A cinque anni da "Madre!", a quattordici da "The Wrestler", Darren Aronofsky torna dietro la macchina da presa per "The Whale", la storia di Charlie (Brendan Fraser), un insegnante solitario, uno sconfitto come Randy, affetto da una grave forma di obesità, che non esce mai di casa, tiene un corso online di scrittura accademica e ha abbandonato la figlia Ellie (Sadie Sink) a soli otto anni assieme alla madre, per amore di un suo studente, Alan, morto poi suicida, la causa, in qualche misura, del suo binge-eating compulsivo.
Somateca
D'accordo col Preciado di "Sono un Mostro che vi parla", l'adattamento di Aronofsky dell'omonima pièce teatrale di Samuel D. Hunter mette in scena il corpo come luogo di battaglia politica ed emotiva, una somateca, non un ritaglio arbitrario ma un correlato inscindibile, almeno per Charlie, che non vorrebbe ci fosse un Aldilà, meglio che Alan non veda come si è ridotto. Non lo vedono neanche gli studenti del corso online, non lo vede chi vive oltre le mura della sua casa, il fattorino che ogni sera lascia le pizze sulla panca davanti all'uscio. Sullo schermo – un po' depotenziata, anche per ovvie ragioni di salto semiologico – la riflessione (teatrale) sul corpo del testo di Hunter regge a fatica: il corpo non può essere solo un insieme fenotipicamente valido, la sua esistenza è carbonica. La geografia del primo piano, del dettaglio, è possessiva, claustrofobica, a livello spaziale e temporale, ricorda "Le sorelle Macaluso", ambientato interamente tra le mura di un appartamento all'ultimo piano a Palermo. Se Charlie è prigioniero di sé stesso o del suo corpo cambia poco. In quale senso siamo altro, se la morte è evento corporeo, se a chi resta manca la percezione sensoriale della nostra esistenza(?), che l'obesità disturba, altera, mette alla prova. Il cinema di Aronofsky ci prova dai tempi de "Il cigno nero"; in apertura, la scena della masturbazione lo dichiara.
Lo studio del corpo, però, si rivela la base dell'onnipresenza del trauma, onnicomprensivo appunto, due volte claustrofobico; Aronofsky è preoccupatissimo che il carico emotivo del film aumenti, esploda e sovrasti lo spettatore gradualmente. Un'impronta meno invasiva avrebbe forse restituito la leggerezza e l'autoironia della commedia teatrale, la morte non è più il rimosso, la decisione di lasciarsi andare non rappresenta uno spazio retorico, ma una scelta, i confini di un dramma, quello che Charlie ha accettato, forse, "non vuole essere salvato".
L'operazione di umanizzazione di Aronofsky sembra compiacersi di chi sa bypassare il corpo di Charlie, superare l'estensione della pelle e ritrovare l'intensione dell'uomo, una regola coercitiva, forzatissima, che già solo per la domanda che sottende fallisce: empatia o pietà? Il discorso metarappresentativo riguardo la "grassezza prostetica" fa il resto. Lo riassume, meglio di altri, l'attore e commediografo Guy Branum, impegnato nella lotta all'obesità, sostenendo che il film abbia trasformato il tema della grassezza in un'allegoria del dolore gay, e non solo: "Penso che sia uno strano tentativo di usare l'esistenza di qualcuno come me per far sentire meglio le persone che non sono come me su come non sono come me".
Randy "The ram"
Randy e Stephanie, Charlie ed Ellie, il contro-canto, scrive qualcuno, con cui Aronofsky ripropone il duetto padre-figlia di "The Wrestler": per carità, Fraser è da premiare, il sonoro allodiegetico che lo guida non sbaglia un colpo, il rapporto con Ellie preoccupa e assolve, ma come spesso accade, l'interpretazione non satura la messa in scena, e, sopratutto in un film come questo, in cui come detto il tema prostetico è cruciale, la domanda che Chang si fa sul "Los Angeles Times" è ineludibile: cosa vede la camera quando guarda Charlie?
Randy e Charlie sono più simili di quanto sembri; se uno combatte, l'altro ha combattuto, se Charlie ha perso il controllo del corpo, Randy lo perderà progressivamente. Quando Randy lotta anche se i medici hanno negato il consenso, Charlie si abbuffa, rifiuta le cure mediche. A entrambi basta una possibilità – la figlia – per riscattare la loro vita, ed entrambi, negata, si buttano dall'angolo del ring. "Aggrappiamoci all'amore" ha detto Aronofsky in conferenza stampa alla prima a Venezia, perché nella testa del regista "The Whale" è una favola – ecco Moby Dick -, la cui morfologia, però, è pretestuosa. Peccato, perché il grido d'aiuto di Charlie, "scrivete qualcosa di onesto cazzo", era la risposta a "cos'è importante?".
Aronofsky ci riprova, ma l'incantesimo di "The Wrestler" è lontanissimo, diluito, sotto i colpi di un registro ossessivamente terapeutico, prevedibile, schematizzato, i sintomi del trauma-topos che indica Parul Seghal nell'articolo diventato cult "The case against trauma plot". Il peccato originale di "The Whale" non è la presunta (giustificata) grassofobia, ma la trasformazione della fede in carità: un sacrificio spettacolarizzato, che non ha nulla di analitico (o realistico), se non l'alone didascalico di chi anzitutto vuole far piangere.
cast:
Samantha Morton, Hong Chau, Sadie Sink, Brendan Fraser
regia:
Darren Aronofsky
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
117'
produzione:
A24, Protozoa Pictures
sceneggiatura:
Samuel D. Hunter
fotografia:
Matthew Libatique
scenografie:
Mark Friedberg, Robert Pyzocha
montaggio:
Andrew Weisblum
costumi:
Danny Glicker
musiche:
Rob Simonsen
Charlie è un insegnante solitario, affetto da una grave forma di obesità. Negli ultimi giorni di vita che gli restano prova a riallicciare i rapporti con la famiglia che ha abbandonato.