Tuttavia io sono dalla parte dell'asino: l'asino è una persona buona e utile (Fëdor Dostoevskij, "L'idiota")
Gli occhi dell'uomo, gli occhi del regista
I lasciti di Robert Bresson alla sfera culturale del 900 - preceduti da un corto, 13 lungometraggi in 40 anni - si prestano ad un'analisi in grado di spaziere tra temi alti e ultimi della vita terrena.
A dispetto dell'illimitata mole analitica liberata dalle sue opere, il metodo ed il percorso bressoniano riducono l'azzardo interpretativo: il chirurgico avvicinamento ad una purezza cinematografica concreta e senza orpelli, sommata a penetranti codici e dettami, costringe spiritualmente ad obbedire all'oggettività che nuda si mostra ai nostri occhi.
L'itinerario registico del cineasta francese ha d'altra parte fin dall'inizio stabilito codici che nel corso dei decenni hanno subìto un'applicazione via via più sintetica, più rigorosa, più penetrante: l'ottenimento della cristallizzazione dell'oggetto, dell'azione, dell'inquadratura comporta una conseguente riduzione dell'ipotesi interpretativa. La progressiva abolizione dell'ornamento risulta così farsi una visione di cinema che si nutre dell'atto del saper guardare.
"Au hasard Balthazar" è un punto d'arrivo di quell'applicazione teorizzata da Bresson nel suo "Note sul cinematografo", il culmine di un ventaglio di credi che raggiungono in questo caso un compimento dopo il quale sarà possibile soltanto radiografarne gli scheletri.
La figura del cineasta domina: controllore della materia filmica e autocontrollore dei propri mezzi, Bresson si prefigge di dirigere in primo luogo se stesso, responsabile pressoché assoluto di un'opera che innanzitutto non deve in alcun modo essere riproduzione di altro. Della detestata idea di risultato che possa avere la benchè minima impronta di teatralità; badando all'annullamento dell'attore come simbolo di enunciazioni pianificate, di sentimenti studiati a tavolino e recitati con voce e corpo che fingono di appartenere alla realtà che si intende rappresentare.
Sebbene abbia nel corso degli anni assorbito tematiche e filosofie di Georges Bernanos prima e di Fëdor Dostoevskij poi, rispetto ai suoi precedenti (ma anche ad alcuni successivi) film, il regista epura qui in un modo che può dirsi definitivo le tracce di letterarietà, svuota ulteriormente l'immagine dall'abituale cognizione di immagine cinematografica o, quantomeno, da quell'abbellimento che per forza di cose ostacola la percezione dell'essenziale.
La concatenazione di causa ed effetto non è più legata all'esigenza di raccontare una storia, tanto da frantumare anche l'ipotesi, pur tenue, di idea narrativa. Non per questo la comunicazione tra le varie sequenze, tra movimenti e attimi risulta essere accessoria. Al contrario: il montaggio si fa chiave della composizione e, secondo le intenzioni dell'autore, la coabitazione tra immagine, suono e silenzio va modulata fino ad un'ideale rapporto di indelebile unione. In tal modo i meditati automatismi si nutrono l'un l'altro: un singolo nucleo ha una forza limitata, ma riesce ad acquisire pregnanza, valore e significato attraverso la comunicazione con le precedenti e successive fasi. L'immagine diventa viva e significativa soltanto attraverso l'interrelazione con le altre immagini. Nessuna scena madre, ma un tragitto che ha il dovere di farsi un unicum.
All'interno di questi rigorosi e inflessibili cesellamenti Robert Bresson riesce a rendere al contempo straordinariamente intransigente e libero il suo cinema. Al netto delle applicazioni sopracitate, la scelta, l'assemblaggio e la direzione dell'insieme riguarda frammenti che in un modo o nell'altro riescono a sorprendere lo stesso regista. Un gesto non studiato, uno sguardo più lungo o breve del previsto possono stupire gli attori/modelli bressoniani ed il regista stesso. Attraverso le invalicabili barriere di un'arte che vuole schemi rigidi, sovente si catturano spazi e attimi di verità assoluta. Lo sguardo del regista deve rimanere intatto e coerente con se stesso, senza per questo fermarsi al risaputo. Mostrare a sé e allo spettatore, far vivere l'immagine come se fosse la prima volta.
Con "Au hasard Balthazar" Bresson comprime come mai prima d'allora il superfluo, arrivando all'arte come creazione del levare. La sottrazione e il non visibile assumono importanza eguale a ciò che scorre sullo schermo. Come ebbe a dire un folgorato ed illuminato Jean-Luc Godard "Au hasard Balthazar" è "il mondo in 90 minuti". La contemplazione dell'essenziale che scorre sul grande schermo assorbe e dipana la condizione umana tutta.
Gli occhi di un asino, il suo volto
Letto molti anni prima, un ritorno a "L'idiota" di Fëdor Dostoevskij fece trasalire Bresson che, pur non ricordando lo specifico passaggio dell'elogio all'asino, fin dall'inizio degli anni 50 cominciò ad immaginare una grande testa di somaro campeggiare e dominare un grande schermo. Accantonato il progetto, riprese l'idea più volte. La gestazione risultò lunga, sofferta; segnò la sua opera omnia. Realizzò poi finalmente il film, che mantenne molte delle ancorate basi di partenza. L'idea primaria e indiscussa prevedeva la centralità dell'asino, la storia e le storie viste attraverso i suoi occhi. L'asino, al di là di Dostojevskij, come figura ricorrente nel Vecchio e Nuovo Testamento - e sovente raffigurato sui capitelli delle chiese romane - e con occhio di riguardo al medievale miracolo dell'asina di Balaam, battuta dal suo padrone perché impassibile davanti alla visione di un angelo. La vita di un somaro come quella di un uomo ma senza le parole dell'essere umano. Un raglio, magari, e lo sguardo equanime. Dice Bresson: "Balthazar porta con sé, forzatamente, l'erotismo greco e, al contempo, la spiritualità e il misticismo biblici. Ma è anche simile al vagabondo dei primi film di Chaplin".
La parabola dell'asino può essere letta come un attraversamento del Cristo nel mondo contemporaneo, impotente e guidato da un Grande Inquisitore implacabile.
"Au hasard Balthazar" era il motto dei conti di Baux-de-Provence che si proclamavano discendenti del Re Magio Baldassarre. Oltre alla rima, gradita alla sensibilità poetica di Bresson, il titolo offre un primo rimando di carattere biblico alla pellicola di un cineasta da sempre condotto da una corrente intimamente spirituale: se "Il diario di un curato di campagna" era una sorta di esegesi dell'elaborazione di una fede, l'arrivo ad un profilmico segnò poi le sue successive opere. Irrompe però da qui in avanti uno scarto significativo nella filmografia bressoniana: ciò che abitualmente viene inquadrato come il proverbiale pessimismo del cineasta soltanto in questa occasione prende forma. E di conseguenza il perno spirituale risulta così essere declinato verso una corrente non indifferente alla dottrina giansenista: un Dio, dunque, non assente ma restìo a concedere la Grazia - guadagnata, invece, da precedenti figure della sua filmografia. Senza l'agognata assoluzione, dice il giansenismo, l'uomo sarà indotto a volere e a fare del male.
Il capolavoro di Bresson è dunque una implacabile rappresentazione del male nel mondo.
Balthazar nasce e muore nel medesimo luogo, tra i prati di una montagna assolata. Se narrativa non c'è, la retta parabola della sua povera vita è la linea attorno alla quale gravita una umanità portatrice dei vizi capitali dell'anima umana e in assoluto attanagliata da un dominante Male che prende forma e vive: generato da circostanze esterne ed inesorabili (esemplare la figura di Arnold, il poveraccio del villaggio), prettamente legato alla materialità di leggi sociali (il mercante di grano; e l'ossessione per il dio denaro sarà portato alle estreme conseguenze nel terminale "L'argent"), insito e senza ragioni sufficientemente spiegabili (alcune gesta di Gérard e amici non sono né ribelli né tantomeno il risultato di torti subiti ma impronte radicate e indicibili al di là della visione frantumata ed ellittica restituita dalle immagini del film). Ed anche ulteriori personaggi di contorno, a partire dall'orgoglioso padre, sono coprotagonisti di un circolo costituito da spigoli infettati da un pessimismo senza soluzione di continuità.
In parallelo con le vicessitudini dell'asinello affiora la storia della ragazza Marie, sua prima padroncina, predestinata alla sofferenza e succube dal prepotente Gèrard, che preferisce al suo primo amore Jacques. La sequenza della seduzione è basata come di consueto su dettagli, sguardi: una mano dell'una, l'avvicinamento dell'altro, il rifiuto della ragazza che è al contempo abbandono al ragazzo, perdizione già fatale. Nel conseguente gioco seduttivo tra i giovani il silente Balthazar fa da barriera, mero oggetto tra i due. È da notare che con il progressivo distacco tra l'animale e la ragazza il peso del film è sempre più caricato sulle spalle dell'asino, sulle sue gambe man mano più vecchie e stanche, nei suoi occhi. Il punto di vista umano è annullato del tutto nella bellissima scena con gli animali dello zoo che impotenti osservano e riflettono gli altrui occhi, il mondo. Forse già l'infanzia era una pia illusione (lo strappo al seno materno, la bambina malata e poi morente), ma con l'ellissi che restituisce un mulo già cresciuto - un vago "il tempo passa" che spezzerà la cognizione temporale - l'utilizzo della dissolvenza si farà linguaggio del cinematografo per il martirio della bestia e nel corso del film sembra assorbire man mano i pochi residui di speranza. La finale violenza inferta alla nuda Marie è di conseguenza l'approdo ad un abiettezza che ha disumanizzato qualsivoglia spiraglio di speranza.
"È un santo", dirà in riferimento all'asino nel prefinale la madre della ragazza.
Nel finale, l'asino ormai morente consuma gli ultimi scampoli di vita circondato da pecore e montoni. Un brandello della sonata per piano n° 20 di Franz Schubert, il silenzio, campanelli pastorali. Nella sgraziata vita terrena, è in morte che Robert Bresson trova per Balthazar l'ascensione verso i prati del Cielo.