Venezia 71 è alle porte. Che cosa ci si può aspettare dai film in concorso? Questo speciale parte da una possibile risposta al quesito, per poi intraprendere un viaggio nella storia della Mostra attraverso il ricordo dei film più amati, tra i vincitori, dai ogni redattore di Ondacinema
Nel 1951 arriva Akira Kurosawa e il mondo occidentale scopre il cinema orientale. Portato a Venezia contro la volontà dei produttori e all'insaputa del regista, "Rashomon" diviene un caso internazionale confermato dalla vittoria agli Oscar qualche mese dopo. Opera esemplificativa della cultura giapponese per i suoi contenuti all'interno di una forma ricercatissima e che rispecchiava il cinema classico occidentale. "Rashomon" mette in scena la morte di un samurai e dello stupro della futura moglie da parte di un brigante, narrato in flashback e con una struttura narrativa divisa in quattro parti, dove in soggettiva assistiamo alla confessione dei protagonisti: il brigante Tajomaru (Toshiro Mifune che da qui in poi diverrà l'attore giapponese più conosciuto nel mondo), la moglie, lo spirito del samurai evocato da una medium e un boscaiolo testimone dell'evento. Il tutto all'interno di una cornice ambientata, appunto, alla "porta di Rasho" diroccata e sotto una pioggia torrenziale. Kurosawa usa carrellate, primi piani, campi medi in un montaggio millimetrico, dove le immagini raggiungono picchi di bellezza este(a)tica per chi guarda. Apologo sulla menzogna e sulla rappresentazione dell'inganno, dove anche la visione è traditrice della verità dei fatti. Antonioni e Bergman rendono pubblici omaggi a questo capolavoro. (A.Pe.)
ORDET - LA PAROLA di Carl Theodor Dreyer (1955)
Nel 1955 la Mostra del Cinema di Venezia incorona il capolavoro "Ordet" del maestro Carl Theodor Dreyer. La pellicola segue da vicino la parabola della famiglia Borgen composta dal pater familias Morten e dai suoi tre figli maschi Mikkel, Johannes e Anders. La "parola" che dà il titolo al film è quella di Dio, attraverso la quale il regista danese espone il dubbio mistificatorio della religione che può dividere e ledere il libero arbitrio (il duello tra Morten e Peter, il primo ortodosso, il secondo cattolico), la follia di Johannes derivante dall'ossessione nel ricercare a tutti i costi le vie del Signore (Giovanna D'Arco docet) o ancora, la fede ormai smarrita del primogenito Mikkel. Seguendo la dottrina della "vita religiosa" propria dell'ideologia di Soren Kierkegaard, "Ordet" riflette sulla crisi esistenziale dell'uomo e sulla sua angoscia metafisica, sul mistero della morte e quello ancor più grande della fede e del miracolo. Il finale, uno dei più commoventi della storia del cinema, rappresenta la rinuncia definitiva del regista nel ricercare un confine che separi la vita dalla morte, l'incoronamento di uno slancio vitale straripante nei confronti del credo religioso, il più delle volte corroso dalla ragione e dallo scetticismo dilagante ma (ri)trovato grazie alla purezza e all'innocenza salvifica dei fanciulli portatrici di fede. Incredibile come da buon antesignano del genere horror, Dreyer riesca a tenere alta la tensione nonostante il ritmo lentissimo e gli altrettanto apatici movimenti della sua macchina da presa. Un capolavoro imprescindibile non solo tra i Leoni d'Oro a Venezia ma del cinema tutto. (M.D.S.)
LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli (1959)
Mario Monicelli è reduce da "I soliti ignoti", il film che ha rivoluzionato il genere della commedia, non solo italiana. Quel trattare in maniera umoristica un episodio drammatico, facendo pure morire violentemente un personaggio, nel contesto di un'ambientazione realistica, ha segnato una svolta irreversibile. Appena un anno dopo, con il pieno appoggio di un produttore, Dino De Laurentiis, qui particolarmente generoso, mette a tacere qualunque critico delle qualità cinematografiche della nuova "commedia all'italiana". "La grande guerra" è un grandioso affresco in chiave tragicomica del primo conflitto mondiale, dalla prospettiva di due italiani tipici provenienti da aree geografiche diverse: i fanti Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci (Vittorio Gassman e Alberto Sordi, immensi come non mai), sempre pronti a imboscarsi, ma capaci di morire da eroi. Splendide sequenze corali sullo sfondo degli altipiani alpini, momenti di spassionato divertimento, un finale da groppo in gola, riferimenti letterari, la sfida di rileggere la storia del paese in maniera inedita, opposta a quella ufficiale, rilettura però suffragata da accurate ricerche storiografiche: le polemiche non mancano, ma il pubblico accorre numeroso. La giuria di Venezia assegna un ex-aequo un po' ipocrita con il post-neorealista "Il generale della Rovere": non sia mai che la commedia venga presa troppo sul serio...(CZ)
CRONACA FAMILIARE di Valerio Zurlini (1962)
Tra i registi italiani più celebrati è raro che faccia capolino il nome di Valerio Zurlini, autore poco prolifico e discontinuo (solo undici titoli in quasi trent'anni), che è stato a lungo sottostimato e poi (quasi) dimenticato. Eppure, in un periodo in cui il cinema italiano era una eccellenza, Zurlini ottenne ex-aequo con un certo Andrej Tarkovskij il Leone d'Oro per la pregevole traduzione di un'opera di Vasco Pratolini, "Cronaca familiare". Il film racconta del rapporto difficile tra due fratelli cresciuti separatamente dopo la morte prematura della madre: Enrico allevato dalla nonna e Lorenzo affidato da un aristocratico locale al proprio maggiordomo e cresciuto quindi come un gentiluomo; il maggiore, interpretato con finezza da un magistrale Mastroianni, pur volendo bene al fratello più giovane (l'esordiente Perrin) non ne sopporta l'incapacità di barcamenarsi in un mondo di cui non sa affrontare le asperità. Filtrato dalla memoria del giornalista e scrittore Enrico, che ricorda fuori campo la vita sua e di Lorenzo, "Cronaca familiare" è una pellicola dalla malinconia sconfinata, che racconta una generazione di sconfitti anche grazie alla trama dei colori della fotografia umorale-autunnale di Giuseppe Rotunno. Da par suo, Zurlini studia i movimenti della macchina da presa per spazializzare i sentimenti dei propri personaggi, ritagliando bergmaniani primi piani e campi lunghi di incredibile suggestione emotiva. (G.G.)
LE MANI SULLA CITTÀ di Francesco Rosi (1963)
Una pellicola che denuncia le mostruose speculazioni edilizie nel nostro paese e mostra il sottile confine che separa capitalismo e crimine, moralità e illecito. E che traccia un inquietante parallelo tra politica dirigente e sfacelo del Paese. Che ai tempi del Mose e altri scandali nostrani potrebbe benissimo essere stata girata l'altro ieri, e invece è datata 1963 e porta la firma di un grandissimo regista come Francesco Rosi. Ritrovando il rigore formale e la passione civile dei capolavori del neorealismo, Rosi mette in scena un'opera di singolare potenza, sospesa tra fiction (il ruolo del protagonista è affidato a una star come Rod Steiger) e documentario d'inchiesta (per dare maggior concretezza ai personaggi sono coinvolte persone comuni residenti a Napoli, mentre il capogruppo della sinistra De Vita è interpretato dall'allora consigliere comunale del Pci Fermariello), in cui si cambia fazione politica in base al proprio tornaconto e dove "l'unico peccato mortale è quello di essere sconfitti". Un film cupo e necessario, come purtroppo non se ne fanno più, che fu accolto da una sconfinata serie di polemiche e restrizioni, che cercarono di bloccarne la diffusione (prima del trionfo col Leone d'oro a Venezia). (A.Po.)
DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni (1964)
Dopo una sinfonia di arpeggi elettronici, fiamme e stridi meccanici, una donna, avvolta da un elegante cappotto verde, i capelli un po' scarmigliati e lo sguardo smarrito, emerge dalla nebbia, mentre il figlioletto le cammina affianco. Operai scioperano davanti all'ingresso di una fabbrica. Affamata, si fa vendere da un uomo lì in sosta un panino già incominciato, lo offre al bambino, che rifiuta, e poi lo divora di nascosto, a piccoli bocconi, tra le sterpaglie nere e i fumi tossici della periferia ravennate. Con una limpidità e una forza espressiva sconvolgenti, questa sequenza d'apertura dimostra come, nello sguardo di Antonioni, coincidano affetto e distacco, tenerezza e rigore. La ricognizione dei patimenti silenziosi di una donna sola in un inferno industriale passa attraverso un repertorio di gesti apparentemente irrilevanti. Per codificare questa individualità complessa e sofferente, incarnata con grazia da Monica Vitti, il regista adopera il colore in modo soggettivo e innaturale, verniciando letteralmente alcune aree dello spazio profilmico. Le tinte plumbee e terragne della fotografia di Carlo Di Palma, su cui zampillano intermittenti rossi e gialli accesi, diventano il linguaggio della psiche. Così un ritratto femminile, sfuggente e sfaccettato come nessun'altro, si rivela il capolavoro "pittorico" di un ineguagliabile esteta della Settima arte. (V.L.)
LA BATTAGLIA DI ALGERI di Gillo Pontecorvo (1966)
Quando il neorealismo abbandona la matrice sociale per abbracciare quella militante e ribelle, si fa largo il cinema di Gillo Pontecorvo che mise in scena il moto di rivolta della Resistenza algerina contro il colonialismo francese. Il film, che quando fu presentato in anteprima a Venezia venne criticato per la sua partigianeria e per questo addirittura proibito in Francia per cinque lunghi anni, è invece un implacabile racconto di finzione dal piglio documentaristico. I partigiani algerini di Pontecorvo sono ritratti nella naturalezza delle loro azioni e nella durezza della loro condizione. Il confronto, poi, con il comandante francese (il compianto Jean Martin) è narrato al netto di eccessivo lirismo. "La battaglia di Algeri", saggio di maestria tecnica senza eguali, grazie alla fotografia del grande Marcello Gatti e alla colonna sonora evocativa di Ennio Morricone, è anche un mirabile esempio di cinema "della ricostruzione storica". Dietro gli eventi di fiction raccontati, ci fu un certosino lavoro di studio e immedesimazione nella città di Algeri. Non è un caso se ancora oggi gli algerini sono grati al maestro Pontecorvo per come seppe immortalare la bellezza eterna della loro capitale. (G.U.)
BELLA DI GIORNO di Luis Buñuel (1967)
"Belle de Jour fue quizás el mejor éxito comercial de mi vida, éxito que atribuyo a las putas de la película más que a mi trabajo." Luis Buñuel, "Mi ultimo suspiro"
Il regista torna sul tema della perversione sessuale e della sua trasfigurazione in immagini già affrontato con il pregevole "Él" (1953), aggiungendoci l'ingrediente chiave del senso di colpa cattolico. Singolare è il rapporto tra conscio e inconscio in questo film. Nella filmografia di Buñuel abbiamo tutta lo spettro che va dai film ancorati a modo loro alla realtà fino alle cavalcate libere nel visionario passando per le sequenze simboliche dell'ultimo periodo. Ciò che distingue "Bella di giorno" in questa filmografia è che le fantasie sessuali, realizzate o meno, ci conducono in territori che sono così separati dalla realtà quotidiana "ufficiale" da confinare di per sé col sogno. A parte un paio di sogni esplicitamente notturni la vicenda potrebbe essere completamente reale, nei limiti in cui questa parola ha senso al cinema, o completamente sognata, o qualsiasi via di mezzo. Quali degli incontri di Séverine si svolgono solo nella sua mente? Il cinese col carillon, il conte necrofilo, potrebbero benissimo esistere veramente, perché no? Non lo sappiamo, non c'è soluzione di continuità tra il reale e il sognato. "Bella di giorno" mostra come il sesso sia uno dei modi per vedere accamparsi di gitto come s'un schermo alberi case e colli, per l'inganno consueto. (A.M.)
GLORIA - UNA NOTTE D'ESTATE di John Cassavetes (1980)
Il più indipendente dei registi, John Cassavetes, nel 1980 mette in tasca il Leone d'Oro (ex aequo con "Atlantic City") con un film che per qualche addetto ai lavori è il simbolo della compromissione dell'autore alle leggi dello spettacolo. In connubio con la moglie Gena Rowlands, a dare carne e tempra alla protagonista, "Gloria - Una notte d'estate" rivela, ancorché dopo "Minnie e Moskowitz" "Una moglie" "L'assassinio di un allibratore cinese", la caratura di un regista mosso dall'ossequio della propria personalità e della messa in discussione dei canoni imposti (dall'industria cinematografica e non). La protagonista, un'ex showgirl, si ritroverà a far da gangster per difendere dai membri di una organizzazione malavitosa un bambino affidatole; tutto mentre una New York malata quanto basta riceve il dipanarsi degli eventi. Il plot è serrato e dà il meglio di sé, però, quando si affida al tormentato e insolito personaggio in mano a Gena Rowlands anziché al genere. A dimostrazione del fatto che non c'è gradazione di violenza che possa surclassare il maledettismo iconico dell'attrice. (F.D.)
PRENOM CARMEN di Jean-Luc Godard (1983)
Per il centenario della Carmen di Bizet ben quattro maestri del cinema si cimentano con la storia della più seducente, anaffettiva e mortale mantide dell'arte occidentale. Se i film di Carlos Saura e Francesco Rosi (e in parte quello di Brook) si attengono al libretto, Godard lo utilizza come pretesto per puntellare il suo nuovo corso morale (la descrizione di un mondo piatto e insieme barocco, disperato e burlesque) e il suo consueto crogiuolo di citazioni, riletture, commistioni e interpolazioni col sistema delle arti, dall'improvvisazione di un videoclip sulle note di "Ruby's Arms" di Tom Waits alle pose plastiche della Carmen (la misconosciuta Maruskha Detmers) ispirate alla scultura di Rodin per arrivare alle pièce di Giradoux, ai film di Murnau, Carné e Bunuel, ai romanzi di Erman Broch. Se il Godard della Nouvelle Vague rendeva fisico l'intertesto (quadri, scritte, copertine, affiche) quello degli ‘80 lo fa irrompere nella diegesi, organico, impossibile da estromettere e realizzazione del "Museo immaginario" pensato da Andrè Malraux. (P.C.)
ARRIVEDERCI RAGAZZI di Luis Malle (1987)
Sette anni dopo "Atlantic City", Louis Malle vince un altro Leone d'Oro con uno di quei pochi film che proiettati nelle scuole non lascerebbero un sapore stucchevole e retorico. Rielaborando una propria esperienza d'infanzia, il regista francese racconta l'amicizia tra due ragazzini in un collegio cattolico durante la Seconda Guerra Mondiale, uno di loro proviene da una famiglia ebrea e viene nascosto dai religiosi. Recupera alcuni temi del suo cinema, come il rapporto con la madre, e la figura del giovane delatore che ricorda Lacombe Lucien. Lascia da parte virtuosismi o eccessi che in alcune fasi hanno caratterizzato (anche negativamente) la sua filmografia, per uno stile sobrio e tradizionale, una narrazione semplice su un rapporto che non conosce differenze, ma che vive della competizione, prima, e della condivisione dell'arte e dei libri, poi. Film sincero e onesto sul ricordo e per il ricordo, che, come dice Malle, raggiunge il suo scopo: "È solo quando la memoria viene filtrata dall'immaginazione, che i film arrivano realmente nel profondo dell'anima". (D.D.L.)
ROSENCRATZ E GUILDENSTERN SONO MORTI di Tom Stoppard (1990)
Parlando di un teatrino di marionette, l'Anselmo Paleari de "Il fu Mattia Pascal" chiosava che se si facesse uno squarcio nel cielo di carta nel momento in cui Oreste sta per vendicare la morte del padre, subito l'eroe si trasformerebbe in Amleto. Preso alla lettera il consiglio, l'esordiente Tom Stoppard adatta per lo schermo un suo atto unico degli anni '60 e sforacchia le quinte del dramma di Elsinore, spezzando la continuità della narrazione per entrare e uscire a piacimento dalla tragedia. Eleva al ruolo di protagonisti una coppia di personaggi secondari del capolavoro shakespeariano e, memore delle scenette di Laurel e Hardy, imbastisce un cerebrale gioco di rimandi che non teme di ibridare Beckett e slapstick, fisica aristotelica e metateatro, commedia elegante e sport filosofici. Gravati da un implacabile destino letterario, Rosencrantz e Guildestern divengono le vittime di un gioco al massacro, di cui cercano disperatamente di afferrare il senso, frugando ai margini di uno spazio che è reale e testuale, sbirciando gli avvenimenti da un pirandelliano "buco nel cielo di carta". Tra i momenti più alti l'incipit con la moneta che restituisce sempre testa e la rappresentazione teatrale che moltiplica i livelli di realtà in un vertiginoso gioco di specchi. A Venezia non furono in pochi a storcere il naso, ma per chi scrive si tratta di un brillante esercizio critico, riscattato, nei pochi cedimenti intellettualistici, dallo svagato gigionismo di due interpreti istrionici. (M.P.)
AMERICA OGGI di Robert Altman (1993)
Dopo un decennio all'insegna di produzioni prevalentemente piccole, all'inizio dei 90, dopo il successo di "I protagonisti", con "America oggi" Altman prosegue la composizione del suo libro di storia sulla civiltà americana moderna. A differenza di altre sue opere corali, i personaggi non si muovono attorno ad uno specifico evento ma si limitano a vivere una quotidianità sfaccettata più nelle apparenze che nella sostanza. La voce è tenuta bassa come nelle minimali pagine di Raymond Carver: Altman si ispira a nove racconti più una poesia dello scrittore, tutti spostati dalle originali Seattle e Portland a Los Angeles, e uniti qua e là da fugaci ma significativi raccordi. Vero che gli elicotteri che disinfestano la città e che aprono il film suggeriscono che il regista approccia questo universo come un entomologo ma con il trascorrere del tempo - naturalmente ammirevole la capacità di tenere in pugno una narrazione di oltre tre ore - la sostanza dell'insieme si fa sempre più densa, la cronaca di un collasso annunciato sempre più lacerante e potente, come sottolinea la scossa di terremoto che chiude il film ma non il grande romanzo di un cineasta inimitabile che ci regala un film cardine del cinema statunitense contemporaneo. (D.C.)
TRE COLORI - FILM BLU di Krzysztof Kieslowski (1993)
Quando, nel 1993, Krzysztof Kieslowski si presenta a Venezia con "Film Blu", è un regista famoso, con la sorpresa suscitata dal "Decalogo", sostituita da un consenso in forte aumento. Un plauso, che però non restringe gli orizzonti del suo sguardo. "Film Blu" è infatti la prima parte di una trilogia che prende spunto dai colori della bandiera francese, con gli ideali di "Libertè, Egalitè, Fraternitè", rappresentati da altrettanti film. Un filo rosso, che il regista polacco utilizza come punto di partenza di una prospettiva che si apre alla complessità dell'esistenza umana. "Film Blu" ne è la riprova, con il lutto di Julie, sopravissuta all'incidente stradale in cui sono morti il marito e la figlioletta, che si trasforma nel percorso di liberazione dal dolore di quella perdita ma anche nella possibile scoperta delle "vite degli altri". Alle prese con un pubblico europeo e mondiale, il cinema di Kieslowski si mostra più malleabile dal punto di vista formale, con una confezione asciutta ed elegante, affidata alla musica di Z. Preisner, e alla riconoscibilità di un'attrice, Juliette Binoche, incaricata di rappresentare il caleidoscopio emotivo del viaggio esistenziale. A rimanere inalterata è la ricerca di senso, che il regista propizia con una mistica del quotidiano rivolta all'ineffabile. Capolavoro. (C.C.)
IL SEGRETO DI VERA DRAKE di Mike Leigh (2004)
Nel 2004 la giuria presieduta da John Boorman premia "Il segreto di Vera Drake", dodicesima regia di Mike Leigh. Questo film conferma Leigh come uno dei più importanti esponenti del realismo inglese, capace di raccontare, in questo caso, le ferite dell'Inghilterra del dopo guerra. Il regista rimane coerente con la sua visione della società, raccontando il microcosmo di una famiglia proletaria che fa i conti con il lavoro, le speranze, le invidie. Ogni componente ha un ruolo ben preciso, tranne la madre (Imelda Staunton, premio Coppa Volpi) che dietro al perbenismo di una perfetta donna di casa cova un segreto: pratica aborti clandestini. La cinepresa segue la meticolosità e la ripetitività dei gesti di questa donna senza dare giudizi. Quando salterà fuori il segreto, salteranno anche le convenzioni e le ipocrisie creando un cortocircuito nelle responsabilità di tutti. Una lucida riflessione sulla moralità delle proprie azioni e le ipocrisie della società. (A.C.)
SOMEWHERE di Sofia Coppola (2010)
Leone controverso, sollevò qualche polemica e malcontento. In verità, pregiudizi a parte, il malinteso che grava sul destino di "Somewhere" è quello di sempre: si possono filmare il vuoto e la noia, senza risultare a propria volta vuoti e noiosi? La Coppola mette in scena la parabola di Johnny Marco, divetto hollywoodiano dispotico e viziato che il candore disarmante della figlioletta Cleo riscatta da un'esistenza apatica di ozio e privilegio. Siamo, ancora una volta, nelle terre dei non luoghi e del non detto. Ma con "Somewhere" la Coppola rivendica una nuova sincerità, una maggiore immediatezza. Procedendo per accumulo di episodi, avvalendosi di inquadrature fisse dai tempi lunghissimi, talvolta veri pianisequenza, aprendo parentesi e concedendo pause, l'autrice tesse un racconto che sembra un flusso di coscienza, una finestra aperta sulla vita di Johnny Marco: la pellicola si lascia guardare come il protagonista si lascia vivere. In questo senso, dunque, la forza del film, così esile e rarefatto, risiede proprio nella sua poetica imperfezione, che lo rende autentico e toccante. C'è poi, in secondo piano, un'istantanea del berciante mondo dello showbiz, con contorno di donne eccessive (troppo bionde, troppo truccate, troppo scollate), paparazzi, lap dance e persino un'incursione nell'italianissima serata dei Telegatti. Un piccolo, crudele saggio sulla tv sguaiata, triviale e populista del Bel Paese. Ma questa è un'altra storia. (S.G.R.)