Darren Aronofsky, uno dei più grandi talenti del cinema contemporaneo, si confronta con il tema dell’immortalità, uno dei più grandi sogni proibiti dell’uomo, presentando alla 63.ma mostra del cinema di Venezia "L’albero della vita". Un tema caldo e un regista che scotta, osannato nei festival di film indipendenti per i suoi precedenti lavori "π - Il teorema del dlirio" e "Requiem for a dream", riceve la più gelida delle accoglienze tanto dal pubblico che dalla critica per questa grande produzione costata 35 milioni di dollari.
Il peccato di Aronofsky è stato quello di presentare un lavoro intelligente, audace e difficile da leggere ad un ampio pubblico mediato da una produzione che pretendeva poco meno di un colosso da botteghino. Eppure "L’albero della vita" è un'opera estremamente interessante che a metà strada tra i primi due lavori del regista americano e i più recenti "The wrestler" e "Il cigno nero" rappresenta chiaramente una svolta nel suo percorso in direzione di un equilibrio espressivo e di una simmetria stilistica più maturi anche frenando una certa frenesia sperimentale che caratterizzava i lavori precedenti.
Hugh Jackman si fa in tre per interpretare Tommy, un ricercatore medico all’inseguimento di una miracolosa cura per il cancro che affligge la moglie Izzi (Rachel Weisz); Tomas, conquistador spagnolo protagonista della storia intitolata The fountain, scritta da Izzi; e Tom, alter ego spirituale di Tommy e Tomas collocato in una dimensione metafisica che trascende gli altri piani della storia. Alla fine dei conti la trama è semplice e lineare, solo che ci serve un po’ di tempo per rendercene conto. Qualche perplessità potrebbe rimanere sulla figura del Tom che fluttua chiuso in una bolla d’aria nel profondo dell’universo insieme ad un albero, almeno finché non realizziamo che questa è la vera e propria radice degli altri personaggi: una figura non solamente metafisica, ma anche metanarrativa che ripropone in chiave cosmica lo stesso dramma vissuto prima nella realtà e poi tra le righe di un romanzo.
Gli attori principali, Jackman e Weisz, danno una buona profondità emotiva con le loro interpretazioni, ma senza splendere mentre, invece, vero valore aggiunto per il film è l’apporto della colonna sonora di Clint Mansell, ancora una volta strabiliante nel suo oramai consolidato sodalizio con Aronofsky.
A ben vedere Aronofsky è un eccellente lettore della lezione cronenberghiana: lo sdoppiamento (qui addirittura la triplicazione) dell’identità e la mutazione/mutilazione/modificazione della carne sono tematiche fatte proprie dal regista newyorkese per dare linfa vitale a ciò che più gli interessa, ovvero l’anatomia ed il dramma di un'ossessione, in questo caso quella della sconfitta della morte, la quale diventa un pungolo che ci causa un dolore insopportabile ed inaccettabile quando la sua ombra si allunga verso una persona amata. Un'ossessione che ne "L’albero della vita" diventa il vero protagonista come l’ossessione è il motore che anima la paranoica ricerca matematica di Maximillian Cohen in "Pi", o assume la forma della dipendenza da droga in "Requiem for a dream", o che in "The wrestler" attanaglia Randy “The Ram” impedendogli di lasciarsi alle spalle una gloria oramai sfumata per vivere nel suo presente, sino infine a quell’ossessione per la perfezione che conduce Nina in un viaggio nel profondo della propria follia ne "Il cigno nero".
Un'ossessione e tre dimensioni per una medesima storia d’amore che raggiunge l’apice della propria parabola in una fusione panica di uomo e natura: quella rottura inseguita per tutto il film tra l’uomo e la sua condizione di mortalità giunge infine ad una riconciliazione, ma come sempre accade nei film di Aronofsky la quiete finale non è altro che la maschera di un profondo abisso.
cast:
Hugh Jackman, Rachel Weisz, Ellen Burstyn, Stephen McHattie, Mark Margolis, Fernando Hernandez, Sean Patrick Thomas
regia:
Darren Aronofsky
titolo originale:
The Fountain
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
96'
produzione:
Warner Bros., Regency Enterprises, Epsilon Motion Pictures, Protozoa Pictures
sceneggiatura:
Darren Aronofsky, Ari Handel
fotografia:
Matthew Libatique
scenografie:
Paul Hotte, Philippe Lord
montaggio:
Jay Rabinowitz
costumi:
Renée April
musiche:
Clint Mansell