Terzo appuntamento con lo speciale dai molteplici e multiformi punti di vista redazionali: "Pinocchio". Traiettorie offre un mosaico di interventi eterogenei su un film specifico, frammenti critici che approfondiscono la lettura, moltiplicano i punti di vista e mettono in discussione i temi che lo compongono
Non c'è stato il fascino di cui godono pellicole indipendenti capaci di imporsi all'attenzione del grande pubblico, come era accaduto per "Midsommar", né ha ricevuto un consenso pressoché unanime di pubblico e critica come successo per "Parasite". Eppure, se ci ritroviamo ad aggiornare il nostro appuntamento con le traiettorie con il Pinocchio di Matteo Garrone, qualcosa questo film avrà significato per la nostra redazione.
Certo, di sicuro (e di insolito) c'è che si tratta del film del regista romano in assoluto più fortunato al botteghino, ma, oltre a questo, vi è da considerare anche l'impegno dell'autore nella riscoperta delle origini narrative presenti nel romanzo di Collodi. Dopo svariati adattamenti, alcuni fedeli e poco riusciti, altri infedeli ma dal risultato finale ben più soddisfacente, era lecito porsi una domanda: riuscirà Garrone a dare un senso nuovo a questa sua produzione pur riuscendo a non tradire il significato più intimo della fiaba originaria? La nostra recensione si dilungava proprio nel ragionare su questo aspetto, tentando di cogliere un gusto per la riscoperta della parola scritta, dell'ambientazione accurata, della descrizione di personaggi secondari eppure così pienamente aderenti allo spirito del libro.
Ma nonostante ciò, molti temi sono rimasti nell'ombra, comprese alcune contraddizioni irrisolte. Ecco, lo speciale che andrete a leggere cerca di fare emergere quanti più spunti critici si possa rintracciare dopo la visione del film e che in un'unica recensione è impossibile inserire.
Perché un'opera resti impressa nella nostra memoria non è necessaria l'unanimità dei consensi; serve, piuttosto, uno sguardo capace di emergere dallo schermo, sopravvivere al tempo e rappresentare un interessante motivo di dibattito.
Di seguito, una dimostrazione di tutto ciò.
Introduzione di Giancarlo Usai
Un regista difficile, un film impossibile
Pinocchio è un soggetto impossibile, su cui sono più frequenti le incomprensioni degli accordi: la fiaba morale di Comencini sta al lazzarone di Carmelo Bene come il buon Garrone (!) sta a Franti. E l’opinione pubblica si spacca, salvo tenere il Collodi come un genio nazionale, senza neanche più sapere perché.
Pathos e crudeltà si frammischiano, e l’interrogativo è se sarà il caso di farlo vedere al figlioletto di 5, 6, 7 anni: la questione diventa così pedagogica, ossia senza più fuoco, spento dall’Eroe Nazionale Mangiafuoco (!).
Garrone, nella sua filmografia, dà spesso l’impressione dell’Ospite (soggetto dei suoi primi due film), di trovarsi sul posto per caso, richiamato da uno schiamazzo, da una qualche opera di pantheon (Basile, Saviano, Collodi: uno strano pantheon si dirà, ma è proprio il pantheon a esser strano di suo), da una idea del mondo che sembra fiabesca ma che è invece fatata.
Il suo nemico-amatissimo, Paolo Sorrentino, è più bravo di lui a colpire alla pancia: Garrone attacca i neuroni, e non te ne accorgi. Se Sorrentino sbanca su Netflix, a Garrone lo schermo panoramico non sembra una possibilità ulteriore ma un nuovo limite, un paradosso di Zenone al contrario. Se Sorrentino produce qualità da consumo, Garrone è "cunsumatu", nel senso siciliano del termine: svuotato delle qualità umane per lasciar posto alla malìa, alla febbre, all’oro del "Primo amore" ottenuto con pazienza, ritualmente, incenerendo l’immondizia e bruciando le ceneri fino al lingotto, come il cinema di Bresson e di Melville.
Ci meraviglia che, nel suo pellegrinaggio, Garrone non abbia ancora piazzato la telecamera tra Scilla e Cariddi, la location di una storia perfetta, non di un solo frammento, senza stativi né binari. Forse ha terrore dei suoi mostri marini, forse ancora nessuno gli ha detto che è il mare il vero mostro, il Leviatano.
Si ribadiscono, in "Pinocchio", le sue cure più amorevoli per il lavoro-pazienza, l’artigianato dei suoi protagonisti (oggi Geppetto) e lo splendore zingaresco che richiede ai suoi costumisti, fabbri, pittori e falegnami che gli costruiscono abiti, scene, fondali. C’è un aspetto ottuso in questa ulteriore manìa, che lascia sottotraccia gli sviluppi e il finale di una storia arcinota. Ricorda il Godard de "Les carabiniers", umiliato da neanche tremila spettatori nella sua uscita parigina, e che si difese solo con "l’assoluta precisione di ogni singolo rumore", degli spari, degli aerei, delle bombe. Un racconto fatato, "Les carabiniers", di due fratelli "cunsumati" dalla guerra e uccisi dalla pace.
Nati dalla penna di Beniamino Joppolo, siciliano di quella Sicilia che chiama a gran voce il buon Garrone, sicché, in una qualche maniera, un cerchio si chiude.
Pietro S. Calò
Immagine>Movimento
In disaccordo con quella critica che ha visto in "Pinocchio" poco più di una "fredda illustrazione" (Mereghetti), un’altra critica ha evidenziato il valore intrinseco dell’estetica garroniana al di là del racconto. Qui si accenna soprattutto alle arti "minori" della cinematografia, non di rado trascurate: costumi, trucco, scenografia. E quando celebrate produzioni hollywoodiane si macchiano in questo senso di sciattezza (vedi alla voce "La favorita"), perché non rivalutare le eccellenze nostrane?
A Massimo Cantini Parrini, alias "l’archeologo della moda", tre David e due Nastri, si devono i meravigliosi costumi d’epoca, le giubbe con i bottoni staccati, ricuciti, sostituiti, i tessuti laceri, l’attenzione ai materiali – i feltri, le sete, il tulle, l’organza... A Mark Coulier, make-up artist che ha curato "Suspiria" e la serie di Harry Potter, due Oscar e un Bafta, si devono le dita unticce del Gatto e la Volpe, la lumacona incipriata, i trucchi prostetici e le conturbanti zoomorfie. Mentre Dimitri Capuani, due David e due Nastri, si è ispirato alle illustrazioni di Chiostri e Mazzanti e alla pittura dei Macchiaioli per evocare ambienti fiabeschi, costruiti ex-nihilo come il ventre del pescecane o riconosciuti nei borghi petrosi della Toscana, tra le calci bianche della Puglia.
"Pinocchio", non un esercizio di stile ma uno stile autentico, quel barocco contemporaneo che include Winding Refn e Sorrentino tra i suoi rappresentanti più noti. Un cinema iconocentrico che predilige lo stile all’intreccio, la stasi all’azione, la bellezza all’evento, l’immagine al movimento.
Rudi Capra
L'agnellino Pinocchio
Garrone ha lavorato sul testo di Collodi con cura, non soltanto togliendo ma anche aggiungendo, allo scopo di asciugare la figura di Pinocchio dei tratti del burattino disobbediente e capriccioso che riesce a trovare la maturità solo dopo molte prove e fughe, che lo trasformano dapprima in un "somarello". Garrone dipinge l'autorità tradizionale con pochi cenni, sufficienti a screditarne le istituzioni (il ridicolo maestro; e soprattutto il giudice-scimmia che chiede a un Pinocchio sincero di mentire, al contrario perciò della vulgata secondo cui sarebbe il bambino il primo dei bugiardi). Invece, il regista descrive il lavoro, quello umile e onesto, come cosa dignitosa, che Pinocchio accetta di buon grado appena offerto.
Il Pinocchio di Garrone ha tre doti: la curiosità, l'anelito alla libertà e, soprattutto, il candore, la bontà d'animo. Sono queste virtù che già possiede a renderlo un "bambino vero". La curiosità è la molla che consente a Pinocchio il suo percorso di crescita personale, rischioso ma più affascinante e formativo di un supino ammaestramento. Il paese dei balocchi non è un luogo di perdizione: è un modesto e innocente parco giochi, nella cui solarità la sola ombra è costituita dalla perversione di un malevolo e viscido adulto. Anche Lucignolo è reso con dolcezza, e Garrone gli risparmia la fine incresciosa riservatagli da Collodi. L'anelito alla libertà pervade il racconto, e manifesta la sua potenza nella semplicità con cui si fugge dal pesce cane: basta quasi solamente immaginare di fuggirne e se ne è fuori. Per immaginarlo, tuttavia, occorre essere giovani.
Il candore è quello della bontà del protagonista, il cui affetto per il padre non è ondivago ma lineare, e viene celebrato in campo lungo nel finale, dopo la trasformazione in bambino in carne e ossa che avviene - meravigliosamente - con un raggio di sole, in mezzo agli agnelli... E sul valore simbolico dell'agnello in termini di purezza, non occorre davvero spendere parole.
Stefano Santoli
Gli anarchici Matteo e Pinocchio
A voler fare l'anarchico come il Pinocchio di Carlo Collodi, di indole qui si tratta e non di scelta politica, il regista Matteo Garrone applica la sintesi e la condiscendenza amorevole verso il testo di partenza dello scrittore toscano. Guardate come si volta verso il romanzo per restituirne la bellezza e la quadratura della struttura da cui attinge, deponendo in seppur minima parte la misura del proprio cinema per restituire la sfrontatezza del "discolo" per eccellenza.
Ritenere "Le avventure di Pinocchio" un testo anche sulla ribellione è, per chi scrive, prioritario (ma non esauriente sia chiaro) al fine di comprenderne la potenza e il genio[1]. In un periodo storico italiano postunitario in cui regnavano i romanzi veristi e in cui veniva pubblicato il coevo "Cuore" (1881-1882) dal taglio nettamente opposto rispetto al lavoro del toscano, Pinocchio spinge i lettori verso l'azione anarchica, rocambolesca e sovversiva in quanto scelta personale. Collodi, seppur con sguardo pedagogico, invita il lettore alla scoperta di sé, anche a costo di muoversi con avventatezza e pagarne lo scotto.
Ecco dunque che il cinema di Garrone si è sempre mosso con autonomia rispetto al resto dei colleghi contemporanei, innervando un nucleo concettuale fantastico pur rappresentandone con forza tutto il materico e il tattile. La volontà di girare in mezzo all'eredità geografica e architettonica del nostro paese non è soltanto un vezzo per mostrare una produzione florida, ma soprattutto per dar voce alla profonda necessità di rendere palpabile (e al contempo attuale) lo spunto fantastico-fiabesco.
Per farsi anarchico, Garrone rimane fedele alla progressione narrativa collodiana e ne sviscera la quintessenza ribelle, privandola in parte di un'ancora moralistica pesantissima (non c'è la morte di Lucignolo in forma di asino) così da far trasparire la forza anarchica del testo scritto, viva allora come adesso (basti pensare che il giudice-scimmia è idea di Collodi, eppure funziona oggi come ieri). Il suo cinema sposa di nuovo il fantastico dopo "Il racconto dei racconti", si abbassa ad altezza bambino-burattino senza per questo limitarsi al racconto di formazione. E difatti si vede bene, in mezzo alle mascherine baffute, dove spunta irreprensibile il suo sguardo: nelle scenette all'osteria, o meglio sul desco imbandito quale momento ricorrente della filmografia del regista romano, laddove si plasmano le identità (notate la differenza con cui Geppetto e Gatto/Volpe consumano il pasto) di tutti i personaggi garroniani.
[1] Alberto Asor Rosa, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze 1972
Diego Testa