cuoce a fuoco lento. Qualche volta con elementi spudoratamente comici, come la celeberrima e quasi iconica scena di Lemmon che scola gli spaghetti con una racchetta da tennis, molte altre volte con annotazioni soffici e taglienti al tempo stesso. La comicità risuona nelle parole amarognole dei due protagonisti, negli sguardi di Baxter a un'umanità vista con sofferta rassegnazione, nei desolati scarti tra il ventisettesimo piano, simboleggiato da una chiave della toilette dei dirigenti, e la piatta moltitudine della distesa di umili scrivanie. E' patetica ma comica la sequenza con la donna al bar, così come il battibecco con il cognato della ragazza che dona il più rassicurante dei cazzotti possibili. E sono esilaranti le sequenze con il vicino della porta accanto, il Dottor Dreyfuss, che crede Baxter un donnaiolo meritevole di donare il suo corpo alla scienza.
Per interpretare la parte finale del film bisogna forse sfatare almeno parzialmente un equivoco alla base di tutta l'opera wilderiana: il suo proverbiale cinismo. Non vi è dubbio che il cineasta sappia adottare metodologie in grado di smontare quando non ridicolizzare il disgusto dell'ambiente in cui sguazzano i suoi personaggi. Ma è davvero cinico soltanto nei confronti di chi lo merita (che restano i più, certo); tranne qualche eccezione: in questo caso sono prevalentemente i promotori dei meccanismi del meretricio etico a essere puniti e abbandonati al proprio destino. L'umanità ha ancora possibilità di redenzione se articolata da degradazione scaturita da macchinazione non totalmente connivente.
La scelta finale di Baxter è una rivoluzione della piccolezza umana che si erge a magnificenza del riscatto della coscienza che passa, come è giusto che sia, dai sussulti di un cuore finalmente dominante. Il protagonista sa che le fondamenta della società si basano su ingranaggi eticamente dubbi, ma si ferma sull'orlo del precipizio quando si accorge che anche lui stava cominciando a utilizzare il prossimo per scopi personali. Si era adagiato nella condizione di incassatore, ma è soltanto quando sta compiendo la sua escalation speculativa che ha aperto gli occhi.
Non è il risveglio dell'ora amorosa perché Baxter sin dal principio dimostra di essere innamorato di Fran, ma una presa di coscienza della collocazione sentimentale, che supera la stessa consapevolezza che gli permette realmente di avvertire quanto avviene in sè e nei suoi rapporti con il prossimo.
Il concetto viene mirabilmente e definitivamente espresso in una delle ultime frasi che dice alla ragazza: "Sto seguendo gli ordini del medico. Ho deciso di mettere senno. Sa cosa significa? Diventare un essere umano".
Per la sequenza finale vi erano diverse possibilità, la più ovvia delle quali sarebbe stata il bacio che lo spettatore più romantico sognerebbe. Ma Wilder e Diamond non volevano un finale sentimentale - per non dire sdolcinato - e allora alcuni elementi disseminati in precedenza (il goffo tentativo di suicidio nel passato di Baxter, la partita a ramino) e uno appena introdotto (la bottiglia di champagne donata da Dreyfuss) fanno da catalizzatore agli ultimi minuti. Poco prima dello scoccare della mezzanotte Wilder si sofferma sul volto della MacLaine: un frangente memorabile durante il quale lo sguardo della ragazza sembra vagare nel vuoto ma che, improvvisamente, prende forma in un sorriso. In quel momento Fran ha realizzato l'inizio del percorso che ha portato Baxter alla sua personale ribellione ed è forse quell'attimo che offre il reale punto di intimità tra le anime dei due protagonisti, il vero inizio di un futuro finalmente pulito e apertamente ottimista: la corsa, il falso sparo e una partita a ramino che ri-mette in gioco la coppia a cui è lasciata l'opportunità di partire da una depurazione pressappoco completa del sè sociale dove l'autore lascia il suo affetto ai protagonisti, donandogli una buona ricetta per il futuro: esemplare l'anticonvenzionale battuta finale "sta' zitto e dà le carte" (addomesticato e addolcito nell'adattamento italiano nel più ovvio "fa' le carte e poi ridimmelo").
Attraverso le differenze tra tempi lenti-tempi veloci, che vicendevolmente si sfiorano e si forgiano, si esplorano e si analizzano le opportunità che offrono i pilastri che dagli albori stanno alla base del cinema e della vita: la commedia e il dramma. Abbracciando le svariate opportunità trovate nello scrigno delle due categorie, "L'appartamento" ci offre, come forse nessun film dell'epoca sonora, una sintesi ottimale, illustrando con genialità una personalità autentica e globale di un cinema che acquisisce, per l'appunto, un'anima grande come la vita. Il cinema che abbiamo sempre sognato.
cast:
Hope Holiday, Edie Adams, Joan Shawlee, David Lewis, Ray Walston, Jack Kruschen, Fred MacMurray, Shirley MacLaine, Jack Lemmon
regia:
Billy Wilder
titolo originale:
The Apartment
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
125'
produzione:
The Mirisch Corporation
sceneggiatura:
Billy Wilder, I. A. L. Diamond
fotografia:
Joseph LaShelle
scenografie:
Alexandre Trauner
montaggio:
Daniel Mandell
costumi:
Forrest T. Butler, Irene Caine
musiche:
Adolph Deutsch