Si scriveva in apertura della recensione di "Mirai" che Mamoru Hosoda è ormai un autore vincolato ai suoi temi, variandone la forma attraverso una rappresentazione che nel tempo è andata assestandosi piuttosto che evolvendosi. Per "Belle" si potrebbero spendere le stesse parole, derubricando il regista giapponese a certezza irreprensibile, dall’operato forse prevedibile, eppure mai scontato. In realtà il quarto lavoro dello studio Chizu si allontana dalle similitudini interne ai propri lavori, pur ritrovandovi il nucleo pulsante di ogni lavoro del regista: la crescita e la riedificazione dei legami affettivi.
Il network dentro e fuori dal mondo
Paragonare "Belle" a "Summer Wars", che usciva nel 2009, conviene tanto per le similitudini quanto per le differenze che segnano la narrazione di due periodi così storicamente vicini eppure differenti per l’evoluzione repentina che internet (e il suo utente-tipo) ha avuto nei dodici anni intercorsi tra le due storie.
"Belle" non è soltanto il racconto di una diciassettenne che fatica a rapportarsi con i compagni di classe a causa della perdita della figura materna in giovane età, ma è anche la rappresentazione di un mondo che accetta la realtà digitale di U, social network che definiremmo metaverso compiuto in cui l’avatarismo non è soltanto segno digitale della persona ma decodificazione dei caratteri biometrici della stessa: Suzu Naito canta con la propria voce all’interno di U, esprimendosi libera dal giogo del lutto che la opprime nella realtà. Suzu diventa Bell, un avatar come tanti che col canto assurge velocemente a una popolarità indescrivibile rinominata Belle (la bellezza come canone di accettazione), quantificata dalle metriche e amata/odiata dal sentimento di un pubblico vorace, in cerca di intrattenimento (è forte il rimandando al fenomeno dei VTuber, content creator che si mostrano in camera attraverso un avatar digitale).
Eccola dunque la prima differenza interna ai due lavori apparentemente simili di Hosoda, ossia l’accettazione di un mondo virtuale: si passa dalla paura delle possibili conseguenze negative per la popolazione che un legame tanto forte al mondo digitale può causare, come visto in "Summer Wars" ma volendo anche nel catastrofismo kaiju di "Digimon: Our War Game", alla riscoperta della proprio Io tramite la fondazione di un avatar, alter ego digitale con cui Suzu si propone di ricominciare a esprimersi attraverso la musica.
Figura 1. L'evoluzione della rappresentazione del mondo digitale da "Summer Wars" a "Belle"
Si è passati dunque dal noi di "Matrix" (1999) e dello stesso "Summer Wars", in cui la lotta nei confini digitali era finalizzata alla salvaguardia di tutti, all’io di "Ready Player One" (2018) e appunto "Belle" in cui la maschera sembrerebbe rifugio della propria persona schiacciata dalle dinamiche sociali, personali e finanche geografiche. Non a caso Hosoda ambienta la storia di Suzu in una prefettura bucolica, Kochi1, blandita dal corso del fiume e segnata da una placida solitudine in cui i giovani faticano a emergere (il personaggio che si batte per il club di canoa, non trovando alcun consenso) e le generazioni passate guidano ancora le tradizioni (il quintetto canoro che non saprebbe indicare la via della felicità a Suzu). In questo si scorge una seconda, importantissima, differenza tra "Belle" e le varie tipologie di mondi altri che Hosoda ha dipinto anche in "The Boy and the Beast" e "Mirai": il confine stavolta non è un limite tra un primo e un secondo spazio ma un collegamento tra due mondi interrelati e dipendenti. Si pensi, più che al network digitale, al network reale rappresentato successivamente alla stretta di mano tra Suzu e il suo amico d’infanzia: d’improvviso la chat di Suzu si trasforma in una comica scacchiera da gioco di ruolo in cui le ragazze si dividono in fazioni militari per la contesa del ragazzo. U è dunque l’ideale prosecuzione di un mondo rappresentato per schemi, un contesto apparentemente libero da entropia ma ideologicamente subordinato al mantenimento di un ordine irrealizzabile, quello degli autoproclamatosi vigilanti. Dentro e fuori U si tessono legami, pur diversi tra loro, e sono condizionati da ciò che accade nella realtà, come si sancirà alla fine del film rispetto a un’altra tematica delicata che Hosoda porta all’attenzione dello spettatore, ossia le dinamiche famigliari che pesano sui figli.
U è dunque l’ennesima rappresentazione di sottogenere isekai stavolta meno libero dai condizionamenti esterni, avviluppato all’intelaiatura del mondo reale a tal punto che la ricerca delle univoche identità (i dati biometrici non consentono un duplice account) diventa lo scopo ultimo tanto di Belle quanto di Suzu.
Lo stile di Hosoda
"Belle" è probabilmente la summa di tutte le rappresentazioni care a Hosoda, colmo di feticci di ogni sorta: le sezioni di combattimento, le stazioni del treno, l’estate, la derivazione fiabesca, i problemi identitari delle famiglie, i giovani contrapposti agli adulti (e ancora una volta il tempo che li separa, altra variabile fondamentale), finanche l’amore e l’amicizia verso ogni forma di umanità. Eppure il film più autocitazionista del regista è anche il tentativo di alzare l’asticella produttiva per affrancarsi da certe dinamiche produttive in seno all’attuale industria animata giapponese, pur non riuscendovi in modo convincente.
"Belle" permette a Hosoda di adattare la fiaba "La bella e la bestia" prendendo come riferimento l’omonimo film Disney del 1991. Altre sono le similitudini con le produzioni disneyane: l’avatar Belle è stato ideato da Jin Kun, character designer di "Frozen", mentre la centralità delle performance richiama il musical tipico dei classici Disney di cui vuole riprenderne la spettacolarità.
Sono varie le suggestioni di cui "Belle" si compone risultando come uno dei lavori più densi dello studio Chizu. Oltre alle musiche e al design di U simile a un hardware brulicante e stratificato come una metropoli, è il connubio tra animazione tradizionale e CGI a riempire la scena. "Belle" rappresenta il profilmico digitale attraverso una tecnica che renda distinguibili gli spazi di U dal mondo fisico. Il cell shading colorato e preciso permette a U di emergere in tutta la sua fisicità, tracciando una linea ideale tra Suzu e la sua proiezione digitale.
Figura 2. Il pieno e il vuoto in "Belle": le immagini in alto nel network di U, quelle sotto nella vita reale
"Belle" appare dunque molto curato, quasi sperimentale per uno studio che ha sempre utilizzato la CGI come strumento secondario rispetto all’animazione classica. Ribaltando l’importanza delle due tecniche, quello che emerge è un film troppo pieno, diviso in tante notevoli parti che cercano di amalgamarsi. La computer grafica così elegante e ripulita rimane distante, fredda, spesso inerte, soprattutto in frangenti in cui le coreografie richiedono la messinscena di ballo e canto oppure dei combattimenti. Hosoda e i suoi collaboratori riescono comunque a preservare alcune delle peculiarità visive tipiche dei loro lavori in cui lo spazio si svuota per lasciare alle figure umane una collocazione subordinata (figura 2), persa nel macrocosmo che la circonda. A questa vacuità serafica, che permette di concentrarsi su di un unico particolare, Hosoda contrappone la pienezza di alcuni fotogrammi: un riempimento all’eccesso che esonda oltre il quadro, lasciando che spettatori e personaggi si perdano nella ricerca, infruttuosa, di una traccia visiva da seguire. In "Belle", più che nelle precedenti opere, Hosoda chiede all’occhio non una fuga bensì uno smarrimento all’interno dei piani dimensionali di U, esattamente come accade a Belle durante la ricerca del drago e come voluto dalla narrazione volatile ed ellittica, evidentemente in difetto.
Diversamente da quanto fatto dallo studio Trigger con "Promare", in cui l’ipercinetismo si accostava a gesti e character design tesissimi, verticali e parossistici, "Belle" insegue la dolcezza e l’essenzialità del tratto anche nella CGI, rimanendo però attaccata all’ancora netta distinzione tra le due tecniche, non amalgamandole completamente e neppure estremizzandone le differenze.
"Belle" è un film imperfetto, segnato dall’ambizione e dalla varietà di temi che cerca di restituire. Forse è l’autore stesso e la sua poetica a far sbocciare con orgoglio sprazzi di essenzialità (un abbraccio) e ricchezza (l’uovo di avatar che circonda Belle in antitesi alla performance finale di Suzu) che soltanto Hosoda oggi riesce a narrare compiutamente, sintetizzando nelle traiettorie di spazio e tempo un augurio e un suggerimento per le generazioni presenti e future.
1 Si riconosce il ponte di Kataoka su cui Suzu cammina per andare a scuola, collegamento tra le sponde del fiume Niyodo.
regia:
Mamoru Hosoda
titolo originale:
Ryū to Sobakasu no Hime
distribuzione:
Koch Media, I Wonder Pictures
durata:
124'
produzione:
Studio Chizu
sceneggiatura:
Mamoru Hosoda
montaggio:
Shigeru Nishiyama
musiche:
Taisei Iwasaki, Ludvig Forssell, Yuta Bandoh, Miho Sakai