Terzo capitolo del nostro percorso attraverso le filmografie dei giovani registi che stanno cambiando il cinema contemporaneo, a partire da Hollywood. Stavolta ci occupiamo del cineasta statunitense più amato/odiato, dallo stile controverso e inafferrabile
Classe 1969, sei film all'attivo da regista (più altre incursioni nel mondo della videoarte e della musica), lo statunitense Darren Aronofsky è uno dei nomi più controversi della sua generazione, quella dei quarantenni che, partiti dagli stilemi della provincia e del cinema indie, sono approdati a Hollywood e hanno cercato di fondere i dettami dell'industria cinematografica con le loro peculiarità stilistiche.
Dopo aver "giocato" con le filmografie dei due Anderson, Paul Thomas e Wes, ben più affermati e noti a livello globale, ora riscopriamo la carriera del regista diventato conosciuto con il suo esordio alienante e disturbante, "π - Il teorema del delirio" e poi passato lentamente a una messa in scena meno artigianale e molto più levigata, fino ad abbracciare clamorosamente il blockbuster mainstream nella sua controversa rilettura del mito di Noè, interpretato da Russell Crowe. Come al solito lo speciale è diviso fondamentalmente in tre parti: una breve introduzione (che state leggendo), con lo scopo di dare un minimo di spiegazioni sull'operato della redazione, una classifica in ordine rovesciato che arriva a fondo pagina a designare la pellicola più bella e significativa della produzione artistica di Aronosfky e una serie di pillole, ovvero una minianalisi, scritta da ciascun redattore votante, relativa al film che ognuno ha scelto come proprio personale primo posto.
Noterete subito, dalla graduatoria, una nostra decisione abbastanza netta: l'Aronofsky maturo e hollywoodiano ci piace di più di quello più arrabbiato e anarchico degli esordi del "Teorema" e di "Requiem for a Dream". Con l'accoppiata "The Wrestler" e "Il cigno nero", il cineasta newyorchese ha dato un impulso nuovo alla sua arte, rendendosi capace di nascondersi meglio dietro la macchina da presa, convogliando in modo più padrone del messo le sue ossessioni e manie in una narrazione più efficace, coerente, avvolgente. Altro aspetto confermato anche dalle statistiche, da non sottovalutare: Aronofsky, da molti giudicato frettolosamente un provocatore, un vacuo predicatore del nulla, è oltretutto un bravissimo direttore di attori, capaci con lui di tirare fuori performance di rilievo assoluto: da Ellen Burstyn a Mickey Rourke, fino all'eccezionale interpretazione, premiata pure con un Oscar, di Natalie Portman in "Black Swan".
Insomma, c'è molto di cui discutere. E probabilmente molto ci sarà anche in futuro, quando Aronofsky tornerà sul grande schermo con nuove pellicole che stimoleranno il dibattito. Di sicuro non è un regista per tutti i palati e neanche motivo di giudizi unidirezionali: basti confrontare il fanalino di coda della nostra classifica, recensito invece in modo decisamente positivo da un altro dei nostri redattori. O tutto o niente, si potrebbe pensare. Nella classifica che state per scorrere, proveremo a spiegare alcune possibili chiavi di lettura sul perché i suoi lavori meritano comunque attenzione.
6. NOAH (2014)
5. THE FOUNTAIN - L'ALBERO DELLA VITA (The Fountain, 2006)
4. REQUIEM FOR A DREAM (2000)
Kyrie Eleison ovvero un requiem senza sogni
Messa in scena del dramma di tre ragazzi tossicodipendenti presi in un sogno artificiale che ben presto si trasforma in incubo tra depra(i)vazioni fisiche e morali. In mezzo la madre vedova di uno di loro, che vive nel ricordo del marito e il cui miraggio di partecipare a una trasmissione televisiva la lobotomizza ancora prima degli elettroshock che la faranno impazzire realmente. Tre atti, tre movimenti, tre stagioni - estate, autunno, inverno - senza la rinascita della primavera, perché non esiste in un mondo dove la sconfitta è l'ultima stazione della passione di poveri cristi in questa messa cantata laica, dies irae dell'esistenza, liturgia del disfacimento dell'uomo senza kyrie eleison. La crudezza contenutistica è esaltata da uno stile che utilizza spleet screen, primi piani schiacciati, carrellate laterali lineari, con la macchina da presa incollata sugli attori, velocità dei frame superiore al normale, iterazione di movimenti e azioni (come l'assunzione della droga) che diventano dei tic visivi, traduzione di tic verbali di uno stile narrativo come quello di Hubert Selby jr. (autore del romanzo e della sceneggiatura). Messo in serie da un montaggio sincopato e parallelo, sia sonoro che visivo, funzionale all'evoluzione dei personaggi, al ritmo della storia, alla convulsione finale in un maelstrom emotivo duro e solido. Straziante, appassionante, affascinante, respingente: requiem di un sogno.
Antonio Pettierre
3. π - IL TEOREMA DEL DELIRIO (π, 1998)
Cervella
Aronofsky, come tra gli altri Soderbergh, ha messo al centro della propria filmografia la messa al lavoro del corpo. Questo è evidente in Requiem for a Dream, the Wrestler e il Cigno Nero, ma il vero colpo di genio è aver iniziato la filmografia con una parte del corpo spesso considerata astratta e non organica: il cervello, non a caso qui rappresentato in una bellissima scena come la palla di grasso e sangue che in effetti è. Ma il vantaggio del cervello è che - per ora - non se ne possono estrarre direttamente i segreti, e il protagonista oppone quindi una estrema resistenza a che le sue idee - nientepopodimeno la teoria del tutto che alla fine è il sogno di ogni fisico e matematico - siano espropriate e sfruttate da religione aziende o chiunque altro. Una combinazione perfetta di horror, idee e fotografia in bianco e nero come se Eraserhead e Tetsuo uomo macchina avessero avuto un figlio ossessionato dai numeri.
Alberto Mazzoni
2. IL CIGNO NERO (Black Swan, 2010)
Lo specchio oscuro
Doppio filmico di "The Wrestler" che, al momento del trionfo veneziano, appariva quasi come un corpo estraneo nella carriera di Darren Aronofsky, "Il cigno nero" conferma la mutazione del suo autore verso territori più mainstream che ne ancorano le ambizioni a obbiettivi più facilmente raggiungibili. "Black Swan" è un'opera-specchio, sfacciata nella sua vertigine visiva (in cui si intravede "Scarpette rosse" ovviamente, ma anche Cronenberg) e musicale, poiché lo spunto del balletto "Il lago dei cigni" di Čajkovskij sembra dato apposta per le martellanti variazioni di Clint Mansell che ne fanno un paranoico leitmotiv invasivo. Sono segni disseminati lungo tutto il film che aprono sulla superficie dello schermo gli abissi dell'anima di Nina (la stellare Natalie Portman), facendo della pellicola di Aronofsky non solo una ricognizione sull'ossessione per la perfezione artistica, ma un viscerale, pulsante sabba dionisiaco intorno a una crisi identitaria che esplode e termina non appena viene toccato l'apice estatico. Il corpo e la mente sono il primo palcoscenico di ogni spettacolo.
Giuseppe Gangi
Doppio sogno
La ricerca del successo, e la volontà di confermare l'identità del proprio cinema. Per realizzare "Il cigno nero", Darren Aronofsky sembra giocare con la parole, prendendo in prestito quelle del direttore artistico Thomas Leroy che, nel rivolgersi a Nina, etoile pavida e fragile, la sprona a lasciarsi andare, permettendo all'istinto e non alla tecnica, di guidarla nella ricerca della migliore performance. Che, per quanto riguarda Arnofosky viene raggiunta attraverso la messa a punto di un dispositivo che soddisfa il divismo hollywoodiano - non a caso per il ruolo di Nina la Portman si guadagna un Oscar - senza dimenticare la cupezza delle antiche nevrosi, destinate - come quasi sempre accade da queste parti - a implodere dentro l'universo psichico dei personaggi. Alla frammentazione dell'io, non corrisponde quella del montaggio, che racconta il suo doppelganger attraverso una continuità narrativa ragionata e lineare. Punto di svolta e campione d'incassi, "Il cigno nero" è Aronofsky come non si era mai visto.
Carlo Cerofolini
Superficiale: relativo alla superficie
Geniale e sopravvalutato al tempo stesso, Darren Aronofsky affascina per la spregiudicatezza con cui sa spingersi sempre all'estremo, oltre il rischio del ridicolo. Fin dal suo esordio ha definito una poetica, uno sguardo, assai sensibile alla superficie, al visuale, all'esteriore. "Il cigno nero" non fa eccezione. Nel dipingere il lento calvario della ballerina Nina verso il baratro della dissociazione psichica, l'autore inanella incubi, deliri e allucinazioni tra simbolismi privi di finezza e tòpoi da bignami della psicanalisi (sessualità repressa, madre castrante, il tema del doppio e la metafora dello specchio). Ma, come detto, Aronofsky è più interessato ai cambiamenti della superficie che agli smottamenti interiori. Per questo mostra tutto con crudezza e programmatica sfrontatezza: trucchi ed effetti speciali, sempre di vigoroso impatto, si moltiplicano incalzanti verso un finale di pura, eccezionale potenza visiva. La stessa trasformazione di Nina, del resto, avviene letteralmente a fior di pelle: paradossalmente, è un fatto fisico prima che psichico. Onore a Natalie Portman che, alla pari del wrestler Mickey Rourke, si carica il peso di ogni scena sulle esili spalle: un monumento alla fatica, allo sforzo, al tormento, al dolore.
Stefano Guerini Rocco
1. THE WRESTLER (2008)
Un film di carne
E' un film fatto di carne. La carne dei lottatori di wrestling, quella che il protagonista vende al supermercato, quella esibita dalla spogliarellista interpretata da Marisa Tomei. Carne disgraziata. Degradata o maciullata. Se uno strip bar è puro degrado, il protagonista non può vivere senza la spettacolarizzazione esibita dell'aggressività maschile più grottesca. Una donna percepisce la differenza di valore tra artificio e autenticità. Il personaggio di lei è versatile, vibrante, affascinante. E' madre, cui il wrestler ispira pietà, bisognoso com'è di qualcuno che si prenda cura di lui. Lei gliene offre, consapevole anche che non ne riceverà in cambio altrettanta. Ma le sirene del ring sono più forti. Quel gigante, come molti adulti, è rimasto bambino. E sceglie l'artificio.Dopo film dallo stile fortemente personale, e dopo l'insuccesso di "The fountain", Aronofsky vira su una narrativa classica al servizio dei personaggi, realizzando quello che, pur non essendo un capolavoro, è il suo film più solido. Poi si è perso. Si è perso dietro al citazionismo del Cigno nero, bluff autoriale derivativo, variazione sul tema di "Scarpette rosse" che combina in modo furbo (e implausibile) Polanski, Haneke e Cronenberg. Di altra pasta era "The wrestler", che regala a Mickey Rourke l'occasione per la sua interpretazione più intensa e sentita. Bellissima e struggente la canzone appositamente scritta da Bruce Springsteen.
Stefano Santoli
La vita senza filtro
Il "nuovo" Aronofsky che ci piace di più comincia probabilmente dall'incontro con Mickey Rourke, un corpo e una faccia che non hanno bisogno di molti artifici tecnici e visivi per essere reso di grande impatto. Non è un caso. La vita dissoluta dell'ex divo è materia prima da plasmare ideale per un regista propenso alla deformazione del reale: è già deformata di suo. Certo, il regista americano non rinuncia all'ossessiva camera a mano che segue di spalla il protagonista, alla fotografia sporca e a tinte sbiadite. Ma il senso più profondo dell'operazione è ben altro ed è questo che a suo tempo ci conquistò. Non è vero che di favole americane di caduta e redenzione ce ne sono tante così belle: qui c'è una naturalezza nel mettere in scena la vita che sommerge tutto quasi annichilente. La grandezza di Rourke è quella di mettersi nudo e indifeso davanti alla macchina da presa, la bravura di Aronofsky è quella di cogliere questo gesto di onestà e di non fare nulla per filtrarlo. Capolavoro.
Giancarlo Usai
La maturità di un lottatore
Basterebbe passare in rassegna le ultime edizioni della Mostra del cinema di Venezia per farsi un'idea di come, in pochi anni, la filmografia di Darren Aronofsky sia cresciuta di prestigio e maturazione: con ogni suo film in concorso, fino a vincere il Leone d'oro con "The Wrestler", per poi aprire la rassegna con "Il cigno nero" e arrivare a presiedere la giuria nel 2011 portando alla vittoria "Faust" di Aleksandr Sokurov. Con "The Wrestler" il regista di New York abbandona il suo lato più criptico e intellettuale, per lasciare spazio alla narrazione e alla recitazione, in questo caso un Mickey Rourke in stato di grazia. Non è solo l‘ennesimo racconto del loser americano, ma è uno spaccato del degrado della vita umana in cui i veri protagonisti sono i due corpi, quelli del lottatore e della spogliarellista, che mettono in mostra al pubblico le carni non più giovani in un percorso autodistruttivo. Senza lasciare da parte il suo stile segmentato e la cinepresa che tallona i personaggi da dietro, Aronosfsky raggiunge la maturità di un cineasta capace di coniugare autorialità con marketing. "Il cigno nero" continuerà in questa direzione, mentre "Noah" segna una caduta imperdonabile che chiede rapida vendetta.
Alessandro Corda
La seconda opportunità
Prima di intorbidire "Il lago dei cigni" Aronofsky si sperimenta in un mondo ancora meno battuto del balletto: il wrestling. L'idea vincente è la scelta del protagonista: the wrestler è Randy "The Ram" ovvero Mickey Rourke, "entrambi" martoriati dal tempo e da una serie di scelte sbagliate. Randy è un ex campione che si avvia all'oblio, a una solitudine da cui il corpo bistrattato non può tirarlo fuori. Tenta di rimettersi in gioco, di ricucire il rapporto con la figlia (Evan Rachel Wood) ma infine non basta neppure l'amore di Pam (Marisa Tomei) a distoglierlo dall'opportunità di essere ancora The Ram, pur a costo di rischiare la vita. Le riprese "di schiena" più volte utilizzate nel film sono una soggettiva del passato sull'uomo, del tempo che gli sta appresso come un'ombra macina presente. Privano del volto, lasciano immaginare, raccontano il vero. E tra le verità c'è anche un attore tra i più sottovalutati, impiegato così poco e così meno rispetto alle sue potenzialità. Non avevo mai visto nessuno a Venezia fumare sul tappeto rosso. Figuriamoci spengerci la sigaretta, con la sfrontata disinvoltura di un Leone d'Oro.
Lorenzo Taddei
Dal Vangelo secondo Darren
"Egli fu trafitto per i nostri peccati e schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per la nostra pace si è abbattuto su di lui, dalle sue lividure siamo stati sanati" (Isaia 53.5)
Storia di un martirio, quello di Randy Ramzinski (e Mickey Rourke), "The Wrestler" è un intruglio di carne, vomito, sangue e sesso, nel disegno di una disperata, quanto inutile, fuga da se stesso. Aronofsky ritorna alle origini de "Il teorema del delirio" (le sonorità disturbanti che colgono gli infarti di Randy e le emicranie del matematico Max Cohen) e ripropone il suo "Requiem for a Dream" per la crudezza al limite del rappresentabile (l'ostentazione della macchina da presa sulla carne maciullata). Permeato di molteplici simbolismi, la pellicola richiama a maggior voce la Passione di Cristo, non solo per la capigliatura e l'inequivocabile tatuaggio del protagonista, quanto per le indicibili sofferenze fisiche riportate nei combattimenti. Il ring come Via Crucis, le ferite al costato e alla fronte come uniche vie di salvezza e redenzione. Randy è l'incarnazione di un mito (quello reaganiano degli anni ottanta) sconfitto e selvaggiamente tumefatto, che rimpiange i fasti del passato ma che è costretto a prendere le distanze da esso, in un vortice di malinconia e disaffezione che non lascia scampo neanche al ruolo femminile che assume in questo film una condizione quasi ingombrante, se non addirittura pleonastica nei confronti del protagonista.
Matteo De Simei