"Alba tragica" è uno dei film di punta del decennio 1934/1944, un periodo caratterizzato da un clima di profonda incertezza, acuto pessimismo e difficoltà ad arginare il male nella guerra contro il bene, l'ingiusto e il brutto nell'annichilimento del giusto e del bello.
Suddetta incertezza, in "Alba tragica", si formalizza su più piani, a partire da quello narrativo.
François (Jean Gabin) è un onesto operaio il cui lavoro con la sabbia gli mina la salute che cerca di sostenere bevendo litri e litri di latte; è orfano e scapolo, divide la solitudine col suo lavoro e la libertà di pagare l'affitto della sua modesta stanzetta. Quando incontra e s'innamora della giovanissima Françoise (Jacqueline Laurent) lo scopriremo fragile come i fiori che la giovane vende in una bottega, inadeguato e preda di quell'attimo di follia che avevamo già notato due anni prima nel film di Jean Renoir "L'angelo del male". In entrambi i casi Gabin ammazza il cattivo.
Sul piano fotografico, Alba tragica rinuncia all'alto contrasto del bianco/nero, che aveva fatto la fortuna del manicheo noir americano, e invade lo schermo con una vasta gamma di gradazioni di grigio che raddoppia l'ambiguità espressiva, triplicata dai violenti riverberi del tramonto (momento in cui inizia il film) e dell'alba (epilogo della storia) e quadruplicata dall'azione confusa dello specchio e della corrispondente lampada che marcano i momenti di riflessione del nostro eroe, barricato nella sua stanza.
Travis Bickle, nella sua pulciosa stanza-appartamento, si guarda allo specchio e si aizza contro se stesso ("Stai dicendo a me?" - minaccia, pistola in pugno, in "Taxi Driver"). L'ambiente è illuminato a giorno, stile sala operatoria. Alla fine della pantomima, Travis sa esattamente cosa fare e come farlo. È la performance, il saper-fare che ossessiona da sempre il cinema americano.
François, nella sua decorosa stanza-appartamento, si guarda allo specchio ma solo con grande difficoltà riesce a intravedersi. Non ha più nulla da fare, tutto è compiuto, aspetta solo che la polizia aggiusti la mira. È la sindrome della senilità europea, del "non c'è più niente da fare".
D'altra parte, il decor è già predisposto all'epilogo tragico: François ha blindato la stanza, ha spostato il pesante armadio verso la porta trasformandolo in una pietra sepolcrale; lo specchio è il "media" dell'esame di coscienza, del "chiamatemi il prete"; l'orsacchiotto è l'illusione del suo amore tradito; un insulso diadema di bigiotteria è il pegno col quale l'infido Valentini (Jules Berry) ha sedotto l'ingenua Françoise; la pistola, che ha già sparato a Valentini, sparerà ancora; di sigarette ne ha a sufficienza per morire di cancro.
Il problema, semmai, sono i fiammiferi: di ben due scatole di prosperi, François si ridurrà, poco prima dell'alba, ad accendere le bionde direttamente dal mozzicone e quando, per un colpo di sonno, gli si spegne il mozzicone in mano, sarà costretto a togliersi il vizio. È l'alba. Un nuovo giorno si preannuncia. Come è possibile affrontarlo con l'orsacchiotto a brandelli? Senza fumare? Dove pescare la volontà di vivere comunque? L'armadio è l'elemento che si è adattato meglio di tutti.
Stupisce che un oggetto così ottuso abbia trovato in sé tanta flessibilità: la sua missione di raccogli-indumenti si è reinventata prima in tappo che chiude la trappola (la barricata nella stanza assediata) e poi in una sorta di grande schermo sul quale scorrono i flashback che ricostruiscono questa storia d'amore che volge in tragedia.
È evidente che il piano simbolico del realismo poetico possa permettere le letture più ardite.
La flessibilità dell'armadio, per esempio, sembra un più che legittimo rimando al mercato del lavoro di questo inizio millennio, globale, smembrato e rivolto alle menti più aperte, creative, versatili che, bando agli eufemismi, potremmo semplicemente chiamarle "i disperati".
L'armadio ha le soluzioni; François, al contrario, di soluzioni non ne ha più e l'omicidio del seduttore (un untuoso ammaestratore di cani, affabulatore e traviatore della gioventù) lo condanna all'espiazione.
Proiettato in anteprima il I giugno 1939 a Parigi. Jean Gabin e Arletty sono due star di alto cabotaggio e all'epoca destò molta impressione l'inquadratura dell'attrice (che nel film è Clara, compagna dell'ineffabile Valentini) a seno nudo durante una visita di François.
Tale inquadratura (di cui vedete sotto un fotogramma) fu tagliata e mai più reinserita. Probabilmente distoglieva l'attenzione da quello che, suo malgrado, era diventato il focus del film.
Tre mesi e tre giorni dopo (il 3 settembre 1939) la Germania dichiarava guerra alla Francia. Terminava così quel sottile stato di angoscia che aveva caratterizzato la vita civile (e di conseguenza il cinema) degli ultimi 4, 5 anni e che tanta linfa aveva pompato al realismo poetico e alla politica del Fronte Popolare delle traballanti democrazie europee.
Un'angoscia legittima, dato il ricordo ancora fresco della "Grande Guerra" finita appena 20 anni prima e resa ancora più acuta dalle nuove tattiche di guerra che da lì a breve avrebbero fatto sanguinoso esordio.
"Alba tragica" è una guerra in scala: il campo di battaglia è circoscritto, c'è un teatro di guerra che è l'intero palazzo abitato da François e che viene fatto evacuare. Uno degli immancabili curiosi che assistono all'assedio consiglia allegramente la polizia di costruire una trincea per stanare l'assassino. Il suo tono allegro stona solo apparentemente: evoca uno scenario conosciuto, da Prima Guerra Mondiale, uno scontro leale tra eserciti armati. Jean Renoir sentì la necessità di farci un film nel 1937 ("La grande illusione") in cui traspare la nostalgia di una guerra cavalleresca, ad armi pari.
L'imminenza del secondo conflitto dà forma ai fantasmi della barbarie, del coinvolgimento civile e "Alba tragica" ne mette in forma alcuni: la minaccia viene dall'alto, dall'abbaino sopra la stanza di François, da dove pioverà la bomba lacrimogena per farlo uscire allo scoperto. Fatte le proporzioni, pochi anni dopo, migliaia di bombe al fosforo pioveranno sui cieli di Genova, Londra, Berlino, Dresda... intere città rase al suolo con le loro centinaia di migliaia di abitanti.
L'ultima inquadratura del film è un primo piano della faccia di François; per la prima volta rasserenato, sembra finalmente dormire. Quando si risveglierà, sarà arrivato il tempo del Neorealismo.
cast:
Bernard Blier, Arletty , Jean Gabin, Jules Berry
regia:
Marcel Carné
titolo originale:
Le Jour Se Lève
distribuzione:
Les Films Vog
durata:
93'
produzione:
Vauban Productions
sceneggiatura:
Jacques Viot (sceneggiatura) - Jacques Prevert (dialoghi)
fotografia:
Curt Courant
scenografie:
Alexandre Trauner
montaggio:
René Le Hénaff
costumi:
Boris Bilinsky
musiche:
Maurice Jaubert