"Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta al riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni"¹
"Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò"²
Mentre l'autoritarismo fascista cominciava a trasformarsi prepotentemente in regime totalitario lasciando trapelare la povertà del paese e l'analfabetismo di una larga fetta dei suoi abitanti, il cinema italiano degli anni 30 irrompeva di slancio per dare risalto alla punta dell'iceberg, imprimendo in immagini, cioè, lo spaccato di un'euforia dettata dall'inizio della società dei consumi, esaltata dal progresso e (ipocritamente) crogiolata dal benessere. Lo sfarzo e l'opulenza del "telefono bianco" diviene l'oggetto metaforico di questa abbozzata e carnevalesca immagine del Belpaese, sulla scia della screwball comedy in voga oltreoceano con Capra e Hawks. Una cecità cagionata dalla mancante presa di coscienza nei riguardi di un turbolento periodo storico di transizione e che si rifletteva in un cinema massicciamente influenzato dalla propaganda fascista e oltremodo plasmato da una spensierata leggerezza, dove la commedia degli equivoci ha il compito di mitigare i continui rimandi classisti. Fu il crollo del regime fascista in quel settembre del 43 a sovvertire i canoni, favorendo il pensiero di una nuova corrente culturale orientata ai problemi reali del Paese di natura economica, politica e sociale³.
"Ossessione" (1943) di Visconti è oggi unanimemente riconosciuto dalla critica cinematografica quale primo film annoverabile all'interno della corrente neorealista. In esso si riscontrano le prime forme di annullamento di qualsiasi precetto filmico legato alla finzione in senso lato:"l'attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Al punto che l'uomo-attore e l'uomo-personaggio vengono, a un certo punto, ad essere uno solo"4. La pellicola manifesto viene però realizzata due anni dopo, tra i resti e le macerie della Capitale in un'Italia ancora in guerra, da un quarantenne borghese di Roma innamoratosi del cinema sin dalla tenera età anche grazie al padre. Il suo nome è Roberto Rossellini. Dopo aver girato nel giro di pochissimi anni un considerevole numero di cortometraggi e aver altresì esordito nel lungometraggio con una trilogia di propaganda fascista per la Regia Marina (l'armata navale del Regno d'Italia), Rossellini realizza con "Roma città aperta" il primo film dell'Italia liberata dai nazisti e dalla guerra, opera cardine che segna la palingenesi del cinema nostrano proprio perché capace di descrivere un nuovo modo di intendere il mezzo filmico (il "cinematografo" come lo chiamava Rossellini). L'esigenza è quella di riconoscere ed esaltare l'esistenza del reale, mostrando un mondo inalterato, senza filtri, dove l'impegno morale e civile surclassa la pretesa (quella propagandistica degli anni 30) di modificare la realtà per il semplice desiderio di idealizzare un'utopia o, in ogni modo, un qualcosa di distante e inafferrabile.
"Roma città aperta" racconta la storia corale di un gruppo di vite umane in un quartiere della Capitale durante l'occupazione nazi-fascista: l'ingegner Manfredi (Marcello Pagliero) è uno dei capi del Comitato di Liberazione Nazionale tallonato dalle alte cariche del regime che cerca asilo tra le mura amiche del compagno Francesco (Francesco Grandjacquet), pronto a convolare a nozze con Pina (Anna Magnani) il giorno successivo. La donna è una vedova madre di un bambino brillante e affettuoso , Marcello (Vito Annichiarico), triste testimone degli orrori commessi dalla guerra insieme a tutti i suoi coetanei che si riuniscono nella parrocchia di Don Pietro (Aldo Fabrizi), sostenitore dei partigiani. La relazione tormentata tra Manfredi e Marina (Maria Michi), un'artista tossicodipendente in stretto contatto con gli ufficiali tedeschi, segnerà il triste destino dei singoli personaggi.
Il soggetto di Sergio Amidei ripercorre le drammatiche vicende di cronaca relative a Don Giuseppe Morosini e Teresa Gullace da cui il film prende spunto nelle figure di Don Pietro e Pina. Rossellini però deforma lievemente la realtà storica puntando il dito contro i nazisti anziché contro i fascisti italiani, i veri mandatari delle esecuzioni. Come molte altre opere neorealiste, "Roma città aperta" non vive di una vera e propria sceneggiatura, piuttosto disegna il mondo circostante affidando lo sviluppo dell'intreccio agli avvenimenti recenti, all'istinto di un'esigenza morale e alle improvvisazioni di attori e autori che ne irrobustiscono lo status di cinema verità (ne è la prova la tragica scomparsa di Pina, personaggio che, sino a quel momento, Rossellini consegna allo spettatore saturo di enfasi, salvo poi eliminarlo dalla scena a metà del film). Si pensa, addirittura, sia stato lo stesso regista a negare di aver mai seguito il contributo in fase di scrittura, realizzato, tra gli altri, da un giovanissimo Federico Fellini. Ben più nota è invece l'odissea vissuta dalla compagine nella produzione del film: rifiutando il teatro di posa in favore degli ambienti esterni (e senza l'ausilio di Cinecittà caduta in rovina dai bombardamenti), in una pagina storica di così drammatiche proporzioni, le disavventure si rincorrevano di minuto in minuto, rivelando le difficoltà di girare tra strade ricoperte di detriti e macerie, senza un soldo, chiedendo in elemosina rulli di pellicola, conducendo in tempo reale trattative con produttori improvvisati e utilizzando a proprio vantaggio la corrente elettrica altrui5.
Come la gran parte dei più affermati cineasti appartenenti alla corrente neorealista, anche Rossellini è stato inevitabilmente persuaso dal realismo poetico francese, sebbene la personalità della sua cifra stilistica si fosse già segnalata nella sua originalità sin dai primi lungometraggi fascisti. Paradossalmente, poco o niente di autentico veniva raccontato nelle storie dei grandi registi transalpini degli anni 30, come nel caso di Marcel Carnè, ma l'atmosfera e la forte connotazione metaforica e simbolica (in un clima di oppressione e in un desiderio di fuga che caratterizzava la Francia come qualsiasi altro paese europeo di quegli anni), fu l'ispirazione decisiva per convincere il regista romano e l'Italia cinematografica a spingersi verso una radicale svolta. È forse Jean Renoir a segnare il maggior debito riconosciuto da Visconti e Rossellini per le realizzazioni di "Ossessione" e "Roma città aperta". In "Toni", pellicola diretta dal francese nel 1936, l'ambientazione naturale, così come i sogni e le cocenti delusioni di un povero immigrato italiano, fungono da prodromi ai futuri caratteri neorealisti, già ampiamente visibili nel capolavoro rosselliniano, a cominciare dall'uso di tecniche rappresentative quali la profondità di campo, particolari soggettive non attribuibili ad alcun personaggio sulla scena (che rappresentano la prospettiva del pubblico, testimone degli orrori della guerra) o la camera a mano. L'illusoria cifra documentaristica si sublima dunque in arte, quando il regista decide di adottare per il film dei precisi idiomi stilistici ed espressivi (del resto "la realtà non esiste, è sempre soggettiva" ha sempre dichiarato Rossellini).
La semplicità e la linearità del racconto sono espressione della nuda e cruda verità. La guerra si dipana tra i fotogrammi attraverso costruzioni in disfacimento, torture, soprusi, morte. I testimoni di questo teatro dell'orrore sono i singoli individui dell'umile quotidianità contemporanea. È grazie ai loro gesti se oggi possiamo ricercare nell'ermeneutica della pellicola una latente prospettiva di speranza e di riscatto. L'eroismo dei personaggi rappresentati sulla scena poi, non è da meno di quello recitativo degli interpreti, come dimostra il martirio scandito da Aldo Fabrizi all'interno della tragedia, lui che fino a quel momento, giungeva dalle commedie di Bonnard e Mattoli; o la meravigliosa e leggiadra espressività della Magnani che rimane tale anche dopo essersi lasciata andare a un'imprecazione romanesca (quel "vammoriammazzata" che, insieme alle tristi sequenze delle fucilazioni, oggi fa parte dell'immaginario collettivo della storia cinematografica italiana). La naturalezza del parlato e la dirompente enfasi dialettale fanno da contraltare alla lingua originale degli ufficiali tedeschi, lodevolmente non doppiata, non tanto per conferire (e confermare) la prerogativa realistica, quanto piuttosto per suggerire la metafora di un'incomunicabilità partorita dalla lingua dell'oppressione e del potere per antonomasia, capace di suscitare paura e rabbia (stratagemma che Fellini rievoca nell'eloquente finale di "Prova d'orchestra" del 1979).
Le fondamenta dell'opera sono da ricercare, ancor prima che in veste artistica e culturale, sotto un contesto meramente umano e storiografico. L'opera di Rossellini antepone una chiave di lettura etica ancor prima che estetica. È dunque il riscatto di un'umanità dai crimini e dagli orrori del recente passato ad alimentare il cuore pulsante di "Roma città aperta"; quello di un regista che, dopo essersi fatto abbindolare dal fascismo, non solo in chiave professionale ma altresì in quella ideologica, confessa tutti suoi errori spurgando di sequenza in sequenza tutto il marcio sedimentato in lui sino a quel momento. Un riscatto personale che tramuta in ottica collettiva se pensiamo al pubblico che, improvvisamente, si riscopre protagonista della propria epoca. "Lo schermo diventa proiezione dell'anima collettiva"6 e il cinema è il mezzo attraverso il quale la gente comincia a prendere coscienza della storia del paese e con il quale si identifica, nelle proprie speranze, nei propri errori, nella propria voglia di ripartire dal principio.
Si spiega in questo modo la predilezione rosselliniana per i bambini, nelle gesta del piccolo Marcello, vittima innocente della guerra, costretto ad assistere con occhio vigile alle fucilazioni della madre e di Don Pietro. Le loro giovani vite rappresentano, insieme, la testimonianza atta a ricordare l'atrocità subita (e a non ripeterla, come insegna il richiamo della Storia) e il futuro su cui ripartire (l'emblematico fotogramma conclusivo con la panoramica di Roma che fa da sfondo al ritorno a casa dei bambini, sorretti e abbracciati tra loro). La scelta di Rossellini di allargare il quadro bellico includendone la straniante ottica fanciullesca, ricorda inoltre due tra le opere più influenti della letteratura neorealista legata alla Resistenza: "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino (1947) e "Una questione privata" di Beppe Fenoglio (1963). Calvino sfrutta l'ingenuità dell'orfanello Pin per distanziarsi dalla consapevolezza del giudizio storico colto dagli adulti ("l'inferiorità di Pin come bambino di fronte all'incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io come borghese"7) proprio come fa Rossellini che, attraverso gli occhi smarriti di Marcello, ravvisa tutta l'incapacità nel comprendere quello straziante spettacolo di morte. Attraverso la passione adolescenziale di Milton, Fenoglio adotta, per contro, un atteggiamento maggiormente cinico e dostoevskiano di fronte alle disumane sentenze di morte. Particolarità questa che riconduce alla freddezza e alla "sbrigatività" con la quale Rossellini elimina dalla scena Pina e Don Pietro. Milton è l'epitome del bambino divenuto grande, chiamato a effettuare una scelta mortifera ma doverosa ("Bisogna crederlo, bisogna volerlo [...] "non dobbiamo aver paura né oggi né in avvenire perché siamo nel giusto" sono le parole di Francesco nel film). La scelta della lotta che nel film intraprende Romoletto, acerbo leader carismatico fermato solo dall'intervento salvifico di Don Pietro. La corsa straziante della Magnani, così come quella di Milton nelle battute conclusive del racconto di Fenoglio, raggiungono una potenza devastante nell'effigiare l'ineluttabile orrore della guerra.
Quando venne proiettato la prima volta il 24 settembre 1945 al Cinema Quirino della Capitale, quasi nessuno si accorse del miracolo compiuto dal regista. Ponendo l'accento su una retorica populista portatrice di valori morali e cattolici, la pellicola fu vista addirittura come un'operazione furba, dove le figure del comunista e del prete costituivano il leitmotiv perfetto dell'Italia del secondo dopoguerra. All'estero invece è tutta un'altra musica: "Roma città aperta" vince la Palma d'Oro a Cannes e si guadagna l'onorificenza di molti altri riconoscimenti, tra cui la nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Celeberrima poi è diventata la frase del cineasta Otto Preminger in relazione al film: "la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta". L'Italia intera in giro di pochissimi anni fa mea culpa riconoscendo la portata dell'opera. Grazie al Progetto Rossellini promosso dall'Istituto Luce Cinecittà e dalla Cineteca di Bologna, la pellicola è stata recentemente restaurata e, a quasi settant'anni dalla sua realizzazione, torna nei circuiti delle sale cinematografiche italiane a partire dal 31 marzo 2014.
Con le realizzazioni di "Paisà" (1946) e "Germania anno zero" (1948), Rossellini completa la trilogia sulla guerra antifascista, spingendo il cinema italiano del secondo dopoguerra verso una profonda e propedeutica riscoperta culturale. Mentre la guerra in mezza Italia non era ancora terminata, "Roma città aperta" era riuscito a ricomporre, fotogramma dopo fotogramma, i tasselli di un cinema che era andato disperso tra le macerie del conflitto. È l'inizio della gloriosa stagione del cinema neorealista che spopolerà in tutto il mondo e che porterà dritti al boom economico, prima che il mostro a bordo riva di Fellini ne "La dolce vita" decreti l'inizio di un nuovo processo di putrefazione del mondo occidentale.
Note
¹ Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondatori, Milano, 2010, p. 112
² Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino, 2006, p. 129
³ Fu la rivista "Cinema" (all'epoca diretta da Vittorio Mussolini, figlio di Benito) sostenuta da critici cinematografici quali Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis e Luchino Visconti, a prendere ufficialmente le distanze dal genere dei "telefoni bianchi", criticati per la loro assenza di qualità e di veridicità.
4 Luchino Visconti in "Cinema antropomorfico", contenuto in "Cinema" numero 173-174, settembre-ottobre 1943
5 Si veda, a tal proposito, il documentario di Carlo Lizzani girato nel 1996, "Celluloide" sugli ostacoli incontrati dalla troupe prima e durante le riprese del film. Ma anche lo stesso Rossellini in questa intervista.
6 Gian Piero Brunetta, cfr. Bibliografia.
7 Italo Calvino nell'introduzione di Gabriele Pedullà, Il sentiero dei nidi di ragno, op.cit. p. XXXIII
Bibliografia
- David Bruni, Roberto Rossellini: Roma città aperta, Lindau, 2006
- Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano: da "Roma città aperta" a "I soliti ignoti", Laterza, 2009
- Orio Caldiron, Cinema 1936-1943: prima del neorealismo, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2002
- Stefano Roncoroni, La storia di Roma città aperta, LeMani Editore, 2006
cast:
Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Marcello Pagliero, Maria Michi, Francesco Grandjacquet, Vito Annichiarico
regia:
Roberto Rossellini
titolo originale:
Roma città aperta
distribuzione:
Minerva Film
durata:
99'
produzione:
Excelsa Film
sceneggiatura:
Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini
fotografia:
Ubaldo Arata
scenografie:
Rosario Megna
montaggio:
Eraldo Da Roma
musiche:
Renzo Rossellini