Sfogliando tra le primissime immagini del meraviglioso film di Godard “
Questa è la mia vita”, uno tra i più solenni omaggi che siano mai stati offerti al cinema muto, si assiste alla sequenza in cui la protagonista Nana (Anna Karina) entra in un cinema e scorge la visione de “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer. In particolare alla scena in cui Giovanna viene avvertita del tragico destino che la attende e le viene chiesto di prepararsi alla morte. Il maestro della Nouvelle Vague passa così dal primissimo piano della Pulzella d’Orlèans a quello di Nana, provata dall’emozione e visibilmente commossa. Quello di Godard è forse il modo più diretto e insieme l’aneddoto più efficace per comprendere ed assimilare la natura del cinema impressionista francese degli anni venti, movimento che raggiunse l’acme nel 1928 quando il danese Carl Theodor Dreyer catturò in immagini il volto martoriato dalla sofferenza di Renèe Falconetti, scolpendo così un immaginario collettivo che ancora oggi è in grado di trasmettere un autentico, sublime pathos.
Mentre l’espressionismo di matrice tedesca amplificava i connotati di un’arte plastica e antinaturalistica (
Il dottor Caligari, Nosferatu), l’avanguardia francese concentrò la sua prospettiva sul fascino espressivo dell’immagine e su una disarmante facilità d’introspezione nelle menti dei protagonisti. Oltre all’individualità dei primi importanti registi francesi quali L’Herbier, Delluc e soprattutto Gance (il suo “Napoleone” influenzerà non poco Dreyer e la produzione nella scelta di incentrare il soggetto su un’eroina nazionalpopolare), il cinema transalpino del primo ventennio fu protagonista di una tumultuosa innovazione tecnica, dal dècoupage al montaggio, sino alla didascalia verbale. Al punto che, con l’uscita de “La caduta della casa Usher”, il capolavoro di Epstein tratto dal soggetto di Poe, alcuni critici ritennero che il vecchio espressionismo tedesco fu modernizzato ampiamente dall’avanguardia francese. Il risultato fu possibile anche grazie alle personalità più celebri ed influenti della seconda metà degli anni venti come Feyder, Dulac e Renoir (nessuno come quest’ultimo poteva sottolineare come il cinema muto si imponesse come arte di pittura in movimento).
Paradossalmente ad effigiare con meticolosa funzionalità il cinema impressionista fu un danese. “La passione di Giovanna d’Arco” è infatti il film che fa da collante a questa rivoluzione cinematografica, quello che per antonomasia sintetizza un nuovo e fiorente periodo artistico. L’eroina di Dreyer prende forma dai veri documenti del processo del 1431, esaminati, oltre che dal regista danese, anche dallo storico Pierre Champion. La pellicola si concentra in tre macro-periodi essenziali: il processo, la sede di tortura (luogo in cui Giovanna si rifiuta più volte di firmare l’abiura) e la lunga e fulgida sequenza della condanna al rogo, avvenuta solo dopo alla rasatura dei capelli, simbolo di infamia e di rinuncia al sacrificio, e alla ritrattazione della firma.
La scommessa è quella di oscurare il contesto storico lasciando libero sfogo alle emozioni e riducendo al minimo l’evolversi della narrazione. Poco importa allora se la mdp non descrive la sconfitta di Parigi, episodio che ha ribaltato le sorti della Guerra dei Cent’anni e che ha consegnato la Pulzella agli inglesi. A Dreyer interessano i particolari del processo, l’angoscia psicologica della ragazza e la supponenza mistificatoria degli accusatori, il dolore e la sofferenza da una parte e la malvagità che concupiscente inneggia all’eresia dall’altra, l’ottica puramente emozionale del tutto secondo uno standard rigorosamente panteistico e teologico (non è un caso che sin dalle prime inquadrature si sottolinea come Giovanna sia in balia di visioni mistiche e sia in grado di intravedere i santi, scatenando da subito il malanimo tra i presenti).
Fondamentale è anche il metodo attraverso cui Dreyer realizza questo esperimento di “vita interiore”, vale a dire alternando l’uso solenne dell’immagine con la potenza risolutrice della parola. Le didascalie, infatti, assumono nella lettura una personale intonazione e contribuiscono esponenzialmente a rivelare la psicologia dei personaggi. “Il risultato è un “ascolto” di un’intensità senza uguali, come se il dialogo dei personaggi sgorgasse dall’interiorità stessa degli spettatori. Per la prima volta Dreyer rende visibile la parola, fino al crepitio delle fiamme nel rogo finale”¹. Il dramma viene ripreso mediante un utilizzo spropositato di primi e primissimi piani, focalizzando la messa in scena sui volti di Giovanna e dei giudici e trasmettendo senza il minimo attrito, con un’inclinazione del tutto naturale, l’indole dei protagonisti agli occhi di colui che guarda. È la
photogénie, la “fotogenia” cinematografica tramandata da Delluc ed Epstein secondo la quale l’immagine è capace di acquistare bellezza e sublimità ed assumere una luce propria. Scrisse Dreyer: “Niente al mondo è paragonabile al volto umano. È una terra che non ci si stanca mai di esplorare”². In questo senso l’accecante fotografia di Rudolph Matè, anche grazie all’assenza di ogni minima forma di contributo sonoro, concorre ad innalzare la grazia e l’incanto della pellicola, tracciando così una risultante collettiva ed universale che coincide con lo sguardo martirizzato di Renèe Falconetti. L’attrice nativa di Pantin subì addirittura un così forte contraccolpo a causa dell’eccessiva immedesimazione nel personaggio di Giovanna d’Arco tale da imprigionarla in un esaurimento nervoso che condizionò i restanti giorni della sua vita. Anche la stessa pellicola dovette patire un destino travagliato: la versione originale fu distrutta in un incendio avvenuto a Berlino nello stesso 1928 mentre la seconda, editata negli anni cinquanta, fu letteralmente storpiata da modifiche deplorevoli quali l’apporto musicale, l’aumento della velocità dei fotogrammi e la differente durata delle didascalie. Solo nell’ultimo trentennio e in modo del tutto fortunoso è tornata tra noi una copia del primo negativo che ha dato origine alla terza e definitiva edizione.
Quello che oggi è riconosciuto come l’icona ed insieme il progetto anticipatore della cinematografia dreyeriana, tra documentazione storicistica e rappresentazione sperimentale, all’epoca risultò dunque un flop così grande (soprattutto in termini monetari) da far rintanare il già poco prolifico regista per quasi quindici anni (ad eccezione di “Vampyr” diretto quattro anni più tardi, primo film sonoro del danese). Il suo ritorno al grande cinema coinciderà con due capolavori assoluti: “Dies Irae” (1943), dramma racchiuso da luci ed ombre nonché precursore del genere horror e “Ordet” (1955) in cui ritorna prepotentemente la visione teologico-religiosa, un
De Contemptu Mundi del ventesimo secolo messo per immagini. Fino al testamento autoriale di “Gertrud” (1964) che, come Giovanna d’Arco, rimarrà tra i personaggi femminili più possenti della filmografia dreyeriana e del cinema tutto.
¹
Michel Marie, “Il cinema muto”, Lindau 2008, p. 25
²
Frase riportata dallo storico del cinema Philip Kemp24/05/2011