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Autore minimalista dalla regia scarna ed essenziale, il suo cinema è intriso di una forte componente religiosa e può essere microscopicamente condensato in un’ investigazione sul Cristianesimo di impronta giansenista che si propone di analizzare e ricercare quello che, di fatto, è il Sacro Graal della fede, la Grazia.

 

Vous confondez le pessimisme avec la lucidité
Robert Bresson

    


Prologo

Presentare al lettore la figura di Robert Bresson è una delle sfide intellettualmente più complesse dell'intera storiografia autoriale cinematografica. La stratificazione del suo pensiero, i suoi studi rivolti alla condizione esistenziale umana descritta attraverso il potente mezzo del cinematografo, lo hanno reso già nel secondo dopoguerra e poi in tutta la seconda metà del Novecento, una figura seminale per il cinema francese e mondiale, demiurgo, insieme ad Alexandre Astruc e Andrè Bazin di una tra le correnti più influenti del ventesimo secolo come fu la Nouvelle Vague.
Autore minimalista dalla regia scarna ed essenziale, il suo cinema è intriso di una forte componente religiosa e può essere microscopicamente condensato in un' investigazione sul Cristianesimo di impronta giansenista che si propone di analizzare e ricercare quello che, di fatto, è il Sacro Graal della fede, ovvero la Grazia. Intorno a essa Bresson tiene sotto scacco lo spettatore assoggettandolo a continui moniti, che rappresentano i principi cardine del suo pensiero: lo svelamento della perdita dell'innocenza e la ribellione a Dio, la progressiva distruzione ecologica, politica e sociale a opera dell'uomo, una lacerante solitudine bergmaniana sino all'esplosiva epifania del Male.
Con Bresson, dunque, lo studio sul cinema si erge a un nuovo livello di immagine e suono. Partendo da una prerogativa ossimorica (la densa dissertazione esistenzialista esplicata in un quadro audiovisivo che rivela la più elementare linearità narrativa e le più semplici azioni quotidiane), il Maestro francese introietta nelle sue pellicole un linguaggio di austerità formale, una scrittura ridotta all'osso e interpretazioni attoriali di non professionisti dove si richiede espressamente di non recitare. Tutto ciò al fine di rendere pura, eterea l'opera riprodotta. Questo nuovo livello è perfettamente esplicato nelle sue "Notes sur le cinématographe" ("Note sul cinematografo"), scritte tra il 1950 e il 1975, anno in cui verrà poi edito presso Gallimard.
In questa sequela di pensieri e aforismi personali è racchiusa l'essenza (e la poesia) di Bresson, a cominciare dalla imprescindibile differenza tra cinema e cinematografo, quest'ultimo idealizzato come "una scrittura con immagini in movimento e suoni". Nel cinema invece "la mescolanza di vero e di falso produce il falso [...] il vero fa risaltare il falso, il falso impedisce di credere al vero"[i]. Il cinematografo è dunque scrittura del reale, processo creativo dove l'artefice dell'opera è uno solo e a risponderne è un unico responsabile.

 


Parte prima. Il teatro fotografato

bressonmg_03Robert Bresson è nato a Bromont-Lamothe, in Alvernia, una regione rurale della Francia centrale, il 25 settembre del 19012  e ha vissuto tutto il Novecento, fino alla morte avvenuta pochi giorni prima dello scoccare del nuovo millennio, il 18 dicembre del 1999.
Il suo passato giovanile non è mai stato troppo foriero di informazioni. Dopo gli studi in lettere e filosofia, le sue più grandi passioni si palesano nella musica e nella pittura, arti primitive che in un certo senso anticipano le sue ricerche verso la purezza e la verità. Fervente cattolico, non fu un grande appassionato di letteratura3 ma non per questo poté esimersi dal leggere Dickens, Stendhal, Dostoevskij, Tolstoj, Mallarmé, Apollinaire, Jacob e Valéry. Anzi, a giochi fatti, è stata paradossalmente la letteratura (russa soprattutto) a decretare il maggior riconoscimento alle ispirazioni della seconda parte di carriera.
La svolta avviene nei primi anni trenta, quando improvvisamente termina il suo idillio con la pittura perché "trascorre ossessivamente tutto il giorno a dipingere mentalmente oggetti e paesaggi"4. Questo continuo processo creativo lo spinge, per forza di cose, a riversare i propri interessi e le proprie idee nell'arte delle immagini in movimento, dunque verso il neonato cinema sonoro.
La sua formazione cinematografica non sembra essere influenzata da nessun cineasta in particolare e il suo approccio alla regia segue più un imperscrutabile processo di autofascinazione intellettuale, che lo accumuna ai più grandi pensatori indipendenti dell'avanguardia russa (l'estro autarchico di Ejzenštejn, il realismo poetico di Dovženko e Pudovkin) e francese (la poesia umanista del primo Gance, la pittura in movimento di Renoir ma soprattutto l'anima dello sguardo di Dreyer, con il quale condividerà il tema della religione e il soggetto di Giovanna d'Arco).

Esordisce alla regia realizzando il cortometraggio Affari pubblici (Les affaires publiques, 1934), una commedia che mescola il surrealismo e la fantasia figlie di Cocteau e gag di matrice chapliniana. Il film racconta, in un'immaginaria repubblica (Crocandia), la disfatta del suo Cancelliere, che presiede a ben tre inaugurazioni (una statua, una pompa antincendio, una nave) senza portarne a termine neanche una, con gli oggetti che si ribellano di volta in volta ai battesimi conferiti dal dittatore. La pellicola, che non uscirà mai nelle sale, utilizza un linguaggio definito dall'autore proprio del "burlesque". In realtà si tratta di un vero e proprio scherzo perpetrato da Bresson, mai realmente interessato alla commedia: "non mi attirava particolarmente ma nella vita si deve fare almeno una commedia, no? Io ho fatto la mia all'inizio"5. Questa frase di Bresson è il preludio che getta le basi per una filmografia futura diametralmente opposta per struttura, scrittura e significato. Delle poche copie stampate, per lungo tempo ritenute perse per sempre, una sola è stata recuperata, nel 1986, ed è custodita a Parigi presso la Cinèmathèque française, che ne ha anche curato il restauro.
Nei successivi dieci anni Bresson vivrà un percorso inquieto e difficile che lo marchierà inevitabilmente per il resto della sua vita. Dopo aver collaborato come sceneggiatore in alcuni progetti, negli anni del secondo conflitto mondiale viene infatti imprigionato, tra il 40 e il 41, in un campo di detenzione tedesco, mentre in Francia prende corpo il regime di Vichy. I cineasti d'oltralpe si trovano dinnanzi a un bivio: cercare riparo all'estero (come faranno Clair e Renoir, rispettivamente in Gran Bretagna e Stati Uniti) oppure restare con il rischio di non incappare tra le grinfie del regime. Il sentimento che si va instaurando tra gli autori della seconda schiera (ricordiamo, tra gli altri, Carné, Clouzot, Grémillon, Becker e Clément) è quello di una nostalgia e di una felicità utopica figlia del realismo poetico di quegli anni, che cerca di inquadrare la sofferenza e l'inquietudine sociale ma che soprattutto ha il merito di raggirare la propaganda di regime. Anche Bresson realizza il suo primo lungometraggio durante la Francia di Vichy, nonostante non partecipi attivamente al pari dei suoi colleghi ai comitati di Liberazione. Al rilascio dalla sua prigionia, la sua rivoluzione è tutta dentro di sé e comincia a prendere corpo attraverso il Cinema(tografo) e in tredici film girati nell'arco di quarant'anni.

conversabelfort_01Con La conversa di Belfort (Les Anges du péché, 1943) l'accezione religiosa in Bresson è subito chiara. Il film nasce infatti da un'idea del padre domenicano Raymond Brückberger ed è ambientato tra le mura di un convento che ospita da una parte giovani novizie pronte al voto, come la tenace e spensierata Anne Marie, e dall'altra peccatrici appena uscite di galera in cerca di una redenzione. Quella stessa redenzione che Thérèse, assassina e restia al perdono, fatica a trovare, neanche a seguito degli intemperanti atti di aiuto a opera di Anne Marie. Solo attraverso il sacrificio estremo di quest'ultima (a seguito di una progressiva e lodevole caratterizzazione dei personaggi all'interno del racconto e dei dialoghi a opera del commediografo Jean Giraudoux) Thérèse raggiungerà l'espiazione dell'anima. Il neo-cineasta francese sceglie un'impronta letterario-teatrale e una chiave stilistica lontana dal realismo poetico, acuita da una forte componente naturalistica e antispettacolare. Attraverso il tema cardine dell'échange sacrificio-redenzione, egli ha modo di risaltare la solitudine tra le due protagoniste e la "chiusura" soffocante del convento e del carcere. Non si esime altresì dall'evidenziare divisioni e scontri all'interno dell'ambiente ecclesiale come avviene presentando la figura di Suor Giovanna, la madre vicaria.
Già dalla prima opera troviamo dunque il conflitto e la ribellione nella fede, la riflessione cristiana sulla libertà e il tema della grazia. A essere sinceri il finale non chiarisce se la salvezza di Thérèse avvenga coscientemente a seguito del suo senso di colpa o se intervenga di fatto una grazia divina. Tuttavia l'orgoglio e la gioia nella fede incarnate nella figura di Anne Marie potrebbero far supporre alla seconda ipotesi. D'altronde il film può essere interpretato anche come una chiara metafora della speranza di riappacificazione tra i francesi dopo gli anni di Vichy. In Brückberger c'è speranza e fede ("nessun microscopio ha mai scoperto Dio né l'immortalità dell'anima, ma nessun microscopio ha mai scoperto il genio di Einstein, che pure esisteva"6 ) ma secondo Bresson la vita è fatta di predestinazione e caos. La vita umana è corrosa ineluttabilmente dal Male e la Grazia è l'unica via di uscita. Oltre alla dottrina giansenista, il pensiero di Bresson trova riscontro anche nell'autodeterminazione sartriana ("l'uomo non è altro che ciò che si fa"7) respingendo la dottrina sul senso della storia di Hegel, così come la morale di Kant. Sartre, così come Bresson, alimenta invece un pensiero esistenzialista molto più semplicistico ma non meno risoluto. "L'uomo così non è nient'altro che ciò che decide di essere [...] rifiutando di pensarsi in funzione di elementi esterni quali la natura, la politica o il Creatore che gli dicano che cosa egli sia e che cosa debba fare. Se però le cose stanno in questo modo, non dovremmo forse dire che le nostre scelte sono fondate sul nulla?"8. È questo assunto, che porta inevitabilmente Bresson al rifiuto dell'ottimismo, che lo avvicina sempre più alla religione e alla cognizione giansenista più di ogni altra enunciazione filosofico-esistenziale.

perfidiaDue anni dopo dirige Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne, 1945), una breve storia di tradimenti, inganni e vendetta. Hélène e Jean, coppia appartenente al salotto parigino, si divide quando lui le comunica che non l'ama più. Fingendo di rimanergli amica, la donna architetta in realtà una crudele vendetta ai suoi danni, facendolo innamorare di Agnès, apparentemente casta ma con un passato da prostituta. Bresson trae ispirazioni da un episodio del romanzo "Jacque il fatalista e il suo padrone" di Denis Diderot, un testo ironico e divertente dove vengono messi alla berlina i vizi del regime monarchico francese e quelli del clero prima dell'avvento della Rivoluzione. Bresson stravolge la commedia convertendola in una tragedia ambientata nella Parigi dei primi del Novecento dove anche i personaggi vengono ridotti all'osso per dare risalto alla teatralità del racconto e ai dialoghi scritti per l'occasione da Jean Cocteau. A livello manifesto si legge una relazione amorosa perennemente in bilico tra verità e finzione, quello a cui però Bresson interessa, a un livello ulteriore, è questa dicotomia in relazione al cinema stesso, questa mescolanza di vero e falso che il cinema produce (e che Bresson nomina "teatro fotografato" o "cinema"). Perfidia continua a indagare anche i temi della libertà, del caso e del destino rimanendo ancorato al dibattito tra perdizione e santità elaborato in modo più massiccio ne La conversa di Belfort. I punti di contatto con la pellicola precedente sono altresì rintracciabili in una messa in scena che per larghi tratti rasenta uno stile noir e soprattutto in una soluzione narrativa che ripropone nuovamente lo "scambio di anime" dei protagonisti.
Pubblico e critica si accaniscono immediatamente sul film, che rimane solo per pochissimi giorni in sala, completando lo status di fiasco commerciale. A Bresson viene rimproverata la regia scialba e un racconto non del tutto convincente. Quello che rimane è un "un'opera che mette al centro la teatralità dell'anima orgogliosa e menzognera [...] La ricerca della verità della macchina da presa dovrà però allora passare per l'abbandono di ogni forma di recitazione"9. Bresson intuisce quindi come l'impianto del teatro fotografato (o cinema) sia una mera concentrazione di narrazione e recitazione. Al netto delle detrazioni subite, semplicemente tutto ciò non gli interessa. Inizia così la ricerca di un nuovo linguaggio innovatore per forma e contenuto, significante e significato.
Solo nel 1949 Perfidia vivrà una seconda vita e una rivalutazione generale, grazie a delle proiezioni speciali allestite dallo stesso regista insieme a Cocteau e allo scrittore Roger Leenhardt (che insieme fondano anche una rivista, "Objectif 49"). Ma a Bresson, come già detto, da ora in poi interesserà altro. La sua concezione di cinématographe è già scolpita nella sua mente, in attesa della rifondazione messa in atto nell'anno successivo.


Parte seconda. Il cinematografo (o della prigione)

1950. Robert Bresson comincia a prendere qualche appunto scritto. "I gesti e le parole non possono formare la sostanza di un film come formano la sostanza di un testo teatrale. Ma la sostanza di un film può essere quella cosa o quelle cose che i gesti e le parole provocano e che si producono in modo oscuro nei tuoi modelli. La macchina da presa le vede e le registra. Si sfugge così alla riproduzione fotografica di attori che recitano e il cinematografo, scrittura nuova, diventa congiuntamente strumento di esplorazione"10. Ma come avviene questa esplorazione? Attraverso un'insaziabile spinta intellettuale e a una lucida comprensione della realtà, che tecnicamente si traducono in un vademecum di regole inalienabili: la scrittura come esibizione del vero, scrittura che avviene direttamente con la macchina da presa (Astruc parlava di caméra-stylo, ovvero cinepresa-penna), l'annullamento dei mezzi espressivi del teatro e un lavoro di sottrazione in grado di evitare accezioni estetiche di bellezza o di effetto pittorico. E poi ancora l'annientamento  della musica e il privilegio alla funzione della voce ("strumento dell'anima") e soprattutto i suoni/rumori di fondo che saranno fonte di ispirazione per Tati, Antonioni e Tarkovskij. Infine, la recitazione volutamente piatta e svigorita da parte di attori non professionisti, come già accaduto con il neorealismo italiano, ma con esiti differenti. L'obiettivo di Bresson è di creare un continuum tra la gestualità spontanea dell'attore e l'immagine creata da lui stesso autore: "provocare l'inatteso. Aspettarlo"11.
1951. Il neorealismo imperversa in Italia e il critico francese André Bazin istituisce i Cahiers du cinéma, celebre rivista che per prima puntò il dito contro il cinema d'oltralpe, quello classico di matrice filo-hollywoodiana, accademico e appariscente, costituito per larga parte da adattamenti letterari. I primi a distanziarsi da questo movimento in voga sin dagli anni 30, furono lo stesso Bresson, in compagnia di altri maestri della cinematografia francese quali Jacques Tati, Jacques Becker e Jean Pierre Melville. La loro missione, molto simile a quella del movimento neorealista era di instillare una visione del "reale" nell'immagine e nella messa in scena, in ambito estetico così come in quello etico.

diariocuratoLa rifondazione avviene con Il diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne, 1951), dove un giovane prete annota quotidianamente sul suo diario le sciagurate peripezie e i fallimenti della sua missione pastorale, quella di infondere la fede cattolica tra gli abitanti di un paesino di campagna francese. Fiacco e debilitato dalla malattia, comincerà inesorabile una personale Via Crucis nell'attesa agonizzante della prematura morte.
Tratto da un romanzo di Georges Bernanos e incentrato sui temi del cattolicesimo nella Francia a cavallo tra le due guerre oltre che sull'esistenzialismo (in linea con le più celebri opere di Sartre e Camus), Bresson opera sin dai primissimi minuti un accorgimento seminale, quello di intensificare la voce con il gesto e viceversa. Il diario diviene amplificatore dei pensieri e delle azioni del giovane parroco, oggetto che rimanda a una forma di scrittura intima, introspettiva, umile. Bresson lima il montaggio, i dialoghi e l'espressività recitativa, acuendo tra il pubblico il sentimento di vivida sofferenza che affligge il protagonista, così come la solitudine e l'alienante meccanicità del quotidiano, quel "vuoto" che sarà poi l'ossessione di Antonioni dalla seconda metà degli anni cinquanta. L'immagine così esautorata da orpelli barocchi, subisce in modo allegorico, lo stesso meccanismo di spoliazione, il medesimo stato di povertà del curato. La prigionia fisica della Conversa di Belfort si ripropone anche nel curato per mezzo del diario stesso, elemento di prigionia che lo relega alla malattia e lo esilia mentalmente dalle altre vite, come quelle della giovane Chantal e della contessa, novelle ribelli di Dio ("Non c'è un regno dei vivi e un regno dei morti. C'è solo il regno di Dio e noi vi siamo dentro").
È però nel finale del film che la ricerca della grazia prende il sopravvento: dapprima il giovane curato incontra un possente e vitale ragazzo con il quale condividerà un felice tragitto in moto (in un ultimo, toccante, saluto alla vita) e in seguito con la fase finale del martirio cristologico. Con la morte dell'uomo Bresson tocca la grazia per la prima volta. "Che importa? Tutto è grazia" sono le ultime parole prima che esali l'ultimo respiro. "Il corpo della croce e la parola della grazia: quadro e voce fuori campo superano quella distanza che aveva aperto l'atto iniziale della scrittura della mano e dell'anima che ripetevano quel gesto automatico"12.
Il diario di un curato di campagna riceve le lodi immediate di un capolavoro, spartiacque imprescindibile nella carriera registica di Bresson, comprese quelle dello stesso Bazin e del neonato Cahiers13. La ricerca di una rappresentazione dell'anima, la preminente passione cristiana, la spoliazione scenica di Ozu. Tutto è grazia.

condannatofuggitoIl passaggio dal teatro fotografato al cinematografo è compiuto. Nel 1956 Bresson ha modo di sviluppare ulteriormente l'archetipo della prigione attraverso la sua pellicola più autobiografica e anche la più unanimemente riconosciuta dalla critica, Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échapp" 1951), Premio per la Miglior Regia alla decima edizione del Festival di Cannes. "La libertà della prigione, del male, come dono della grazia che richiede l'agire responsabile, inesausto, dell'uomo"14. La messa in scena del cinematografo raggiunge qua l'acme dell'applicazione teorica: inquadratura e narrazione ridotte all'essenziale, dialoghi scarni, scenografia spoglia, musica per larga parte inesistente (se non per sporadiche sequenze di spannung), nessuna informazione sui personaggi e sull'ambiente circostante. Bresson che era stato vittima dell'orrore nazista essendo stato segregato oltre un anno come prigioniero di guerra, riscrive un breve racconto di un esponente della resistenza, André Devigny, evaso dal carcere di Montuluc. Lo stesso collaborerà direttamente con Bresson per delineare e tracciare al regista i particolari dell'evasione.
Lione, 1943. "Questa storia è vera. Io ve la racconto così com'è. Senza inutili ornamenti". Bresson svela sin dall'incipit le sue intenzioni. Riesumare una testimonianza storica con piglio documentaristico, senza "ornamenti", solo incentrando la macchina da presa sul corpo e sulle gesta di Fontaine (alter ego di Devigny e Bresson), un membro della resistenza francese catturato dalla Gestapo. C'è una sequenza rivelatrice ed emblematica, anch'essa compare nei primi minuti, è quella nella quale Fontaine tenta la fuga dall'auto. Bresson indugia sui dettagli delle mani (vero motore dell'agire dell'uomo, lo farà più volte nel film) ma non sposta l'attenzione sul protagonista al momento dell'imprudente e istantaneo dileguamento. Ne acuisce anzi il fallimento della sua azione per mezzo dei rumori fuori campo. Non è ancora giunto il momento, si rimane immobili (Bresson) e inermi (Fontaine, lo spettatore). La condanna a morte è segnata ma c'è ancora speranza, cercare di evadere dal carcere utilizzando ingegno e lucidità, senza mai perdersi d'animo. La salvezza è affidata a piccoli, insignificanti oggetti quotidiani (un cucchiaio, una coperta, un filo di ferro) e soprattutto grazie all'aiuto dei compagni, appoggio e sostegno umano (messaggio che Bresson esplicita lapalissianamente con l'entrata in scena nel finale del giovane messianico François Jost). Il tempo è indecifrabile, lo scorrere delle lancette è cristallizzato. Bresson utilizza la dissolvenza al nero per decretare conclusa una sequenza ma l'ossessione delle gesta e l'atmosfera instabile sono troppo drammatiche da non percepire l'imminente, potenziale incedere della tragedia.
Un condannato a morte è fuggito raggiunge dunque lo zenit di una personale ricerca teorica nella quale il regista si libera dalle arti primitive (le componenti letterarie e teatrali) per esplorare le potenzialità significative del proprio mezzo espressivo. Scriveva Blaise Pascal: "Una città, una campagna, da lontano sono una città e una campagna; ma man mano che ci si avvicina sono case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche, infinite zampe di formiche". È la frammentazione bressoniana, "indispensabile se non vogliamo cadere nella rappresentazione. Vedere esseri e cose nelle loro parti separabili. Isolare queste parti. Renderle indipendenti così da porle in una nuova dipendenza"15. La sequenza emblema nella quale Bresson "ricompone" immagini e suoni e contemporaneamente elude qualsivoglia inflessione emotiva, è la decisiva evasione di Fontaine dove fa capolino l'assoluta esigenza del protagonista di fuggire dallo spazio chiuso (La conversa di Belfort, Il diiario di un curato di campagna) attraverso le sole azioni, perché il bisogno implica, per contro, l'assoluta ridondanza di teatralizzare sentimenti, pensieri e creare forme di empatia. Vi è solo il Kyrie mozartiano a sugellare il raggiungimento della libertà nel finale, ove prima regnavano solo suoni e rumori resi quasi musicali dalla loro frequenza ritmica costante. Tutto il film è un continuo processo di addestramento dell'udito come strumento più potente dello sguardo.
Il film è conosciuto anche con il suo titolo originario "Il vento soffia dove vuole", frase che, nel Vangelo di Giovanni, Gesù confida a Nicodemo, notabile e ricco fariseo che sente la necessità di chiedergli come si può nascere di nuovo. "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito" (Giovanni 3:1-21). Che poi prosegue: "E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio". Nicodemo, nell'allegoria proposta da Bresson, rappresenta la volontà umana di rinascere, redimersi, lottare. Come fa Fontaine che tra caso (il vento che soffia) e tenace ricerca della grazia ("Sarebbe troppo comodo se dio si occupasse di tutto, bisogna dargli una mano", dice nella fase centrale della pellicola) si ribella alle atrocità naziste laddove i suoi compagni non riescono, perché è troppo forte in lui la percezione della realtà come libertà.

pickpocketGli anni cinquanta si concludono per Bresson con la realizzazione dell'ennesima pietra miliare: Diario di un ladro (Pickpocket, 1959). Evento fondamentale nella filmografia del cineasta perché ne cura interamente e in solitaria soggetto e sceneggiatura, nonostante il racconto rielabori la redenzione dostoevskiana di "Delitto e Castigo". È la storia di Michel, giovane borseggiatore parigino e della sua rivolta esistenziale, del suo odio interiore, nei confronti dell'ordine costituito e della legge. Frammenti di vita governati dal caso, in attesa che si compia l'agognata grazia. Michel è diverso dai personaggi intravisti precedentemente: non ha a volontà d'animo e sete di libertà come Fontaine, non è devoto a Dio quanto il giovane curato. La sua sfrontatezza, il suo superomismo può avere tuttavia seminalità in comune con le crudeli angherie di Héléne e Thérèse. Ma in lui c'è di più: c'è un animo innocente e puro fossilizzato da una superficie nichilista. Ha la risolutezza di Julien Tavernier ma è spesso vittima della depressione fatale che avvolge Alain Leroy, per descriverlo mediante i personaggi più rappresentativi del cinema di Malle. O ancora, la delusione del piccolo Antoine Doinel acuita da quell'eterna insoddisfazione che decreta il tragico epilogo di Julie e Jim, per citare i personaggi figli un altro maestro della Nouvelle Vague, Truffaut. Pickpocket rappresenta allora il vestibolo alla seconda parte di carriera di Bresson, dove lo sguardo appare sempre più ferino, cinico e inerme di fronte alla cruda e nuda manifestazione del Male. Quello che accadrà nel finale a Michel sarà l'ultimo raggio di luce, l'ultima manifestazione della Grazia, tra l'altro sempre più affievolita dal contesto di riferimento (le sbarre, la prigione, la distanza). La speranza sta lentamente cedendo il passo alle tenebre.
Bresson occupa un ruolo preminente nell'ambito degli studi che il filosofo Gilles Deleuze ha compiuto sull'immagine-movimento, più approfonditamente sull'immagine-affezione. Come nel Condannato anche in Pickpocket assistiamo all'estetica della frammentazione dell'immagine, trasformati secondo raccordi cadenzati del borsaiolo tra l'esaltazione a seguito della buona riuscita degli scippi (una mera fascinazione dell'atto, senza alcuno scopo di arricchimento) e rovinose cadute e debolezze tipiche dei personaggi dostoevskiani, come quella dell'amico Jacques, che dapprima cerca di aiutare il protagonista con buoni propositi salvo poi scomparire dal racconto dopo aver lasciato incinta la povera Jeanne. In ogni circostanza è la mano a guidare l'occhio, mai viceversa.
Deleuze sottolinea anche l'uso della luce, in particolare il bianco, nell'ambito di quello che egli chiama "astrazione lirica": l'atto dello spirito in Michel non è lotta, come nell'espressionismo ma un'alternativa religiosa. La scelta come determinazione spirituale. "Ci sono gli uomini bianchi di Dio [...] ci sono gli uomini grigi dell'incertezza [il titolo originario di Pickpocket doveva essere per l'appunto "Incertezza", ndr] e ci sono le creature del male"16, circoscritte nell'oscurità. Come Michel o, parossisticamente Yvon ne L'argent, ultimo stadio rappresentativo del Male. Michel è in un certo senso il portatore sano delle sensazioni e delle azioni sviluppate nell'ultimo, terrificante, personaggio bressoniano.
Continua Deleuze: "Ma perché non ci dovrebbe essere, piuttosto che una scelta del male, che sarebbe ancora desiderio, una scelta per il male in perfetta cognizione di causa? La risposta di Bresson è uguale a quella del Mefistofele di Goethe: noi diavoli o vampiri siamo liberi rispetto al primo atto, ma già schiavi rispetto al secondo"17. Proprio come afferma il commissario in "Diario di un ladro" quando dice che "non ci si ferma, si è scelta una situazione che non consente già più di scegliere". In Michel però sopraggiunge nel finale una coscienziosa scelta di determinazione spirituale, sacrificio e redenzione, cosa che non accadrà a Yvon. È appunto nell'ultima sequenza di Pickpocket che è racchiuso l'eterno scontro tra caos e Grazia, tra la dissennata furia nichilista e l'ultima, impegnativa, lotta interiore verso la salvezza. Salvezza che si realizza attraverso una dichiarazione d'amore (cfr. il valore salvifico dell'amore che Gesù insegna a Nicodemo) del protagonista dietro le sbarre. Di nuovo la prigione, ma questa volta non più dello spirito, bensì meramente del corpo: "questi muri, queste sbarre mi sono indifferenti, non li vedo nemmeno" dirà Michel a Jeanne nei minuti finali. Il contatto reale, le mani aggrappate alla sbarra che si sfiorano... "Il trasalimento delle immagini che si svegliano"18: "Oh, Jeanne, pour aller jusqu'à toi, quel drôle de chemin il m'a fallu prendre".

processogiovannaarcoDa Jeanne a Jeanne. Con un balzo indietro di cinque secoli, Bresson dedica a Giovanna d'Arco l'ultima sua manifestazione silente di una Grazia sempre più rarefatta. Come sottolineato dallo stesso Bresson in apertura attraverso il consolidato ausilio della didascalia, Processo a Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc, 1962) ricostruisce fedelmente i dialoghi avvenuti a Rouen nel 1431. Ed è proprio la parola, insieme allo spazio, il motore propulsore di un'opera che segna inequivocabilmente lo spartiacque del pensiero e della formazione cinematografica del Nostro, ossia l'invisibilità e la plausibile dissoluzione della Grazia. Le mani sono o incatenate o legate. Le mura chiudono ogni spazio, gli ambienti limitati. I virtuosi movimenti di macchina di Pickpocket immobilizzati per lasciare spazio al dominio di un asettico montaggio campo-controcampo in piani medi (né troppo lontano, né troppo vicino ai personaggi, al contrario di Dreyer come vedremo). È la parola l'unico mezzo di salvezza, anche se il pubblico sa già il destino che la Storia ha riservato alla Pulzella d'Orleans, la stessa parola (di Dio) che teneva in vita il curato di campagna per mezzo del suo diario. Il filone legato al Cinematografo e al tema della prigione, si conclude ciclicamente, abbracciando nuovamente La conversa di Belfort nel nome della ribellione (lo scontro tra Anne-Marie e la madre vicaria) e del sacrificio (il martirio della stessa Anne-Marie come Giovanna). Bresson urla silenziosamente contro il potere prestabilito capace di suggestionare e vincolare i suoi asserviti (le grida di condanna da parte del popolo), lo fa soprattutto attraverso il cinematografo e l'uso del fuoricampo visivo e sonoro (il foro nel muro attraverso il quale è spiata Giovanna nella sua cella e il conseguente sguardo della stessa verso la macchina da presa).
Al termine dell'inquisizione e del tragico rogo nel quale Giovanna d'Arco è avvolta dalle cupe vampe, due colombe, o meglio, le ombre di due colombe fanno capolino vicino al corpo orma smaterializzato della giovane eroina francese. Quel contatto tra Michel e Jeanne in carcere è stata l'ultima manifestazione tangibile della Grazia, nel Processo a Giovanna d'Arco, è già mascherata da un telo e può essere solamente visibile in controluce.
Oltre alla parola e allo spazio bressoniano è impossibile non comparare l'opera con la pellicola impressionista e affettiva per eccellenza "La passione di Giovanna d'Arco" realizzata nel 1928 da Dreyer. Scrive Deleuze: "Estrarre la passione dal processo, estrarre dall'evento quella parte inesauribile e folgorante che oltrepassa la propria attualizzazione, il compimento che non è mai esso stesso compiuto"19. Bresson annulla l'espressione del volto e il primo piano della Falconetti e crea uno spazio spirituale complesso non rinunciando così alla Passione della protagonista, seppure venga descritta più nelle vesti di prigioniera che non come martire. Si tratta di "un'emozione prodotta attraverso una resistenza all'emozione." Ce lo dice lo stesso Bresson tra le sue note. "In mancanza di vero, il pubblico si attacca al falso. Il modo espressionista in cui la signorina Falconetti gettava gli occhi al cielo, nel film di Dreyer, strappava le lacrime." Prosegue Deleuze: "In Dreyer la passione appariva nei modi dell'estatico e passava attraverso il volto, la sua esaustività, il suo deviare, il suo affrontare il limite. In Bresson invece è in sé stesso processo cioè stazione [...] È la costruzione di uno spazio pezzo dopo pezzo"20. Ecco dunque il ritorno alla frammentazione già ampiamente osservata nel "condamné" e in "Pickpocket".


Parte terza. Innocenza e sfiducia nella Grazia

auhasardbalthazarBresson rilesse a distanza di anni "L'idiota" di Fëdor Dostoevskij. Non ricordava lo specifico elogio all'asino ("Tuttavia io sono dalla parte dell'asino: l'asino è una persona buona e utile" 21), ma tornò a cullare con sempre maggior insistenza una visione che lo suggestionava fin dall'inizio degli anni 50: una grande testa di somaro che occupava e dominava l'intero schermo. L'asino, al di là di Dostojevskij, come figura ricorrente nel Vecchio e Nuovo Testamento  - e sovente raffigurato sui capitelli delle chiese romane - e con occhio di riguardo al medievale miracolo dell'asina di Balaam. Dice Bresson: "Balthazar porta con sé, forzatamente, l'erotismo greco e, al contempo, la spiritualità e il misticismo biblici. Ma è anche simile al vagabondo dei primi film di Chaplin"22. Il titolo, Au Hasard Balthazar (Au hasard Balthazar, 1966), proviene da un motto proprio dei conti di Baux-de-Provence che asserivano di discendere dal Re Magio Baldassarre. Rima di pertinente musicalità, ma anche suggestione biblica da parte di un cineasta che fin dalla prima ora ha percorso una strada scandita dalla campana della trascendenza spirituale. La parabola del somaro Balthazar può essere anche interpretata come un attraversamento di Gesù Cristo nel mondo moderno, impotente e guidato da un Grande Inquisitore implacabile, croce definitiva sui peccati del genere umano.
Au hasard Balthazar è già un punto di arrivo della visione del cinema bressoniano, azzeramento di ogni possibile orpello o trucco dedito a distogliere lo sguardo (e l'attenzione) da ciò che l'occhio riesce a vedere, a sentire. L'esigenza del racconto, della storia, viene praticamente rifiutata. Il montaggio in ciò non subisce un ridimensionamento espressivo, ma al contrario è tra i  motivi principali della composizione, che vuole la coabitazione tra immagine, suono e silenzio come un unicum in grado di scardinare l'accessorio: l'unione degli elementi si fa al contempo esperienza ed esigenza del levare. L'immagine diventa viva e ha ragione d'essere e vivere attraverso l'interrelazione con le altre immagini. La sottrazione e il non visibile assumono come mai prima d'ora importanza eguale a ciò che scorre sullo schermo.
Ciò che proverbialmente viene definito "pessimismo bressoniano" prende soltanto in questa occasiona una forma veritiera. Più precisamente il perno spirituale risulta essere declinato verso una corrente di adesione giansenista: un Dio, dunque, non assente ma restìo a concedere la Grazia - guadagnata, invece, da precedenti figure della sua filmografia. Senza l'agognata assoluzione, dice il giansenismo, l'uomo sarà indotto a volere e a fare del male. Il film è quindi una implacabile rappresentazione del male nel mondo. Se da sempre il cinema del cineasta è strettamente condotto da una spiritualità dagli alti connotati, si passa in qualche modo da una elaborazione della fede ad un'umanità che concede pochi barlumi di speranza: i personaggi che gravitano attorno allo sguardo oggettivo dell'asino sono portatori dei vizi capitali ed il Male è generato da circostanze esterne, legato poi alla materialità delle leggi sociali, insito, e dunque non sempre spiegabile, all'interno della natura umana.
In parallelo con le vicessitudini dell'asinello affiora la storia della ragazza Marie, sua prima padroncina, predestinata alla sofferenza e succube dal prepotente Gèrard, che preferisce al suo primo amore Jacques. Più si va avanti più distanza si viene a creare tra asino e ragazza. La finale violenza inferta alla nuda Marie è di conseguenza l'approdo ad un abiettezza che ha disumanizzato qualsivoglia spiraglio di speranza. Nel finale, l'asino ormai morente consuma gli ultimi scampoli di vita circondato da pecore e montoni. Un brandello della sonata per piano n° 20 di Franz Schubert, il silenzio, campanelli pastorali. Nelle ingiustizie dell'umanità, nel vizioso circolo del male, in una terra che si autocondanna, l'asino trova un raccordo per una pace sita tra i pascoli dell'al di là. Au hasard Balthazar è uno dei vertici della storia del cinema, un punto di non ritorno per l'arte del XX secolo.

mouchette_01Uscito a meno di un anno di distanza, Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette, 1967) rappresenta un corollario tombale al precedente film.
Adattato precedentemente con Il diario di un curato di campagna, George Bernanos, tra i numi tutelari dello spiritualismo del cinema bressoniano, torna protagonista diretto con Mouchette. Personaggio del primo romanzo di Bernanos, "Sotto il sole di Satana" (1926, a sua volta adattato per il grande schermo da Maurice Pialat nel 1987, Palma d'Oro a Cannes), Mouchette riappare come protagonista assoluta in "Nuova storia di Mouchette" (1937). Rispetto ai suoi esordi letterari la Mouchette delle pagine di Bernanos si muoveva in un mondo dove tenue pareva essere calato il raggio spirituale sulla terra calpestata da una degradante umanità. Eppure nelle pagine scritte qualcosa della Grazia Superiore sembrava ancora affiorare. Speranza, possibilità, redenzione terrena pressochè assente ormai in Bresson. Un po' è inaspettato un ritorno a parvenze di letterarietà dopo l'integrale annullamento attuato dal precedente film, ma nessuno può fare una colpa a Bresson di ciò, nessuno, comunque, può accusarlo di essersi piegato ad un qualsiasi morbido avvicinamento alle logiche narrative.
La tortora che ad inizio film verso il cielo è liberata rappresenta un definitivo addio alle possibilità di un domani migliore ma assieme al pre-finale che sentenzia la morte delle pur scattanti lepri fa da gabbia alla storia e all'umanità che la occupa. Ancora una volta è il microcosmo di un piccolo villaggio lo sfondo che assorbe. Bresson in questo modo nemmeno ha bisogno di cercare, analizzare e procedere con l'evoluzione dei personaggi. Non c'è più il caso ma una frontalità già oggettiva, fatti che devono avvenire. Quasi un resoconto di situazioni e sofferenze umane ultime, fatalità di un mondo intero.
C'è al centro dell'opera questa ragazzina, Mouchette, discendente dell'asino Balthazar più che della sua padroncina Marie. Vessata dentro e fuori la scuola, responsabilizzata e deturpata dal sorriso dentro e fuori la casa materna. Pur vittima designata, Bresson non adotta certamente uno sguardo vittimista e, di conseguenza il distacco con il quale fa muovere la sua protagonista, il suo sguardo, i suoi arti, nel film è un antidoto esemplare non soltanto a facili scorciatoie melodrammatiche ma anche ad una mera ricerca che addita colpevoli e sciorina soluzioni per ipotizzare utopistici domani. Mouchette è anzi più volte dispettosa, disponibile in casa e con la madre morente finchè si vuole ma non si addossa mai una sola verità per smascherare un univoco male.
Il film accumula soprattutto nella prima parte svariate situazioni più o meno importanti e presenta personaggi secondo un metodo ormai ben oliato: pochi gesti e ancor meno parole, una congiunzione tra una sequenza e l'altra come unico metodo per avvalorare e rendere unici minuti ed attimi. Un'immagine si nutre della precedente e della successiva e solo in tal modo trova al contempo respiro ed urgenza.
Oltre ad una compressione geografica e al di là della secchezza dell'immagine Bresson questa volta si misura anche con una scansione temporale che racchiude semplicemente le ultime ore dalla vita di Mouchette. "Tutta la vita in una notte" preannuncia il ridondante sottotitolo italiano. Ore e vita che terminano con il suicidio finale. L'ultimo atto non è tragico gioco ma è invece la negazione stessa del concetto di gioco, di quel sorriso appena accennato in un solo momento sul volto di Mouchette. L'attimo fatale resta fuori campo: vediamo il corpo rotolare, poi l'acqua che accoglie la ragazzina che va schiudensosi. Resta la musica, che secondo Bresson non rinforza ma conclude e avvolge il film di cristianità. "Gia risuonate due volte, le note del Magnificat di Monteverdi suggellano, all'insegna della discrezione e del ritegno, la sconsolata sacralità della sequenza finale"23.

belladolce_04Bresson dichiarò che fino ai 17 anni non aveva pressochè  letto nessun libro indispensabile per quella che sarà la sua formazione artistica. Il suono (la musica) e l'immagine (la pittura) erano per l'adolescente Robert fonti di maggior urgenza verso i primi immaginari audiovisivi che si andavano formando per la nascita della sua Opera. Tra i molti autori conosciuti, fatti propri e tra le basi di partenza del suo cinema spiccano, e con gli anni si consolidano, George Bernanos e Fëdor Dostoevskij. Il primo confluito in un ascetismo che ha epurato man mano la melodrammaticità dell'insieme (il regista non amava alcuni passaggi enfatici dello scrittore), il secondo guida la scelte, il movimento, la corporalità del personaggio bressoniano. Vi era in particolar modo del Dostoevskij in Pickpocket ("Delitto e castigo") e, seppur sottotraccia, in Au hasard Balthazar ("L'idiota"). Tralasciando le Opere-Magna del genio russo, il cinema a colori di Bresson prende forma da due racconti dello scrittore. Nascono così Così bella, così dolce (Une femme douce, 1969) e Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d'un rêveur, 1971).
In un certo qual modo il Bresson a colori comincia dove finisce quello in bianco e nero: con il suicidio di una ragazza. Il corpo senza vita della donna, il rosso sangue che mette già un punto ben fisso sul dramma. La giovane Mouchette di Nadine Nortier appariva sgraziata, urticante, quasi disadattata fin dall'immagine che ne traspariva al però altrettanto ruvido villaggio che non sapeva ospitarla. Al contrario la Femme Douce della debuttante Dominique Sanda indossa tratti e movenze delicate e si muove soave negli spazi parigini (interni, perlopiù) con naturalezza eppur con inquieto passo vitale.
La grande città, l'apparenza che si offre illusoria fanno da cornice alle intenzioni davvero ardue fissate da Bresson: "La mite" si presenta nell'itinerario dostoevskijano come un monologo interiore di un uomo afflitto da superbia. Il controcanto - o il fulcro attorno al quale ruota lo spirito, la morale e la sua assenza - è il corpo della donna, già supino e spento sul letto. Radiografando i ricordi, il pensiero lucido e che si vuole obiettivo il Luc di Così bella, così dolce è fedele al proprietario del banco dei pegni protagonista del racconto. Da una parte Bresson calza i guanti letterari senza tradirne la cadenza, dall'altra lo spunto che intende azionare attraverso la macchina cinema è quello di svotare lo psicologismo proprio liddove l'azione è fondamentalmente frutto del pensiero, dell'interiorità. Questo scollamento riesce soltanto in parte perché l'assunto dell'ipotesi stessa vive di una contraddizione probabilmente invalicabile.
Dall'altra parte è ammirevole la continuità con ciò che è stato il suo cinema. E con ciò che sarà.
Il rosso del sangue iniziale sembra spegnersi immediatamente per il modo con cui la fotografia presenta sì per la prima volta il colore nel suo cinema, ma le accensioni cromatiche sono pressochè assenti. L'anti-melodramma azzarda addirittura un erotismo più esplicito, una possibilità di gioia ben temperata, con la donna che fanciullescamente salta sul letto e, comunque, emana una sensualità nel solo apparire, nell'essere situata nell'inquadratura. In questo caso gli scampoli dell'apparenza vengono risucchiati dalle leggi sociali (il denaro, costante oggetto di perdizione e sconfitta nel suo cinema),dall'orgoglio, dall'assenza di comunicazione. Colonne invalicabili che già ci sono: l'attraversamento della ragazza in tal senso porta ad una fine già segnata, quasi inevitabile. Non a caso lo spettatore viene messo subito dinanzi al tragico epilogo della storia. L'analisi dell'uomo, che contempla domande fatte da dubbi che comunque non hanno il potere di riavvolgere ciò che è stato, è un terreno minato che indica alla psicologia le strettoie  tra la giustizia e la concretezza dell'inevitabile conseguenza tragica. Dove a prevalere sarà sempre e comunque quest'ultima (la morte).

quattronottiGià portato precedentemente sul grande schermo tre volte - da Grigorij L. Rošal′ e Vera P. Stroeva (1933), Luchino Visconti (1957), Ivan Pyrev (1959) - "Le notti bianche" è il più noto tra i racconti giovanili di Dostoevskij. Ed è interessante sottolineare che nell'itinerario bressoniano Quattro notti di un sognatore si colloca invece nel mezzo di una fase artistica ben avanzata.
Parafrasando il titolo, questa trasposizione sita in un'opera omnia dall'irreversibile pessimismo è da considerare l'ultimo possibile sogno di un cineasta che nella concretezza terrena ha trovato l'alto (ascetismo di un linguaggio del cinematografo compreso) e in quanto tale, spostando l'azione dalla San Pietroburgo d'epoca alla contemporanea Parigi, si avvale, come nel film precedente, di un giovane uomo attorno al quale gravita una giovane donna. Stavolta, però, l'approccio dista da ogni possibile tentativo di seduta psicanalitica tanto che Bresson fa con Quattro notti di un sognatore, il suo film più aereo e meno disperato. Quasi lieve pur nella sua inevitabile sconsolatezza. Meno manierista della versione viscontiana; anche meno sognante e romantico, si dirà. Lo è però pienamente se collocato in un'ottica meramente bressoniana: nella sua idea filosofica di cinema e di vita. Dice Jean Sémolué; "La modernità colpisce a tal punto che l'atmosfera globale del film si avvicina più a "Baci rubati" di Truffaut" e "Il maschio e la femmina" di Godard, che alle "Notti bianche" di Visconti, a onta della comune fonte letteraria"24
Il taciturno Jacques errabonda, fa l'autostop, si sposta tra prati e strade cittadine. Le sue notti bianche, scandite in brevi capitoletti, ai quali si aggiungono fugaci flashback ("Storia di Jacques", "Storia di Martha") dediti a presentarci episodi brevi ma esemplari per situarci nell'oggi con maggior cognizione di causa. La solitudine di Jacques viene accentuata tramite il suo poco remunerativo lavoro del dipingere, dialoga senza molta convinzione con un unico ospite. Si innamora di Marthe, anima inquieta, aleatoria. L'innamoramento non prevede nette spiegazioni se non quelle del sogno di cui sopra. E qui la sensualità della donna è tangibile come mai in Bresson: la scena di Marthe nuda davanti allo specchio evita la carnalità dell'amplesso, ma non è punitiva né giustificazionista. La sua sensualità, brandelli di desiderio per il ragazzo, è rappresentata dal solo esserci di un giovane e desiderabile corpo. I personaggi, gli eventi, situazioni quasi sempre piccole, che entrano ed escono dallo schermo senza, magari, l'abituale pessimismo, ma vi è comunque una fatalità che si respira fin dal principio. Valgono, dunque, per gli spettatori e per i due ragazzi - certamente più Jacques che Marthe - la pregnanza del gesto che riverbera, una parola e un'esitazione che non sposta  gli eventi dell'ineluttabile corso della storia, ma che trova la sua poesia in note di bossa che si stagliano nell'aria, in battelli che attraversano la Senna, in poche pennellate per dipinti riusciti o meno,  in una umanità che viene e che va. Nell'inevitabilità di un inizio e di una fine Bresson trova la chiave del racconto, per forza di cose imparentato come raramente accaduto nel suo cinema con una pur alta narrativa. Quella di Jacques e di Robert Bresson è una misurazione di una possibilità di credere ancora all'amore. E il crederci con la coscienza di trovarsi di fronte alla vera e presumibilmente ultima ragione di serenità terrena rende la peregrinazione sentimentale di Jacques una cronaca di una sconfitta annunciata.
All'epoca dell'uscita Quattro notti di un sognatore fu da molti giudicato un film minore, rispettabile ma non sufficientemente personale. Nato anche grazie a scorciatoie produttive (con denaro giunto pure dall'Italia) e realizzato in breve tempo, è un film dove indirettamente Bresson teorizza e mette alla prova le possibilità della finzione cinematografica (addirittura divertente le immagini del gangster movie che scorrono nella sequenza della sala cinematografica). Un film sussurrato ed esemplare.


Parte quarta. Esplosione del Male

lancillottoginevraLancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac, 1974) si pone nel mezzo del Bresson contemporaneo a colori ed è anche un importante viatico ai suoi ultimi passi cinematografici, una radiografia senza aggettivi  delle fondamenta del Male; prima annidate in un dato passato e poi esplose a macchia d'olio lungo i secoli a venire.
Non vi erano possibilità nel pensare ad un concretizzarsi del progetto "Genesi" che ad inizio anni 60 il produttore Dino De Laurentiis propose al regista Robert Bresson e anche l'ipotesi di un kolossal d'autore rasentava l'improbabilità di una collaborazione tra due personalità e due idee di cinema agli antipodi.
Anche successivamente Bresson continuò a covare il desiderio di realizzare una sua "Genesi", ma non ha mai avuto bisogno di accademiche trasposizioni bibliche per delineare idee, concetti, credi di carattere religioso. D'altra parte nel suo cinema non vi è un'enunciazione, per quanto illustre possa essere. Non è soltanto un discorso di eludere tesi didascaliche:  la comunicazione interna all'opera è in Bresson il risultato stesso del suo concetto di trascendenza. Certamente inscindibile il legame tra etica ed estetica. Nozioni che combinate, qui come raramente altrove, forgiano lo sguardo. E lo sguardo stesso è, tra le altre cose, lo spiritualismo dell'opera bressoniana. Dove anche un asino può per l'appunto addossarsi un peso cristologico senza per questo attraversare pedantemente tappe obbedienti a passi biblici.
Non una replica del risaputo, dunque, ma per il cineasta si apriva il bisogno di porsi in un'epoca passata per una riflessione. Del Male, per l'appunto.
Icone di questa sua fermata sono le armature attraverso le quali fluttuano ingenti quantità di sangue. Nelle uccisioni che fanno da prologo, nel torneo posto a metà film che vede un Lancillotto in incognito, nel finale, la carne sembra proprio non esserci. Le movenze paiono indotte da manichini meccanici.
Il titolo italiano mette da parte la parola Lago e affianca a quello del protagonista quello dell'amata Ginevra, introducendo ad un romanticismo non improprio all'epoca Medievale.
Nel ritorno da una sconfitta già avvenuta Lancillotto ha già esaurito la ricerca leggendaria (il Sacro Graal), svuotato l'alone favolistico della storia. Gli ideali cavallereschi sono già segnati: l'impotenza di Artù, la dispersione di Perceval, l'emblematica figura di Mordred che evidenzia l'incomunicabilità e l'impossibile riconciliazione anche degli ingranaggi interni già andati in tilt.
Nelle tele comunicative tra i cavalieri, che errano in oscure e funeree foreste, rancori, invidie, orgogli invalicabili fanno il resto. Nel silenzio del crocifisso (e di Dio) Lancillotto si prelude la possibilità di incoronare l'amore che pure nutre per Ginevra. Resta per Bresson, attraverso due mirabili sequenze in interni, un processo dell'anima dove alla dialettica degli scambi si contrappone lo spazio fatto come di consueto da particolari (mani, oggetti più o meno importanti) e vuoti. Avverso ad un utilizzo pittorico del colore, Bresson fa comunque di Lancillotto e Ginevra la sua opera dove i contrasti cromatici emergono con più decisione. E non a caso emerge il grigio delle armature e il nero delle ombre che risucchia le poche zone che aspirano alla luminosità. Il finale di Lancillotto e Ginevra che vede ammucchiati gli uomini-armatura è un epilogo funereo senza nemmeno un rituale. Segna attraverso la sparizione del corpo una disumanizzazione senza ritorno. Estirpata qualsiasi congettura di vita amorosa, di riconciliazione terrena verso il prossimo, spento il sangue della vita, le armature si sostengono come scheletri che si faranno polvere. Nessun titolo di coda e nemmeno la didascalia che preannuncia la "fine": Lancillotto e Ginevra si erige ad ideale prologo verso l'idea di Mondo che Bresson ha composto con la sua Opera. "Bisogna rimettere il passato al presente se si vuole essere creduti" 25.

diavoloprobabilmenteAd aprire con sconsolatezza Il diavolo probabilmente (Le Diable Probablement, 1977) vi sono due rimandi a sue precedenti opere: il battello che attraversa una notturna Senna sembra una replica di quello che si vede in Quattro notti di un sognatore. Ma stavolta l'orchestrina non c'è più: la musica è cessata. Come in Così bella così dolce ci viene data da subito notizia della morte del protagonista e si avvia di conseguenza un lungo flashback. Ma è, telegraficamente, un quotidiano a farlo: non vi è la presenza di un cadavere a rendere tattile il corpo di colui che ha voluto metter fine ai propri giorni terreni.
Negli ultimi passi bressoniani i corpi sono sempre più figure che attraversano l'inquadratura con una inquietudine palpabile ma sfuggente. Mentre si accentra e pesa come un  macigno invalicabile l'impossibilità di scendere a patti con il perpetuo malessere del vivere e della Grazia, che pure si offriva come speranza - terrena e non - non si scorge più nemmeno l'ombra.
Il diavolo probabilmente è in assoluto il suo film dove il presente storico è maggiormente radicato nelle azioni e nelle parole dei personaggi, negli umori che conducono all'inevitabile (ovvero alla Fine).
L'azione si colloca in una data che si addossa le sbornie culturali sessantottine. Ma Bresson non si politicizza per l'occasione, non ricostruisce lo sfacelo ma lo riproduce in una forma che vuole essere obiettiva: le sequenze shock di corpi fanciulleschi martoriati o di animali brutalmente ammazzati sono immagini di repertorio riprodotte su uno schermo di studio, non atrocità realizzate ex novo dal cineasta, che suggerisce anzi l'impossibilità di mostrare la sovraesposizione: il suo cinematografo è un terreno per azionare una somma di cose, attimi e suggesioni dediti a riprodurre l'indicibilità del Tutto. Le immagini delle violenze perpetrate in combinazione con dialoghi più scritti che in passato rivelano aperture ad un didascalismo, seppur abbozzato, che può spiazzare. Anche perché i personaggi dibattono oralmente ed evidenziando dunque una recitazione dimessa ed atonale più che singole frasi colte in frangenti subliminali. Non a caso a funzionare con maggior perspicacia e sintesi sono ancora una volta quei lampi che combinano associazioni all'apparenza di relativa importanza e che invece stabiliscono come e più delle parole udite lo sfacelo di un mondo intero: esemplare la sradicazione degli alberi abbattuti in sequenza, che il montaggio rende una vera sinfonia dell'orrore in chiave di sottrazione, caduta del progresso e delle idee del mondo occidentale.
Per la verità Bresson non contempla la possibilità del sogno. La rivoluzione è fallita. Quanto ci hanno davvero creduto i giovani dell'epoca ma, soprattutto, quanto una controcultura poteva ribaltare le sorti di una natura che guarda impotente la sopraffazione dell'uomo? Non illusioni e speranze lungo il cammino del giovane Charles, che si muove in strade abitate da hippy tormentati da domande senza risposte, in corsi didattici che evidenziano l'apocalisse nucleare in nome di un dubbio progresso globale. La Chiesa non trova risposte  né ne riceve a sua volta da Dio, la psichiaria si alimenta e si distrugge con i suoi stessi rigidi schemi,  i beni materiali hanno annullato la purezza delle emozioni.  Il ragazzo drogato che per denaro accetta di uccidere impassibilmente il protagonista non è un carnefice, ma un esecutore tra gli esecutori di quel diavolo - probabilmente - che non  è interessato ad udire il pensiero e l'azionarsi di una morale altrui. L'uccisione fulminea, il fine della droga come sostanza e continuazione di un letale circolo di perdizione, l'assenza ancora una volta della parola "fine". Tutto contribuisce a fare di Il diavolo probabilmente un ideale ingresso nel girone infernale bressoniano.

argentIn Le Diable Probablement il denaro veniva dapprima rubato dalle cassette dell'elemosina della sacra Chiesa e poi assurto ad elemento di mercificazione per l'annullamento del sé terreno; il tutto per essere utilizzato al fine pratico di consumare droga, a sua volta sostanza per un ulteriore disfacimento di ogni morale e senso. Partiva in qualche modo da lì una struttura narrativa dove un indizio, un elemento, un gesto portavano, sequenza dopo sequenza, ad una distruzione dell'Io in prima battuta. Che implicava poi in automatico il circondario, il comun denominatore. Meccanismo che diviene elemento fondante di L'Argent (L'Argent, 1983), Atto Ultimo del cinema di Robert Bresson. È in un certo senso un film dove il racconto, la "storia" ha un'identità più avvertibile, raccontabile rispetto ai suoi precedenti film a colori. Ma proprio a causa di ciò il cineasta adotta una rottura degli schemi e delle convenzioni mai tanto radicale.
Bresson si ispira liberamente al racconto di Lev Tolstoj "Denaro falso" risultandone fedele a grandi linee (parte finale esclusa) ma andando oltre il significato di riduzione e scarnificazione.
Da ormai qualche decennio i suoi personaggi erano epurati da ogni possibile elemento psicologico. La centralità del dettaglio, assemblato e fatto vivere tramite combinazione con altri elementi, formava ed azionava le scelte e la continuazione delle varie fasi della pellicola. Con il trascorrere del tempo questa purezza di sguardo assurgeva sempre più ad una riduzione prima dell'ornamento, poi degli stessi margini che fanno da orbite e collanti al dettaglio. E dunque le mani, i piedi, i fianchi hanno valenza non inferiore a quella del volto; ed i gesti e le azioni vengono esaltati e riprodotti esclusivamente nel momento di massima tensione espressiva. Una rapina e un omicidio sono così risolti in un numero estremamente ristretto di inquadrature. Il corpo di un personaggio che attraversa l'inquadratura, la caduta di un oggtto, il dettaglio di una banconota o di un'ascia utilizzata per un assassinio immotivato. Tutto scorre con violenta precisione, in uno stato di allerta non ricercato ma riproduzione scaturita dalla essenzialità dell'insieme. In tal modo l'occhio (e l'attenzione) è costretto a restare sempre spalancato, a raccogliere ed immagazzinare ogni fotogramma con eguale immediatezza e importanza. Ricorda Bresson: "Uguaglianza di tutte le cose. Cezanne che dipingeva con lo stesso occhio un barattolo di marmellata, suo figlio, la montagna di Sainte Victoire" 26.
Secondo Bresson la limpidezza va racolta e rivelata e non è facile proprio perché nasconde la verità, va oltre le apparenze. Semplice sarebbe invece saturare l'inquadratura (da virtuosismi, musiche, trucchi) in un quadro che finirebbe in tal modo per mostrare tanto e non rivelare nulla. Il levare è ciò che ci mette di fronte ad un principio - del cinematografo come della vita - ostico perché trasparente, non difficile.
In L'Argent la consequenzialità del movimento, dello sviluppo della storia, ma anche del solo incastrarsi di elementi in altri elementi producono un effetto di progressione meccanica che cancella i caratteri propri dell'uomo, annulla la ragione e, di conseguenza, preannuncia le perdizione e l'inevitabilità della catastrofe.
Idealmente suddisivibile in tre fasi (i passaggi delle banconote false, la prigionia, l'epilogo in campagna), l'opera  contiene molte tra le tematiche cardini dell'alta narrativa russa ottocentesca e, di conseguenza, del cinema del suo autore. C'è Tolstoj e c'è ovviamente Dostojevskij: il peccato, la colpa, la ragione, la redenzione. Ma mai come in questa occasione manca la Grazia.
Bresson diffidava da chi gli faceva notare un pessimismo sempre più marcato, preferendo soffermarsi su una ricerca di lucidità senza aggettivi. Certo, una sorta di redenzione toccherà anche al giovane Yvon, ma ormai il concetto di vittima e carnefice è pressochè abolito, l'uomo è sempre più elemento, esecutore di un ruolo meccanico e inevitabile, privato di scelte e contrasti emozionali. In un cinema dove il personaggio guarda costantemente fuori dall'inquadratura, non alienato semplicemente come animale sociale ma nelle stesse strettoie del profilmico,  l'ultimo fotogramma ci mostra una folla che attende il redento colpevole. Non per linciarlo, non per urlargli contro rabbia, non spettatore voyeur. Il giovane passa, lo sguardo - che è lo sguardo dello spettatore - resta nel vuoto. L'ultima inqadratura del cinema di Bresson non prevede titoli di coda. Ma l'abissale vuoto che ci resta.



Note
Matteo De Simei è autore dei capitoli 1 e 2
Diego Capuano è autore dei capitoli 3 e 4

I voti espressi nella filmografia sono il frutto di una media ponderata tra i due redattori autori della scheda.

 

 


[i]1 Robert Bresson, Note sul cinematografo, IV ed. italiana, Biblioteca Marsilio, Venezia, 2008, p. 29.

2 Alcune fonti riportano come data di nascita il 1907 ma la data più attendibile e documentata sembra essere il 1901.
3 "Musica e pittura, forme e colori, mi apparivano più vere di tutti i libri conosciuti", Robert Bresson in un'intervista rilasciata ad Aldo Tassone in Robert Bresson, un leone dimenticato, nel 1989.
4 Ivi, p. 121. Bresson confida anche, senza troppi rimpianti, che dei suoi dipinti non è rimasto nulla: "me li ha presi prima della guerra un ebreo tedesco che non sono più riuscito a rintracciare. I due che aveva mia madre sono andati perduti durante un trasloco. Niente di grave".
5 Ivi, p. 122.
6 Raymond Léopold Brückberger, La storia di Gesù Cristo, ed. italiana, Garzanti, Milano, 1967, p. 88
7 Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, Ugo Mursia Editore, Milano, 2016, p. 35
8 Antonio Petagine, Profili dell'umano. Lineamenti di antropologia filosofica, Franco Angeli Edizioni, Milano, 2007, p. 83
9 Alessio Scarlato, Robert Bresson - La meccanica della grazia, Ente dello Spettacolo, Roma, 2006, p. 58.
10 Robert Bresson, Note sul cinematografo, p. 67.
11 Ivi, p. 92
12 Alessio Scarlato, Robert Bresson - La meccanica della grazia, p. 66.
13 Cfr. il saggio di Bazin "Le journal d'un curé de campagne et la stylistique de Robert Bresson" scritta nel 1951 tra le pagine del Cahiers du cinema.
14 Alessio Scarlato, Robert Bresson - La meccanica della grazia, p. 66.
15 Robert Bresson, Note sul cinematografo, p. 87.
16 Gilles Deleuze, L'immagine-movimento. Cinema 1, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2016, pp. 142-143.
17 Ibidem.
18 Robert Bresson, Note sul cinematografo, p. 112.
19 Gilles Deleuze, L'immagine-movimento. Cinema 1, pag. 133. In relazione alla spiritualità e alla trascendenza nel cinema(tografo) di Bresson si cfr. anche il saggio scritto da Paul Schrader, "Il trascendente nel cinema" dove il cineasta analizza oltre al Maestro francese anche Dreyer e Ozu.
20 Ivi, p. 135
21 Fëdor Dostoevskij, L'idiota, 1896
22 Joseph Cunneen, Robert Bresson: A Spiritual Style in Film
23 Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei film 2005, p.881.
24
Tèlecinè n.173, 1971.
25
Entretien avec R. Bresson, L'avant scene cinema, n. 155, 1975.
26 Robert Bresson, Note sul cinematografo, p. 120.





Robert Bresson