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"Il cinema italiano del dopoguerra non so quanto abbia cambiato il nostro modo di vedere il mondo, ma certo ha cambiato il nostro modo di vedere il cinema".
(Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore)

Precursore e insieme iniziatore del fenomeno delle new wave, le nuove ondate che andranno a innovare e contemporaneamente a irreggimentare in correnti relativamente omogenee il cinema della seconda metà del Novecento, il Neorealismo [1] è il primo movimento cinematografico a sorgere dalle macerie del secondo dopoguerra, in un contesto di disorganizzazione e anarchia produttiva che si rivelerà particolarmente proficuo dal punto di vista artistico. Una svolta che in realtà giunge a conflitto ancora in corso [2], quando l’esigenza di testimoniare gli avvenimenti in divenire - le ultime fasi di una guerra che aveva diviso l’Italia e che ancora la divideva - iniziò a farsi strada in alcuni più o meno giovani cineasti che già avevano calcato i set negli anni del fascismo, ricoprendo vari ruoli e maturando la gavetta in un contesto inevitabilmente inficiato dalle dinamiche di regime, ma che comunque non aveva mai raggiunto i livelli di asservimento alla propaganda propri delle produzioni degli altri paesi totalitaristi (Germania e Giappone) e delle due potenze che avevano da par loro utilizzato il mezzo cinematografico per scopi di esaltazione del socialismo e delle conquiste della rivoluzione (l’Unione Sovietica) o di supporto allo sforzo bellico, per convincere i non interventisti e per reperire le risorse economiche necessarie a finanziare il conflitto (gli Stati Uniti). 
Un distinguo alquanto sottile, che consentì ad alcuni esponenti del movimento di dare una ripulita a una fedina non così limpida, annebbiata da un passato non sempre cristallino, in quanto compromesso dai legami con il regime, nel peggiore dei casi, o comunque rivelativo di un’opposizione allo stesso non così convinta, nella migliore delle ipotesi. Ma le presunte macchie di una compromissione più o meno marcata, più o meno connivente, svaniscono quasi interamente di fronte a meriti artistici salutati con pressoché unanime entusiasmo da una critica che iniziò a vedere nel cinema neorealista il caposaldo di una nuova rinascita, l’apripista di una contrapposizione al classicismo che aveva il suo campione nello studio system hollywoodiano, che di lì a poco sarebbe entrato in una profonda crisi, nonostante i tentativi messi in atto nel dopoguerra dagli americani di riprendersi quei mercati (tra cui quello italiano) inevitabilmente abbandonati alle produzioni di regime. Il cinema italiano seppe resistere a una colonizzazione che fu sicuramente più incisiva in altri ambiti e settori, paradossalmente anche grazie alle risorse del Piano Marshall, destinate anche al sostegno della produzione cinematografica nazionale, che tuttavia ebbe i propri punti di forza non di certo nei budget, quanto piuttosto nelle idee e nella capacità di alcuni autori di portarle avanti con forza e convinzione. 
È infatti una destabilizzazione, quella indotta dal cinema neorealista, che avrà i suoi punti salienti in alcuni aspetti stilistici, tecnici e formali, ma anche e soprattutto contenutistici. Aspetti che apparivano del tutto nuovi (pur non essendolo, in realtà) e che vale la pena analizzare in dettaglio, non senza aver prima fornito qualche ragguaglio sulle radici del movimento, che per l’appunto non rappresentò un’assoluta originalità nel panorama artistico e culturale italiano, ma che, ciò nonostante, fu totalmente dirompente, anche fuori dai confini nazionali. 

Le origini 

Se sul fronte letterario il Neorealismo ha un chiaro debito nei confronti del Realismo tardo-ottocentesco - e in particolare del Verismo di Giovanni Verga e Luigi Capuana -, sul versante cinematografico le radici del movimento andrebbero ricercate già in un film del 1914, andato perduto dopo che l’unica copia esistente venne sottratta dai nazisti, nell’autunno del 1943, dalla Cineteca del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, durante la fuga dei tedeschi dalla capitale.  
Si tratta di "Sperduti nel buio", film diretto da Nino Martoglio e Roberto Danesi e prodotto dalla Morgana Film che dai due era stata fondata all’inizio di quello stesso 1914. Erano gli anni d’oro del cinema muto italiano, quelli del peplum "Quo Vadis?" e - soprattutto - di "Cabiria", veri e propri proto-kolossal che anticiparono e ispirarono i fastosi (e talvolta controversi) lungometraggi di David Wark Griffith. Erano gli anni dei diva-film "Ma l’amor mio non muore!" e "Assunta Spina", gli anni che precedettero il dramma della Prima guerra mondiale e la successiva sostanziale sparizione dalla scena internazionale di una cinematografia – quella italiana, appunto – che si era distinta per inventiva, efficacia stilistica e capacità di adattare soggetti letterari o teatrali, più o meno classici, al nuovo medium. Un crollo che fu anche e soprattutto quantitativo: se nel 1909 erano stati girati in Italia circa cinquecento film - sebbene in un momento storico in cui la produzione era composta da cortometraggi e mediometraggi - e se questo numero salirà a ben oltre le mille unità nel 1912 (l’anno più produttivo, da un punto di vista strettamente quantitativo, del cinema italiano), l’avvento della Prima guerra mondiale e la crisi recessiva che a essa seguì faranno crollare la produzione nazionale, che si attesterà negli anni Venti su numeri ben inferiori. L'avvento del fascismo non cambierà le cose, anzi: nonostante il dilagante nazionalismo e il protezionismo economico, il settore toccherà il suo punto più basso proprio durante il Ventennio e in particolare nella seconda metà degli anni Venti (nel 1925 soltanto 38 film italiani ottennero il visto censura, un numero che scenderà addirittura a 5  unità all'inizio del sonoro) [3].  
Non essendo più disponibile all’analisi contemporanea, per comprendere la portata di un’opera come "Sperduti nel buio" non resta che affidarsi ai commenti della critica cinematografica dell’epoca, che consacrò il film come un capolavoro del Verismo italiano [4]. O alle parole di registi come Carlo Lizzani [5], che insieme ai cineasti della sua generazione considerava il film di Martoglio e Danesi come una bandiera da opporre al filone dannunziano dei kolossal ma anche – e soprattutto – al cinema dei telefoni bianchi del regime [6].


Ma non di soli telefoni bianchi si componeva il cinema del Ventennio, che talvolta abbandonava la comfort zone della commedia borghese, ingenua e innocua, per gettarsi nella propaganda vera e propria, sebbene, per l'appunto, senza mai raggiungere i risultati delle coeve cinematografie tedesca e sovietica. Non che il regime non avesse puntato sul cinema e sulla sua forza espressiva, beninteso [7]. Lo aveva fatto eccome, ad esempio con i cinegiornali Luce, seppure in ritardo e in particolare a partire dagli anni Trenta, quando l’avvento del sonoro ampliò le potenzialità propagandistiche del mezzo. E lo fece con lo strumento indiretto della censura, nei confronti dei film stranieri ma anche e soprattutto di quelli italiani, per i quali la censura poteva anche essere preventiva, nella forma di più o meno espliciti placet ottenuti in fase di pre-produzione. E lo fece, altresì, con il lancio della Mostra del cinema di Venezia e con la fondazione, nel 1937, di Cinecittà, due istituzioni che sopravvivono tuttora e che avranno i loro anni d’oro non di certo in epoca fascista. Ciò che mancò del tutto, invece, furono i risultati sul fronte del lungometraggio (del resto il cinema italiano non può "vantare" film di propaganda del calibro di "Sciopero", "Ottobre", "Il trionfo della volontà" o "Olympia"), che mostravano come nel campo del cinema di finzione il regime preferisse perseguire, con limitate eccezioni, la strada della propaganda indiretta anziché di quella diretta ed esplicita, la strada del nazionalismo piuttosto che quella dell’ideologia pura [8]
Ad ogni modo, è curioso rilevare come sia proprio uno degli autori più politici del Ventennio, Alessandro Blasetti, a essere considerabile come un antesignano, per alcuni aspetti, dell’approccio neorealista, in particolare con due film del 1934, il fascistissimo "Vecchia guardia" e, soprattutto, "1860", che dietro al racconto della spedizione dei Mille e delle battaglie che, liberando la Sicilia dal giogo borbonico, diedero di fatto il via al processo di unificazione della penisola, nascondeva un inno al patriottismo e un paragone tra i moti risorgimentali e la Marcia su Roma, con un messaggio che diventava esplicito nella scena finale, poi eliminata nel dopoguerra [9]. "1860" fu girato principalmente en plein air, con attori non professionisti, che interpretavano personaggi di estrazione popolare e che si esprimevano nei vari dialetti della penisola. Aspetti che diventeranno propri dell’approccio neorealista, anche se in "1860" le istanze ricercate da Blasetti erano ben altre: quelle della chiarezza espositiva e della destinazione popolare dell’opera, nonché quella di evidenziare la disomogeneità linguistica e culturale del paese prima dell’avvento salvifico di Garibaldi e dei suoi (da cui l’uso insistito dei dialetti). Il tema del patriottismo e della nascita di una nazione si univano a quello concorrente del rifiuto della dominazione straniera, altro aspetto che si osserverà spesso nel cinema neorealista con la rappresentazione dell’Italia post-armistizio, ormai in balia dell’ex alleato nazista. 
Ma a parte i due antenati celebri rappresentati da "Sperduti nel buio" e da "1860", la vera triade pre-neorealista è costituita dai tre film che, tra il 1942 e il 1943, abbandoneranno i toni subdolamente spensierati e le ambientazioni posticce della commedia medio-borghese dei telefoni bianchi, così surreali nel contesto di una guerra che sempre più girava a favore degli Alleati. "Quattro passi tra le nuvole", anch’esso di Blasetti, "Ossessione", di Luchino Visconti, e "I bambini ci guardano", di Vittorio De Sica, rappresentano i più concreti e immediati antesignani del Neorealismo, pur non entrando di fatto a farne parte secondo la storiografia ufficiale [10]. Se "Quattro passi tra le nuvole" rappresentava una decisa sterzata verso il realismo da parte di Blasetti, gli altri due film costituivano invece un netto scostamento dai toni spensierati del cinema del Ventennio, sempre più insostenibili, considerate le contingenze.  

Dal fascismo al Neorealismo 

Il cinema neorealista, quindi, muove i suoi primi passi a Seconda guerra mondiale ancora in corso, come dimostra il film ascritto a capostipite del movimento, girato quando ancora le ostilità non erano cessate e che anche per questo motivo descrive così bene l’oggetto della sua narrazione. "Roma città aperta" fu concepito dopo il fatidico 25 luglio 1943, il giorno della caduta del fascismo, data che segnò uno spartiacque per la produzione cinematografica italiana ben più significativo della ricorrenza votata a simbolo di quegli anni, il 25 aprile 1945 della liberazione dal nazi-fascismo. E fu girato dopo l’occupazione alleata della capitale, quando l'intraprendenza di Rossellini portò quelle idee a trovare attuazione, pur tra mille difficoltà (le macerie per le strade, la mancanza di luce elettrica e della stessa materia prima, la pellicola). 
"Roma città aperta" è il film che – secondo il giudizio di Godard [11] – permise all’Italia di "riconquistare il diritto a guardarsi in faccia". E non è un caso il fatto che il film simbolo e iniziatore del movimento arrivi da quel Rossellini che aveva girato, prima di "Roma città aperta", tre film ("La nave bianca", del 1941, "Un pilota ritorna", del ‘42, e "L'uomo dalla croce", 1943) di chiara impronta propagandista, seppur in maniera meno convinta dei film palesemente schierati di Blasetti [12]. Una "trilogia fascista" a cui il regista contrapporrà una nuova trilogia che si può definire "post-fascista", quella iniziata, per l’appunto, con "Roma città aperta" e proseguita con "Paisà" e "Germania anno zero", anch’essi due titoli fondamentali di quella stagione.  


Quelli che vi erano stati tra il fascismo e alcuni di coloro che diventeranno i protagonisti del Neorealismo erano dunque legami quanto meno controversi, come nel caso, più evidente, di Rossellini [13], che pure nel secondo dopoguerra verrà considerato un maestro dell’antifascismo. O forse quei legami rappresentavano soltanto l’espressione di una difficile sopravvivenza in un contesto ostile: come nel caso di Vittorio De Sica, uno dei protagonisti del cinema del Ventennio (prima come attore, poi come regista), eppure spesso etichettato come comunista, almeno negli anni della sua maturità; o come per i registi – tra cui Mario Soldati – che in quegli anni si dedicarono al c.d. cinema calligrafista, di ispirazione letteraria e ambientazione lontana dalla controversa contemporaneità, forse anche e proprio per tenere le distanze dal regime; o ancora come per i redattori della storica rivista "Cinema" - i vari De Santis, Visconti, Lizzani, Antonioni - che in quegli anni era diretta niente meno che dal figlio del duce Vittorio Mussolini, per fortuna rivelatosi un direttore piuttosto tollerante (e spesso assente [14]) dietro la cui firma si riusciva, paradossalmente, a esercitare una certa forma di militanza, più o meno velata, soprattutto negli anni della guerra (tra i critici di "Cinema" vi era del resto anche Pietro Ingrao [15]). Furono proprio e principalmente i redattori di quella rivista a spingere il dibattito cinematografico italiano verso un nuovo approccio realista, che rifiutasse gli artifizi scenografici, il manierismo e tutto ciò che aveva connotato il cinema di quegli anni. 
Se i principali registi della stagione neorealista furono i già citati Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis (senza però dimenticare i vari Lattuada, Germi, Castellani, Zampa), il teorico del movimento fu invece lo sceneggiatore Cesare Zavattini, colui che di fatto si ascrisse la paternità della poetica neorealista, con le sue concezioni del pedinamento e della realtà spiata dal buco della serratura; colui che aveva avuto modo di rilevare, con il suo consueto tono polemico, come non vi fosse un solo metro di pellicola da salvare in tutto il cinema del Ventennio. Un’evidente iperbole, una provocazione ripresa in maniera acritica da molti commentatori, fino a quando quello stesso cinema non divenne oggetto di studio, ricerca e riscoperta (il che non implica, ovviamente, di per sé una riabilitazione), anche e proprio per individuare i prodromi di quei caratteri che difficilmente avrebbero potuto essere partoriti dal nulla nell’ambito di una cinematografia nazionale, ma che più verosimilmente negli anni precedenti erano soltanto rimasti sullo sfondo.  
Del resto, quegli stessi registi non mancarono di ricordare come la stagione neorealista non fosse affatto la concretizzazione di un’estetica studiata a tavolino. Quegli autori, in molti casi, tra di loro si conoscevano appena ed erano spesso portati ad ascrivere l’omogeneità dello sguardo neorealista unicamente alle particolari contingenze storico-sociali in cui si trovava l’Italia di quegli anni. Erano anzi poco inclini a essere incasellati in gruppi omogenei, in correnti o in qualunque altra cosa potesse oscurare la loro personale visione artistica. Fu piuttosto la critica – quella straniera, ma anche quella italiana, a partire dai convegni di Pesaro del 1949 e di Parma del 1953 – a formalizzare e isolare un fenomeno, uno sguardo, un’estetica che ben potevano essere riconducibili, benché artificiosamente, a una scuola o a un movimento, in quanto espressione di caratteri ben precisi e identificabili. 

I caratteri dell’estetica neorealista 

In "Roma città aperta" sono evidenti molti dei caratteri che renderanno riconoscibile il cinema neorealista e tutti i suoi epigoni. Alcuni di essi, appunto, erano già presenti in certo cinema del Ventennio, e addirittura in alcune opere del muto, ma mai con quella organicità che caratterizzerà le pellicole del nuovo corso, girate e distribuite dal dopoguerra ai primi anni Cinquanta, quando il fenomeno comincerà a esaurirsi, complice un primo ritrovato benessere dovuto al boom economico, ma anche e soprattutto per il prevalere di nuove forme di rappresentazione artistica che vireranno i toni drammatici dell’immediato secondo dopoguerra verso più faceti toni da commedia, che il popolo del resto ricercava per mettersi alle spalle una volta per tutte un passato funesto [16]. Esaurita la vena quasi documentaristica, intrinseca nel desiderio di rappresentare l’Italia del dopoguerra, la volontà di voltare pagina fu prevalente, e permise al cinema italiano di rinnovarsi con un lungo percorso che porterà allo sviluppo dell’altro movimento che lo caratterizzerà a livello mondiale, la commedia all’italiana. 
I caratteri fondanti e fondamentali del cinema neorealista sono dunque, limitandosi a quelli principali e peculiari del movimento: la drammaticità dei toni; l’ambientazione prevalentemente hic et nunc, con la rappresentazione di temi di rilevanza politica e sociale; l’apertura ai contesti periferici, al paesaggio rurale e al provincialismo; la dilatazione dei tempi narrativi; lo stile pseudo-documentaristico, privo di artifizi e con una totale aderenza al reale; la presenza di soggetti appartenenti alle classi sociali più disagiate, quelle che erano state maggiormente colpite dalla guerra e dai suoi effetti; la scelta di girare per strada, all'aperto, abbandonando i teatri di posa (a cui ricorreva sistematicamente il cinema classico, soprattutto in quegli anni, per controllare l'ancora primitivo sistema di registrazione del sonoro); e quella di affidarsi, in genere, a pochi interpreti noti, affiancati da attori non professionisti di estrazione popolare (se non esclusivamente a questi ultimi).
 
Scendendo nel dettaglio, va rilevato, innanzitutto, come l’appartenenza dei protagonisti del racconto neorealista alle classi sociali più disagiate fosse un espediente già ampiamente utilizzato dalla letteratura verista e ripreso dal cinema fin dal periodo del muto (nel citato "Sperduti nel buio", ma anche in prodotti atipici come il serial cinematografico "I topi grigi", che collocava le proprie storie criminali nei bassifondi parigini). Un'ambientazione che invece si poneva in netta contrapposizione a quella medio-borghese del cinema dei telefoni bianchi della seconda metà degli anni Trenta, quando i problemi sociali (e politici) erano volutamente ignorati per mezzo della "distrazione di massa" devoluta a commedie leggere e spensierate, principalmente a carattere sentimentale [17]. Una netta contrapposizione si registrava anche nei confronti del film storico, l’altro ambito in cui eccelleva la produzione italiana, fin dai tempi del muto. Un genere che, se non veniva - più o meno esplicitamente - utilizzato a fini propagandistici (come per il peraltro isolato "Scipione l’Africano" di Carmine Gallone), era avulso da qualsiasi potenziale aspetto di critica sociale. 
Di estrazione popolare erano poi buona parte degli attori non professionisti che iniziarono a essere impiegati con una certa frequenza nel cinema neorealista, accanto a pochi, ma ben conosciuti, attori professionisti o a giovani interpreti emergenti. Anche in questo caso, un qualcosa che si era già avuta in passato (anche in quello recente, come per il caso di "La nave bianca" di Rossellini [18]), ma raramente per scelta deliberata e più spesso per mere necessità produttive. E per certi versi fu così anche nel periodo neorealista, quando però quella scelta – che aveva una connotazione sia produttiva che stilistica – diventerà un aspetto fondamentale e caratterizzante del movimento.  


Anche la scelta di abbandonare i teatri di posa per girare principalmente per strada, all’aria aperta, fu dettata da concomitanti motivazioni di carattere stilistico e, soprattutto, produttivo. È lo stesso Rossellini a ricordare, in più occasioni [19], come il fatto di girare en plein air fu prima di tutto una necessità derivante dalle contingenze, in un’Italia distrutta, nel corpo e nello spirito, che si voleva immortalare in tutta la sua genuinità (perché ricostruire le macerie, se di macerie il paese abbondava? O come dicevano i critici francesi: "La realtà è lì, perché manipolarla?"). Senza dimenticare gli aspetti economici e logistici, di produzioni che cercavano di fare i conti con i budget risicati del dopoguerra e con la distruzione o con la mancata disponibilità di alcuni teatri di posa (Cinecittà fu colpita durante il bombardamento alleato di Roma e divenne un campo profughi gestito dagli americani e sgomberato soltanto nel 1950). 
Girare nella penisola distrutta o comunque segnata dalla guerra implicava, da un lato, un certo approccio pseudo-documentaristico [20], e dall’altro l’ambientazione hic et nunc delle vicende (con rare eccezioni), abbandonando i richiami al passato, in particolare a quello più remoto, e ogni pretesa di raccordo con il classicismo storico-letterario. Le commedie "ungheresi", ambientate a Budapest per donare un tocco di esotismo alle storie tipiche del cinema dei telefoni bianchi, resteranno un lontano ricordo. Il paesaggio urbano si apre al connubio con la campagna, con uno spiccato richiamo al provincialismo, esaltato dall’utilizzo del linguaggio vernacolare. 
Raccontare la quotidianità popolare implicava a sua volta, per certi versi, anche un rallentamento dei tempi narrativi, ma il passo compiuto in tal senso dall’estetica neorealista fu ben più di una mera scelta stilistica o narrativa, tanto che, soprattutto per questo specifico aspetto, Gilles Deleuze arriverà a indicare il Neorealismo come il movimento capace di segnare il passaggio dal cinema classico al cinema moderno, ossia, secondo la terminologia coniata dal francese, dall’immagine-movimento all’immagine-tempo. Il cinema neorealista racconta l’avvenimento "nel suo farsi", l’azione cede il posto alla percezione e gli stessi personaggi sono spettatori che registrano ciò che accade davanti ai loro occhi [21].  
Infine, ultimo dei citati elementi principali e peculiari del Neorealismo fu l'abbandono dei toni da commedia tipici del cinema del Ventennio (e dei telefoni bianchi in particolare) a favore di toni drammatici più adatti al contesto da cui l’Italia usciva, ora che non si doveva più nascondere l'impressione di un paese in cui i conflitti sociali erano del tutto assenti, come il fascismo voleva far credere quando era al potere. Con ciò non si vuol dire, ovviamente, che durante il Ventennio mancarono i film drammatici, bensì che essi erano (oltre che minoritari) volti principalmente a esaltare il fascismo o alcuni suoi caratteri essenziali come la vocazione patriottica, sia direttamente (come in "Vecchia guardia" di Blasetti), sia per via indiretta (il dramma dei franchisti circondati dai nemici in "L’assedio dell’Alcazar", di Augusto Genina). Erano dunque film che costituivano ben precise e motivate eccezioni, una tendenza che si ribalterà completamente in epoca neorealista, ove a prevalere saranno i drammi sociali, con le commedie che invece costituivano un’eccezione, peraltro non sempre accolta con favore (su tutti, il tentativo zavattiniano di cambiare i toni con "Miracolo a Milano", che peraltro rappresenterà un netto distacco dal Neorealismo esemplare a favore di un "realismo fantastico"). 

Il tramonto del Neorealismo 

L’esaltazione critica del cinema neorealista porta spesso a dimenticare il fatto che i film del movimento riscossero più consensi ed entusiasmo tra intellettuali e addetti ai lavori piuttosto che tra le masse. I film neorealisti non furono quasi mai successi commerciali (pur con rilevanti eccezioni, tra cui quella del capostipite "Roma città aperta" [22]) e vennero sempre più apertamente osteggiati dalla politica, come avvenne in occasione della nota polemica andreottiana nei confronti di "Umberto D.", uno dei momenti in cui la natura del Neorealismo quale bersaglio simbolico dello scontro in atto tra Democrazia Cristiana e forze socialiste e comuniste venne chiaramente allo scoperto [23].  
Già dalla fine degli anni Quaranta si assistette al ritorno prepotente della censura preventiva, questa volta di stampo cattolico-conservatore, e alla messa al bando di alcuni soggetti ritenuti inopportuni (tra cui quelli legati alla Resistenza [24]). Tutti elementi che avranno il loro peso nel tramonto del movimento, insieme alla riorganizzazione dei produttori (successiva al caos del dopoguerra), che si faranno forti del sempre minor favore che i film neorealisti riuscivano a riscuotere presso il grande pubblico. Ma non vi furono soltanto elementi esogeni a minare alle fondamenta la scuola neorealista: non secondaria fu, già sul finire degli anni Quaranta, la più o meno esplicita ammissione, da parte di alcuni autori, dell’impossibilità di portare avanti un progetto comune, iniziando così i primi disimpegni e i primi smarcamenti. 
Un nuovo cambio di rotta - dal dramma ai toni più spensierati della commedia - si registrerà nel momento in cui il Neorealismo, avviatosi verso il crepuscolo, lascerà spazio a un cinema nuovamente focalizzato sull’intrattenimento, che annacquerà e metterà in secondo piano le questioni politico-sociali. Con gli anni Cinquanta, quella stagione sarà definitivamente superata, preparandosi a entrare in chiave retrospettiva nei manuali e nelle riviste specializzate. Era la memoria visiva di un’Italia che con il boom economico aveva definitivamente voltato pagina. 
 
Note 

[1] Va sin da subito precisato che il termine Neorealismo nacque nell’ambito della critica letteraria e fu usato nel contesto cinematografico da Umberto Barbaro, riferendosi al cinema francese degli anni Trenta. Verrà associato al cinema italiano del dopoguerra - dai critici francesi Bazin, Sadoul e Morlion - soltanto nel 1947-1948 (all’estero si parlerà anche di "Scuola italiana della Liberazione", sempre da parte di Bazin, già nel fondamentale saggio "Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione", in Che cosa è il cinema?, Garzanti, 1999, 1a ed. it. 1973). 
[2] Sulla periodizzazione della stagione neorealista la storiografia cinematografica è abbastanza concorde nel riportarne l’inizio a Seconda guerra mondiale ancora in corso, mentre è più divisa sulla sua fine. In particolare, chi – come Gian Piero Brunetta – analizza il fenomeno neorealista in un senso più ampio (in particolare, come "sguardo neorealista") è portato a datare la fine del movimento ai primi anni Sessanta. Altri, invece, considerano chiusa la stagione, con un approccio più restrittivo, già nella prima metà degli anni Cinquanta o addirittura alla fine degli anni Quaranta (come nel caso di Alberto Farassino). 
[3] I dati sono tratti da Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista (Il mulino, 2000), e da Gian Piero Brunetta, Il cinema muto italiano (Laterza, 2008) e Cent'anni di cinema italiano (Laterza 1991).
[4] Questo un estratto del commento di Umberto Barbaro al film, citato nel documentario "Sperduti nel buio" di Gianluca Donati (2008): "Con perfetta coerenza stilistica il realismo si accentua via via nel racconto fino a superare se stesso e divenire metafora e significato: maniera di vedere il mondo che, nell’esprimersi, si fa arte". 
[5] Intervistato da Gianluca Donati nel documentario "Sperduti nel buio" (2008). 
[6] Come noto, la locuzione "cinema dei telefoni bianchi", rappresentativa di una fetta consistente della produzione cinematografica italiana degli anni Trenta, indica quelle commedie e film di evasione che avevano un’ambientazione medio-borghese, richiamata, per l’appunto, dalla presenza di telefoni bianchi, oggetti che erano di fatto appannaggio delle classi sociali più elevate, in quanto più costosi dei più popolari telefoni neri in bachelite. Erano dette anche "commedie all’ungherese" perché tratte talvolta da romanzi e pièces ungheresi (come nel caso di "Teresa Venerdì" di De Sica), il che comportava l'ambientazione a Budapest o in altre città magiare. 
[7] Per dirla con Brunetta, che sintetizza perfettamente la questione, "Il cinema, figlio prediletto del fascismo, era uno dei terreni in cui si manifestava una discreta tolleranza che serviva ad ammorbidire l'immagine più repressiva del regime dittatoriale" (Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano, Laterza, 2009). 
[8] Cfr. Antonio Costa, Il cinema italiano, Il mulino, 2013. Va peraltro precisato che i risultati non arrivarono dal punto di vista qualitativo, ma lo fecero eccome sotto il profilo strettamente quantitativo, considerato che "dei 772 film prodotti in Italia dal 1930 al 1943, circa cento sono classificabili come film di propaganda" (Costa, op. cit.). 
[9] La sequenza finale di "1860", eliminata dalla versione del 1951, mostrava alcuni anziani garibaldini commuoversi per il passaggio di un drappello di giovani in camicia nera, rendendo così esplicito il parallelo tra Risorgimento e Marcia su Roma. Il finale era stato tuttavia inserito in maniera artificiosa in un film che per il resto aveva un suo equilibrio perfetto anche (e soprattutto) senza quella scena, la cui rimozione, infatti, non incise minimamente sulla struttura filmica. 
[10] Va peraltro evidenziato che alcuni testi considerano "Ossessione" già appartenente al fenomeno neorealista, e dunque, per ragioni cronologiche, il primo film del movimento. Prevalgono, tuttavia, le opinioni di chi considera l’opera di Visconti come appartenente al pre-Neorealismo e v’è addirittura chi, come Fernaldo Di Giammatteo, riteneva "Ossessione" un film antitetico rispetto allo sguardo neorealista. 
[11] Espresso nel documentario "Histoire(s) du cinéma" (1998). 
[12] Peraltro, la formazione sul campo di Rossellini con il suo primo lungometraggio, "La nave bianca", opera di taglio fortemente documentaristico (pur essendo un film di finzione), sarà per certi versi fondamentale per lo sviluppo del suo stile in epoca neorealista. Anche se va rimarcato che in "La nave bianca" il lavoro di Rossellini era stato supervisionato (e secondo alcuni in parte rifatto) da Francesco De Robertis, un ufficiale della marina, con due film da regista all’attivo, che tra i primi aveva introdotto l’idea di girare sistematicamente con attori non professionisti, da molti contemporanei ritenuta una follia. Tanto che Mario Bava, che di "La nave bianca" era stato operatore alla macchina da presa, arriverà addirittura a dire che De Robertis era il vero inventore del Neorealismo, ben più di Rossellini che "gli aveva rubato tutto" (cfr. Gianni Rondolino, Rossellini, Utet, 2006, 1a ed. it. 1989). 
[13] Una certa indulgenza nei riguardi di chi aveva avuto rapporti col fascismo, anche a guerra in corso, fu del resto un’indiretta conseguenza della politica voluta da Togliatti e dalla sinistra nel più ampio contesto della questione istituzionale, successivamente alla c.d. svolta di Salerno. Vi furono vere e proprie commissioni di epurazione e quella per i registi e gli sceneggiatori fu composta, tra gli altri, da Visconti, Soldati e Camerini (che sebbene fosse un protagonista del cinema del Ventennio, era considerato un regista controcorrente, anch'egli tra i pochi a girare all'aperto - "Gli uomini, che mascalzoni...", con Vittorio De Sica, pronto a imparare la lezione - negli anni in cui si girava quasi esclusivamente in studio). Tra i nomi finiti nell'inchiesta vi fu anche quello di Rossellini, ma a essere colpiti da una sanzione (peraltro simbolica: sei mesi di sospensione) furono soltanto Goffredo Alessandrini, Carmine Gallone e Augusto Genina (le vicende sono ricostruite in Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano, cit.). 
[14] Emblematico fu, ad esempio, l’episodio legato alla sferzante stroncatura da parte di De Santis, sulle pagine di "Cinema", di "Un pilota ritorna", il secondo lungometraggio di Rossellini, ideato e prodotto proprio da Vittorio Mussolini, grande appassionato di aviazione, oltre che di cinema. Tra De Santis e il suo direttore vi fu un confronto sereno, senza che questi rimproverasse alcunché al primo per la stroncatura del "suo" film. Anzi, i due concordarono sulla necessità del cinema italiano di abbracciare totalmente il realismo, un obiettivo comune che tuttavia partiva da ideali di fondo ben diversi (l’episodio è ricordato in Rondolino, op. cit., dove sono riportate anche le parole di Vittorio Mussolini e di Giuseppe De Santis sulla vicenda). 
[15] Queste apparenti contraddizioni sono riportate da Ugo Pirro in un passaggio significativo del suo romanzo Celluloide, dedicato alla genesi di "Roma città aperta" (Carlo Lizzani ne trarrà un film, omonimo, nel 1996): "Che poi proprio intorno a una rivista firmata da un Mussolini si ritrovassero i giovani cineasti più aperti al nuovo e tutti con la tessera comunista nascosta tra i libri, può sorprendere solo uno straniero. Così come resta un segreto nostro, tutto italiano e soltanto a noi comprensibile, che sia toccato a un uomo che si era fatto le ossa lavorando a film di propaganda fascista, girare il film che avrebbe dato inizio alla straordinaria storia del neorealismo italiano: a Roberto Rossellini." 
[16] Non che non vi fossero, ovviamente, commedie e opere più leggere anche nell’immediato dopoguerra. Anzi - e con poche eccezioni - quei film furono decisamente dominanti, almeno dal punto di vista del riscontro di pubblico: si pensi ai film di Totò e di Macario, o ai melò di Matarazzo (filone ribattezzato "neorealismo d’appendice", che faceva il paio con il "neorealismo rosa" per indicare proprio quella svolta dal dramma alla commedia in opere che per il resto mantenevano uno sguardo neorealista). 
[17] Va però detto che, sebbene funzionali al progetto conformista portato avanti dal regime, quelle commedie erano in realtà poco o per nulla apprezzate dai fascisti più integralisti, che prediligevano l’approccio più diretto del cinema di propaganda puro. 
[18] Il retorico e pomposo cartello iniziale di "La nave bianca" recita, in maniera decisamente emblematica: "(…) tutti i personaggi sono presi nel loro ambiente e nella loro realtà di vita e sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno".  
[19] Da ultimo, in alcune immagini d’archivio presentate nel documentario "The Rossellinis", girato dal nipote di Roberto, Alessandro Rossellini. 
[20] Dirà Bazin che "i film italiani presentano un valore documentario eccezionale" e che "è impossibile tirarne via la storia senza trascinare con essa tutto il terreno sociale nel quale affonda le sue radici" (Bazin, op. cit.). 
[21] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, Einaudi, 2016/2017 (1a ed. it. 1984/1989). 
[22] Gian Piero Brunetta parla addirittura di "risultati catastrofici al botteghino" da un certo momento in avanti (Brunetta, Il cinema neorealista italiano, cit.). "Roma città aperta" rappresentò invece il maggior incasso del 1945. 
[23] Ad Andreotti, che dal 1947 al 1953 rivestì il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega allo Spettacolo, va tuttavia ascritto il merito di aver posto le condizioni affinché quella italiana diventasse, con i 201 film girati nel 1954, la seconda cinematografia mondiale dopo quella americana. Di fatto, però, la politica governativa del periodo era volta a favorire il prodotto nazionale (e dunque un suo sviluppo soprattutto quantitativo) con un approccio industriale, senza che si badasse troppo alle ragioni artistiche, e anzi portando all’isolamento, mediante la leva economica, i prodotti sgraditi al potere politico (e in particolare ai democristiani). 
[24] Dirà Ponti, per evidenziare l’evidente paradosso della nuova situazione, che "Roma città aperta" qualche anno dopo il ’45 già non avrebbe potuto essere girato, "poiché non sarebbe gradito ai tedeschi" (cit. in Brunetta, Il cinema neorealista italiano, cit.).





Un'introduzione al Neorealismo