"Lost in Translation 2" viene da pensare guardando il nuovo film di Sofia Coppola. "Somewhere" è l'ennesima variazione sul tema della solitudine e dello spaesamento (ma non doveva essere una trilogia negli intenti originari?) a cui da sempre ci ha abituati la talentuosa, ma discontinua, figlia del grande Francis Ford. Una star del cinema annoiata e vagamente depressa che vive nel lusso (soggiorna da tempo indeterminato all'interno del
Chateau Marmont, uno dei più sfarzosi hotel di Los Angeles, rinomato per essere frequentato da top model e stelle del cinema) circondata dai vizi più deliranti (la lap dance a domicilio), senza nessun vero legame con il mondo esterno (a parte dei misteriosi sms che lo apostrofano "stronzo"). Un periodo di tempo trascorso, forzatamente, accanto alla figlia undicenne (Elle Fanning, sorella di Dakota) gli fa aprire gli occhi, e assaporare un po' di vita vera. Qualcosa è cambiato. Forse.
Il
plot di "Somewhere" è tutto qua, ed è più o meno lo stesso di "
Lost in Translation" o "
Marie Antoinette", e il cinema della Coppola rischia davvero la tautologia e di avvolgersi su sé stesso. Qui, più che nelle precedenti prove, sfugge il senso dell'operazione: forse la regista vuole dirci che anche i ricchi hanno un'anima e si sentono soli? Davvero, non riusciamo ad afferrare le ragioni profonde dello
spleen del protagonista Johnny Marco (Stephen Dorrf). Ha una vita che molti invidierebbero: gira in Ferrari, trascorre le notti con donne bellissime, recita accanto a mostri sacri come Al Pacino, ma si sente "insignificante". E saremmo anche disposti ad accettarlo, ad identificarci con Johnny (in fondo il meccanismo è lo stesso di "Lost in Translation", benché lì lo spaesamento del protagonista fosse amplificato, e in parte giustificato, dall'ambientazione in Giappone) se non fosse che la Coppola non va mai in profondità, e la pellicola non ha una vera e propria progressione narrativa, ma procede invece per bozzetti più o meno riusciti. La chiacchierata sequenza ambientata in Italia (benché massacrata dal doppiaggio), con Johnny che deve ritirare un "Telegatto", è difatti una gustosa stoccata alla tv del biscione (pare uscita da "
Videocracy"), con la Ventura che pronuncia battute cretine e la Marini che mostra le cosce alla star incredula. Ci sono anche altri bei momenti in questo "Somewhere", come quando il protagonista, in mano ai maghi del make up, trova davanti allo specchio la propria immagine da anziano, trasformata dal passare degli anni, ma ancora triste e incerta.
Da un lato è ammirevole come la giovane regista continui a sperimentare e a cercare forme più consone al suo cinema, optando qui per un maggior realismo, che guarda al cinema di Vincent Gallo e Van Sant (il direttore della fotografia è lo stesso degli ultimi film del regista di "Elephant", il grande Harris Savides, che impressiona utilizzando solo luci naturali e affidandosi a lunghi, estenuanti, piani sequenza che "pedinano" la Ferrari del protagonista nei suoi viaggi senza meta) e rinunciando ad alcuni dei suoi cliché, come l'insistenza su musiche modaiole e anacronistiche (l'unico brano che ha una funzione extradiegetica è "
I'll Try Anything Once" degli
Strokes, delicata versione demo del singolo "You Only Live Once", mentre la colonna sonora originale dei
Phoenix si limita ad aprire e chiudere la pellicola). A mancare al quarto film della bella Sofia, almeno così ci è parso, è la maturità, il saper raccontare qualcosa di nuovo e davvero necessario, di saper costruire personaggi "veri" e non proiezioni parapsicologiche della propria personalità, di non limitarsi a graffiare in superficie.
Rimandata alla prossima prova, quindi. Anche se al quinto giro la pazienza rischia seriamente di esaurirsi.