"Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di reale angoscia?"
(Vittorio De Sica [1])
Ladri e mascalzoni
La carriera cinematografica di Vittorio De Sica inizia con una lunga attività davanti alla macchina da presa, attore giovane, spigliato e capace, che ebbe la sua consacrazione in "Gli uomini, che mascalzoni..." (1932), e riconferme con "Il signor Max" (1937) e "I grandi magazzini" (1939), tutti diretti da Mario Camerini. Film che influenzeranno i suoi primi lavori da regista, considerato che sia "Rose scarlatte" (esordio dietro la macchina da presa, del 1939), sia "Maddalena... zero in condotta" (del ‘40) e sia "Teresa Venerdì" (1941) avranno una chiara connotazione da commedia sentimentale tipica del Ventennio, una sensazione accentuata dalla presenza di De Sica nei panni del protagonista, in un’epoca in cui l’attore offuscava l’autore, lontano dal poter incanalare nelle proprie opere una peculiare visione artistica.
Una parziale svolta, in tal senso, arriva con "Un garibaldino al convento" (1942), che vede De Sica cedere i panni del protagonista per dedicarsi a un ruolo secondario (oltre, ovviamente, a quello di regista). Ma la svolta vera e propria è quella de "I bambini ci guardano" (1943), l’opera che insieme a "Ossessione", di Luchino Visconti, e a "Quattro passi tra le nuvole", di Alessandro Blasetti, anticiperà in tutto e per tutto la stagione neorealista, approfittando delle prime crepe nel sistema dell’invero non così incisivo controllo fascista del mezzo cinematografico.
Il tema dei legami - o del tentativo di convivenza - con il fascismo di chi calcava i set nel Ventennio è controverso e di non semplice analisi [2]. Sta di fatto che De Sica dopo l’8 settembre sposa in pieno quell’onda che egli stesso aveva contribuito a creare e che "Roma città aperta" formalizzerà definitivamente. Dopo "I bambini ci guardano" giungeranno "La porta del cielo" (1944) e, soprattutto, "Sciuscià" (1946), uno dei capolavori del regista di Sora, apprezzato e premiato anche all’estero (riceverà il primissimo Oscar al miglior film straniero, ante litteram visto che il premio verrà creato formalmente soltanto nel 1957, venendo fino ad allora assegnato come premio speciale).
Dopo la parentesi di "Cuore" - del 1948, di cui De Sica fu co-regista insieme a Duilio Coletti - il successo internazionale di "Sciuscià" sarà bissato con "Ladri di biciclette" (altro Oscar per De Sica, a soli due anni di distanza dal primo), eletto addirittura come miglior film della storia del cinema (sino ad allora) dai critici interpellati da Sight & Sound nel 1952, nella prima edizione di una classifica-sondaggio, aggiornata ogni dieci anni, che diventerà la più autorevole del mondo della settima arte [3] e che dal 1962 vedrà il dominio incontrastato (fino al 2012) di "Quarto potere".
"Ladri di biciclette" è dunque il nono lungometraggio girato da De Sica, che con un’esperienza quasi decennale dietro la macchina da presa poteva ormai vantare una più che discreta padronanza del mezzo cinematografico. E infatti "Ladri di biciclette" riprenderà e approfondirà, per certi versi, le istanze e i contenuti di "I bambini ci guardano" e di "Sciuscià" (e in parte di "Cuore"), i film in cui De Sica aveva lavorato con interpreti giovanissimi, con risultati eccezionali dal punto di vista espressivo, che avevano sancito le straordinarie abilità del regista di Sora nella direzione degli attori, prima ancora che nei reparti tecnici e prima ancora che nella scrittura, per la quale si affidava principalmente alla limpida e geniale visione di Cesare Zavattini [4].
Un film politico?
"Ladri di biciclette" uscirà nel novembre del 1948, in un anno particolarmente significativo nel contesto politico del secondo dopoguerra. Il 1948 è infatti l’anno dell’attentato a Togliatti e delle elezioni che avevano sancito la vittoria della Democrazia Cristiana sul Fronte Popolare costituito da socialisti e comunisti. Le speranze di fare tabula rasa di ciò che era sopravvissuto del Ventennio erano tramontate dopo i primi segnali di una malcelata restaurazione centrista, oltremodo indulgente verso coloro che si erano compromessi con il regime. Le istanze rivoluzionarie erano rimaste allo stesso modo insoddisfatte e in tale contesto la storia narrata in "Ladri di biciclette" viene a rappresentare una fortissima metafora della frustrazione del proletariato, prima ancora che una più scontata disamina delle più impellenti questioni sociali dell’epoca (la disoccupazione, il lavoro minorile, la povertà) [5].
Nell’anno in cui gli altri due padri del Neorealismo, Rossellini e Visconti, erano impegnati, rispettivamente, con un’opera ambientata all’estero ("Germania anno zero") e con un film di origine letteraria e fondamentalmente fuori dal tempo ("La terra trema"), toccò a De Sica dipingere l’attualità di quel periodo del tutto particolare per il nostro paese, discostandosi così dal tema cardine neorealista della Resistenza ("De Sica e Zavattini hanno fatto passare il Neorealismo dalla Resistenza alla Rivoluzione", dirà Bazin [6]). Fanno ingresso nel film contesti, simboli e situazioni peculiari di quel momento storico, come l’odiata (dai socialisti e dai comunisti) celere di Scelba, uno degli emblemi dell’autoritarismo post-fascista della DC. O come il comizio comunista, tenuto in un circolo che pare una buia catacomba. Aspetti che restano sullo sfondo, appena accennati, ma ben visibili, messi a contorno di una storia che si focalizza sulle vicende di un uomo.
Quella di Antonio Ricci, il disoccupato romano a cui viene dato un impiego come attacchino comunale a condizione di possedere una bicicletta con cui potersi muovere in giro per la città, è un’ordinaria storia di povertà tipica del secondo dopoguerra [7]. La bicicletta Antonio ce l’ha, ma non sorprende scoprire che l’ha data in pegno per garantire alla famiglia qualcosa da mangiare. E l’idea della moglie di impegnare le lenzuola per poter riscattare la bicicletta è quasi un’inevitabile conseguenza dell’agire disperato di una famiglia che intravede finalmente la possibilità di abbandonare la miseria, convincendosi a un ultimo sacrificio.
La fine che farà quella bicicletta De Sica e Zavattini l’hanno voluta esplicitare fin dal titolo, eppure il regista si riserva di pilotare lo spettatore rimandando il furto a un momento successivo a un primo iniziale abbocco narrato con meccanismi da suspense hitchcockiana (la visita della moglie alla santona). Non accadrà nulla in quell’occasione, bensì poco dopo, quando Antonio prende finalmente servizio, iniziando la sua attività di attacchino. È la svolta narrativa (attesa, per l’appunto), che introduce al lungo secondo atto, quello della ricerca della bicicletta, tra false piste, presunti complici e una frustrazione crescente. Il terzo atto sarà invece meno atteso, sarà quello che giungerà a giustificare il plurale del titolo, mettendo su un piano analogo la condizione dei poveracci e dei miserabili dell’Italia del dopoguerra.
Nonostante le apparenze, "Ladri di biciclette" è un film soltanto indirettamente politico [8]. A dominare è infatti l’individualismo che oppone i disgraziati. Non c’è nel protagonista una coscienza di classe, né un proposito di lotta di classe. I personaggi agiscono ognuno per sé nei momenti in cui potrebbero operare insieme, e agiscono collettivamente – ed è un paradosso – nei momenti in cui vengono messi in discussione i valori borghesi della libertà e della proprietà. Nel capannello di disperati che, all’inizio del film, attendono una proposta di lavoro, non c’è un minimo accenno di solidarietà sociale, né tanto meno un riferimento alla questione sindacale o a quella dell’unione solidaristica tra lavoratori. È una perenne guerra tra poveri, e la conferma giungerà nel momento in cui si riveleranno le condizioni di vita dell’autore del furto. È l’individualismo a dominare, un individualismo che però svanisce nell’occasione in cui il protagonista mette in pericolo la libertà personale del ladro (anch’egli un disperato, prontamente difeso dalla solidarietà di quartiere); o quando attenta alla proprietà altrui, rubando a sua volta una bicicletta e scatenando la reazione violenta della folla nei suoi confronti, che si placa soltanto per la magnanimità del proprietario, peraltro non approvata dagli improvvisati giustizieri di Antonio.
Si tratta di una chiara scelta di individualizzazione del dolore e della questione sociale, che non verrà compresa dalla sinistra più intransigente e nemmeno da alcuni collaboratori del film, come Sergio Amidei, che pose fine alla sua partecipazione alla sceneggiatura perché non riteneva verosimile, nel contesto italiano del dopoguerra, che un personaggio come quello di Antonio Ricci non potesse ricevere una qualche forma di solidarietà di classe a seguito della sua disavventura (banalmente, facendo sì che il partito gli mettesse a disposizione una bicicletta). Una forma di solidarietà nei confronti di Antonio in realtà c’è, ed è quella dei netturbini che tentano di aiutarlo a ritrovare il mezzo al mercato di Piazza Vittorio, tradizionale luogo di smercio dei ricettatori. Ma è una solidarietà fondata soprattutto sui rapporti personali, almeno per come viene presentata da De Sica: vero è che Antonio incontra il suo amico Baiocco nella sede della cellula del partito comunista, ma è vero anche che Baiocco, mentre si sta tenendo il comizio, se ne sta in un’altra stanza a fare le prove di uno spettacolino, disinteressandosi all’attività politica (e tra i due gruppi ci sarà peraltro uno scambio di battute, tanto innocuo in apparenza quanto pungente nei suoi significati più velati: "O ve ne andate voi o ce ne andiamo noi, o si prova o si parla!"). Ed è vero anche che è lo stesso Baiocco (e non il partito) ad attivarsi per le ricerche della bicicletta, insieme ai colleghi (di lavoro, non di partito; di Baiocco, non di Antonio) [9].
L’indifferenza della collettività nei confronti del dramma personale dell’individuo è anzi accentuata in almeno due sequenze: quella della denuncia al commissariato, in cui l’evento del furto – tragico per il protagonista – viene derubricato a una facezia su cui la polizia non può perdere tempo; e quella finale fuori dallo stadio, quando il dolore dell’individuo è sopraffatto dai rumori di un evento futile e mondano come quello della partita di calcio della domenica.
L’indifferenza collettiva per il dolore individuale; il fallimento dell’utopia della solidarietà di classe; le prime avvisaglie delle disuguaglianze originate dal capitalismo: tutto è in quella scena in cui vengono mostrate le centinaia di biciclette fuori dallo stadio, usate dunque per diletto, mentre chi ne ha bisogno per sopravvivere sta maturando il proprio dramma esistenziale. Davanti ad Antonio, quasi incredulo, passa addirittura una gara ciclistica: è la beffa della società moderna, è il "mangino brioche" del Novecento, in cui non ci sono più caste e ordini, non ci sono più i rigidi argini degli status, ma le ciniche sfumature delle classi sociali. E nell’epilogo, piuttosto emblematicamente, la folla inghiotte i due protagonisti.
Insomma, l’individuo è solo nell’affrontare il proprio dolore, così solo che in certi frangenti è portato a dimenticare persino gli affetti familiari, come dimostra Antonio con il suo vagare sconvolto, precedendo il figlio e quasi dimenticandosi di lui, che per due volte rischia di essere investito da una macchina, senza che il padre se ne accorga. Il dolore è distruttivo e non c’è spazio per meccaniche solidaristiche, è l’amaro messaggio che sembra infine giungere da De Sica e Zavattini.
Tempo, spazio, movimento
Sotto un profilo estetico-formale, l’intreccio e lo sviluppo di "Ladri di biciclette", ma anche e proprio quel continuo vagare sconvolto di Antonio, consentono al film di rivelarsi come un’opera di spazi e di movimenti e di movimenti nello spazio. Il moto perpetuo di chi occupa lo schermo è un aspetto che affiora fin dal principio e che si trascina per tutta la durata della pellicola, raggiungendo il culmine nella seconda metà del film. Un dinamismo perpetuo, ma difforme, che anticipa e coinvolge quello della macchina da presa, ben più statica dei soggetti ritratti. Si riempiono gli spazi, da destra a sinistra e viceversa, in avvicinamento e in allontanamento dalla mdp, privilegiando i campi medi e lunghi, che forniscono una distanza realista tra spettatore e personaggio, quest’ultimo isolato nel contesto della propria disperazione [10].
Movimento e tempo si intrecciano, perché lo scorrere del secondo è raccontato attraverso il continuo ricorso al primo. "Ladri di biciclette" fonde così i due concetti deleuziani, dando allo scorrere del tempo un’accezione estremamente dinamica, relativistica, tanto da dare più volte l’impressione di una (quasi) coincidenza tra tempo della storia e tempo del discorso [11]. "Ladri di biciclette" fonde in tal senso cinema classico e moderno, unisce cinema e cinematica, descrive un evento e il suo trascinamento spazio-temporale. Un evento che è per definizione rapportato allo scorrere del tempo, quello della ricerca.
Ma il tempo è anche quello narrativo tipicamente neorealista. Quello dei tempi morti che non vengono sacrificati in fase di montaggio (e che anzi sono volutamente ricercati, come nella famosa scena in cui Bruno si ferma a fare pipì per strada), andando incontro all’ideale zavattiniano del film che avrebbe dovuto rappresentare le ventiquattro ore di un uomo a cui non accade niente. In "Ladri di biciclette" le cose accadono eccome, e del resto quella di Zavattini era e restava una provocazione, un’utopia irrealizzabile, se non nell’ambito del cinema sperimentale (e comunque la coppia si avvicinerà ulteriormente a tale concezione teorica in "Umberto D." - in cui, purtuttavia, non mancheranno gli accadimenti - e in "Stazione Termini", ove però l’architettura temporale e l’ostinata ricerca dei tempi morti inizieranno a sfociare nel manierismo).
Ma il tempo neorealista di De Sica e Zavattini è altresì quello che, in determinate situazioni, rifiuta l’ellissi, anche a costo di forzature narrative piuttosto evidenti: nella scena in cui Bruno e Antonio ritornano dalla santona, pur di non ricorrere all’ellissi, si forza la situazione in sede di sceneggiatura, con un’azione impulsiva di Bruno che spinge il padre a occupare il posto resosi libero a fianco della santona e passando così davanti alla gente in coda. Ancora una volta è il movimento a dominare il tempo.
"L’espressione più pura del Neorealismo"
Ma "Ladri di biciclette" non è soltanto un film sul tempo e sul movimento. È anche uno dei climax più magistralmente costruiti nella storia del cinema, composto di singoli momenti che a loro volta costituiscono dei climax perfetti (il ritrovamento del ladro; il furto della bicicletta fuori dallo stadio da parte di Antonio). Ed è anche, per certi versi, il film neorealista per eccellenza, avendo in sé tutti i caratteri che contraddistingueranno il cinema di quella stagione: la presenza di attori non professionisti (Lamberto Maggiorani era un operaio della Breda [12]), in ruoli popolari, nel contesto della povertà del dopoguerra, con la consueta ambientazione "qui e ora"; il dialetto, la Roma delle periferie, fotografata scendendo per le strade, nel classico approccio che aveva sancito l’abbandono dei teatri di posa. Non ultimo, la drammaticità dei toni, che è poi l’aspetto che sublima l’intero film nella parte finale, con uno sviluppo devastante ma cristallino e privo di qualunque intento ricattatorio.
Non a caso André Bazin definirà "Ladri di biciclette" come "l’espressione più pura del Neorealismo (…) il centro ideale intorno al quale gravitano entro la loro orbita particolare le opere degli altri grandi registi" [13]. C’è solo un aspetto, tra i caratteri peculiari dell'estetica neorealista, che viene inevitabilmente a mancare nel film, ed è quello della provincia, della rappresentazione dell’Italia rurale, stante la contestualizzazione fortemente urbana dell’opera. Non si può avere tutto, ovviamente, ed è comunque una mancanza tenue e giustificata, peraltro compensata dall’ambientazione in una Roma periferica e popolare. Nulla che non possa consentire, insomma, di sposare l’opinione di Bazin e di vedere "Ladri di biciclette" come il paradigma perfetto del cinema neorealista.
"Ladri di biciclette" è il trionfo di De Sica e di Zavattini, il cui contributo è spesso e ingiustamente dimenticato o sottovalutato rispetto a quello del regista [14]. De Sica aveva dalla sua l’indubbia capacità di dominare il profilmico, compiendo il miracolo di far recitare due assoluti debuttanti come due perfetti attori protagonisti (in particolare Enzo Staiola, straordinario nella parte del figlio Bruno). Ma sul fronte strettamente narrativo De Sica è sicuramente debitore del suo sodale e fidato collaboratore, che costruì una sceneggiatura impeccabile partendo da un romanzo, quello omonimo di Luigi Bartolini, ampiamente rimaneggiato e trasportato sui binari del dramma sociale (dobbiamo tenere solo il titolo e l'idea del furto della bicicletta, aveva detto Zavattini a De Sica proponendogli il soggetto).
Insieme, De Sica e Zavattini costruiscono un’opera che è poesia tragica della modernità. Un’opera profondamente viscerale e del tutto impulsiva ed emotiva, forse non nella sua costruzione, ma sicuramente nel suo risultato. Insieme, De Sica e Zavattini costruiscono, prima con la mente, a tavolino, e poi con il cuore, con il lavoro sul set, un autentico capolavoro, una straordinaria pagina di cinema.
Note
[1] La citazione è presa da Italo Moscati, Vittorio De Sica. Ladri di biciclette e ladri di cinema, Castelvecchi, 2018.
[2] Per questo tema, si veda quanto ampiamente illustrato nell’approfondimento "Un’introduzione al Neorealismo".
[3] Roger Ebert l’ha definita "by far the most respected of the countless polls of great movies – the only one most serious movie people take seriously".
[4] Il sodalizio tra i due, estremamente prolifico, inizierà ufficialmente proprio con "I bambini ci guardano", dopo una prima collaborazione non accreditata in "Teresa Venerdì".
[5] La stampa cattolica e gli ambienti conservatori si schiereranno apertamente contro il film, sia per il presunto generale rimando agli ideali comunisti, sia per alcune esplicite sequenze che offendevano la morale e la Chiesa (quella del bordello, quella della messa dei poveri o ancora la scena dei pretini che parlano in tedesco, un palese invito a considerare l’istituzione religiosa come un subdolo e distante nemico). L’Osservatore Romano arrivò addirittura a mettere in dubbio l’opportunità di far circolare la pellicola (cfr. Giaime Alonge, Vittorio De Sica. Ladri di biciclette, Lindau, 2007).
[6] André Bazin, Ladri di biciclette, in Che cosa è il cinema?, Garzanti, 1999, 1a ed. it. 1973.
[7] Una storia talmente ordinaria, quella del furto di una bicicletta nella Roma del dopoguerra, che André Bazin la commenterà così, più provocatoriamente che ironicamente: "non c’è neppure la materia di un fatto di cronaca: tutta questa storia non meriterebbe neppure due righe nella rubrica dei cani investiti" (Bazin, op. cit.).
[8] Per dirla con Bazin (op. cit.): "il suo [di "Ladri di biciclette"] messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, ma è chiaro che nessuno può ignorarlo".
[9] Ancora Bazin (op. cit.): "l’operaio non è venuto a lamentarsi sindacalmente, ma a trovare dei colleghi che potrebbero aiutarlo a ritrovare l’oggetto rubato".
[10] Nei momenti più espressivi, tuttavia, si torna ai piani ravvicinati, e al primo piano in particolare, facendo prevalere le istanze drammatiche su quelle realiste.
[11] Impressione confermata in certe occasioni, come nella sequenza ambientata fuori e dentro la casa del ladro, ma che De Sica sembra voler estendere – concettualmente – al film nella sua interezza.
[12] Su questo aspetto, tuttavia, vanno riportate le vicende pre-produttive secondo le quali David O. Selznick offrì a De Sica di finanziare il film con capitali hollywoodiani a fronte dell’impiego di Cary Grant nei panni del protagonista. De Sica rifiutò, ma non per partito preso, o perché voleva per forza girare con attori non professionisti. Formulò infatti una controproposta, chiedendo Henry Fonda al posto di Cary Grant. Fonda non era però disponibile e non se ne fece nulla. L’impiego di Fonda avrebbe ovviamente cambiato l’intera idea del film, in quanto avrebbe introdotto un aspetto totalmente estraneo, quello del divismo (hollywoodiano, peraltro), là dove sarebbe stato totalmente fuori luogo (l’interpretazione di un disoccupato italiano del dopoguerra divenuto attacchino comunale). Maggiorani funziona anche e proprio per il suo essere una persona qualunque, pur magari concedendo qualcosa sotto l’aspetto dell’efficacia recitativa in alcuni specifici passaggi o in specifiche espressioni. Col senno di poi si può dire che la purezza di un capolavoro del Neorealismo (che forse non sarebbe stato tale) come "Ladri di biciclette" sia stata salvata dagli impegni di Henry Fonda, che permisero a De Sica di andare avanti con la sua idea degli interpreti non professionisti, resistendo alle sirene di Hollywood (a cui peraltro avrebbe volentieri abboccato se solo avesse ricevuto ciò che chiedeva!).
[13] André Bazin, Vittorio De Sica, Guanda, 1953.
[14] Persino Cesare Pavese, nel definire De Sica, nel 1950, il "maggior narratore italiano contemporaneo", sembrava dimenticare l’importanza che una figura come quella di Zavattini aveva all’interno del sodalizio, proprio dal punto di vista della narrazione (cfr. Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, 1997, 1a ed. 1951). Vi saranno anche dei piccoli screzi tra gli stessi Zavattini e De Sica, con il primo che rimprovererà al secondo di non fare abbastanza per riconoscere la sua ampia parte di meriti.
cast:
Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Lianella Carell
regia:
Vittorio De Sica
distribuzione:
E.N.I.C.
durata:
93'
produzione:
P.D.S.
sceneggiatura:
Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Suso Cecchi d'Amico, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gerardo Guerrieri, Gherardo Gherardi
fotografia:
Carlo Montuori
scenografie:
Antonio Traverso
montaggio:
Eraldo Da Roma
musiche:
Alessandro Cicognini