Dopo il passaggio del suo ultimo corto "Nuit Americhèn" al Rome Independent Film Festival (RIFF), incontriamo Federico Greco, regista e sceneggiatore
Dopo il passaggio al Rome Independent Film Festival (RIFF) del suo ultimo corto "Nuit Americhèn", incontriamo Federico Greco, regista e sceneggiatore con all'attivo documentari ("Stanley and Us"), lungometraggi ("Il mistero di Lovecraft - Road to L."), corti ("Liver") e programmi televisivi ("Masters of Magic"). Ne scaturisce una interessante chiacchierata su horror e film di genere, nuove frontiere digitali, Kubrick, mockumentary, fumetti, cinema italiano e molto altro.
Partiamo dal tuo ultimo film, il corto "Nuit Americhèn", che mescola horror e ironia fin dal titolo (rielaborazione maccheronica del capolavoro di Truffaut "La nuit américaine"). Volevo chiederti com'è nato questo progetto e se ti ha stupito il fatto che, finalmente, il MiBACT abbia finanziato un horror seppur atipico come questo.
In effetti è molto strano che il Ministero per i Beni Culturali premi degli horror. In questo caso si è trovato di fronte a una specie di ufo, perché era un horror sì, ma con attori mainstream. L'horror in Italia viene generalmente considerato di serie B, mentre qui c'erano attori di serie A ed è probabile che questo abbia influenzato la decisione. Credo che poi abbiano tenuto conto dell'originalità della proposta e che abbiano ravvisato un interesse culturale nazionale anche in questa parodia del sistema cinematografico italiano. "Nuit Americhèn" racconta infatti la crisi del cinema horror, ma anche, più in generale, la crisi del cinema italiano: siamo tutti costretti a fare le nozze coi fichi secchi, in ogni ambito.
L'hai pensato fin dall'inizio come un corto o c'era la possibilità di farne un lungometraggio?
"Nuit Americhèn" doveva essere uno dei cinque episodi di un lungometraggio, ognuno dei quali scritto e diretto da un regista diverso. Era l'idea originaria di Domiziano Delvaux Cristopharo, un regista italiano molto prolifico. Visto che facevamo fatica a trovare i soldi per partire, abbiamo deciso tutti insieme di presentare il mio progetto al Ministero, che, con nostra grande sorpresa, ha concesso il finanziamento.
Il film è molto divertente anche per via di una serie di rimandi cinefili. Il più palese è quello a "Kill Bill" di Tarantino, e gli attori ironizzano proprio sulla necessità di dover omaggiare qualcuno che in realtà si è appropriato della nostra tradizione cinematografica. Solo esterofilia o c'è dell'altro?
Oggi la tecnologia è diventata molto accessibile, sia a livello economico che di utilizzo, così chi fa horror è molto giovane e arriva al cinema molto prima di quando ci si arrivava una volta. L'immaginario di riferimento di questa giovane generazione, quindi, è quello degli ultimi 20-30 anni, un periodo in cui la cinematografia di derivazione tarantiniana è stata molto ricca, mentre l'horror italiano, di fatto, non è esistito. Invece registi horror italiani indipendenti della mia generazione hanno un altro immaginario e i loro film sono meno incentrati sullo splatter e più sulla storia e sull'introspezione psicologica. Sto pensando, ad esempio, all'ultimo film di Lorenzo Bianchini, "Oltre il guado", che in qualche modo è stato sdoganato, perché è stato uno dei pochissimi film horror a essere accettati negli ultimi anni in un festival "mainstream" come quello di Taormina. Però i nostri film viaggiano tantissimo in festival internazionali anche grossi, per esempio Sitges, Bruxelles o il coreano Puchon. Alcuni di questi vengono distribuiti in America, perfino da registi come Sam Raimi. Ci sono film indipendenti che sono costati anche 20-30mila euro, lungometraggi che sono stati venduti all'estero in 40 paesi, anche se magari solo in home video e senza passare dalle sale.
Del resto, nei confronti del film di genere in Italia c'è sempre stata molta puzza sotto il naso: anche Dario Argento per molto tempo è stato ritenuto un regista minore.
Sì, infatti. C'è questo aneddoto che spiega molte cose... Un po' di tempo fa, verso gli anni 80, l'ambasciata inglese voleva fare una grande retrospettiva su Sergio Leone. Ma l'Istituto di cultura e il ministero italiani risposero: "Ma perché proprio Sergio Leone? Facciamo Fellini, Antonioni, Visconti...". Ma gli inglesi rimasero irremovibili: "Noi veramente vogliamo Sergio Leone". Poi si sono tutti accorti che non era un semplice regista che faceva film di sparatorie. Comunque questo non significa necessariamente che verso l'horror ci sia un misunderstanding, anche perché è vero che l'horror italiano al momento non produce solo film interessanti...
In effetti se ne vedono di bruttini, senza fare nomi (ma uno lo faccio: "Tulpa").
Però è anche vero che dall'altra parte c'è una presunzione di inconsapevolezza, cioè si presume che quel genere lì venga realizzato in maniera inconsapevole, che non ci possano essere storie, personaggi interessanti, approfondimenti... In alcuni casi, invece, le storie ci sono, anche se vengono raccontate da una prospettiva diversa rispetto a quella a cui siamo abituati.
Il web però sta diventando un buon veicolo per la rinascita dell'horror, come abbiamo visto anche in un recente focus su "Leggo". Pensi che la Rete possa aiutare il cinema a rialzarsi, grazie a nuovi fondi e nuovi strumenti per arrivare al pubblico, saltando così le famigerate "difficoltà di distribuzione" sui cui ironizzi in "Nuit Americhèn"?
In Italia, in questo momento, la Rete direttamente non può farcela. È di pochi giorni fa la notizia che Netflix, il grande distributore online americano, ha verificato che non può venire nel nostro paese, perché la banda non è sufficientemente potente.
E questo già la dice lunga sulla nostra arretratezza digitale...
Già. Però è anche vero che la Rete può essere un ottimo veicolo promozionale, è diventato molto comune promuovere i propri film attraverso video virali, o con un certo tipo di promozione alternativa, il cosiddetto "marketing non convenzionale". E la Rete può essere molto utile anche con il crowdfunding, il finanziamento dal basso: si mette un teaser, un video, un trailer con una pagina dentro siti ad hoc e si chiedono soldi alla gente. In Spagna, dove il meccanismo funziona molto più che in Italia, si può arrivare a incassare fino a 50mila euro per ogni corto, in Italia un po' meno, ma forse piano piano arriveremo anche a quello.
In "Nuit Americhèn" si allude autoironicamente a un altro tuo horror, stavolta un lungometraggio sotto forma di mockumentary, ovvero "Il mistero di Lovecraft - Road to L.". Un progetto in cui erano coinvolti anche Carlo Lucarelli, Roberto Herlitzka e Valentina Lodovini e in cui si ipotizza un possibile legame tra la letteratura horror di Lovecraft e gli oscuri racconti del Delta del Po. Come ti è venuta quell'idea?
Io ero appassionatissimo di Lovecraft, l'avevo letto tanto da bambino e poi l'ho ripreso da adulto, verso il 2001-2002. Con Roberto Leggio costruimmo la nostra amicizia proprio su Lovecraft, scoprendo di avere questa passione in comune. Siamo anche appassionati di misteri italiani, non necessariamente "alla Lucarelli", e siccome Roberto è originario del Polesine, in Veneto, dopo un anno di scrittura ci rendemmo conto che c'erano davvero tantissime similitudini tra tutta l'opera di Lovecraft - le atmosfere, i luoghi, gli esseri fantastici... - e le tradizioni orali del Polesine, quelle narrate nei "Racconti del Filò". Volevamo fare molta paura, nello stile di Lovecraft, e ci piaceva l'idea di valorizzare quella realtà culturale veneta che sta scomparendo. Decidemmo così di farne un "mockumentary", cioè di dare la sensazione al pubblico che si trattasse di un documentario, ma in realtà era tutto scritto e recitato, anche se diverse cose poi in realtà sono vere, spesso proprio a dispetto delle apparenze. Quando gioco con gli spettatori a farle indovinare, me ne nominano sempre altre.
"Il mistero di Lovecraft - Road to L."ha vinto anche dei premi importanti e nel 2005 ha avuto una trasposizione a fumetti nella collana di Martin Mystère: ecco, anche il rapporto tra cinema e fumetti, che invece è ancora fortissimo nell'ultima produzione americana, in Italia che fine ha fatto?
Forse anche rispetto alla Francia siamo indietro da questo punto di vista. Secondo me, in Italia il destino del fumetto è lo stesso del cinema di genere, è associato a qualcosa di troppo popolare, di bassa cultura. In paesi come la Francia è considerato letteratura e non c'è bisogno di chiamarlo "graphic novel" per dargli dignità.
"Graphic novel" suona più chic.
Sì, ricordo ancora un'intervista di qualche tempo fa a Gipi sull'Unità in cui chiamavano la sua ultima opera una "graphic novel" e lui replicava: "No, è un fumetto!". Insomma, il fumetto è solo un'altra espressione artistica, l'importante sono i contenuti, il linguaggio.
E pensare che proprio sui fumetti Hollywood sta costruendo la cinematografia-kolossal degli ultimi due decenni...
Esatto! E qui invece un horror associato al fumetto raddoppia addirittura la sua connotazione "di serie B", viene visto ancora più con sospetto.
Parlando ancora di horror, secondo te quali sono i movimenti più interessanti dell'ultimo periodo? Ti piace ad esempio il filone gotico spagnolo di Amenábar, Balagueró, Plaza, oppure quello coreano?
È difficile categorizzare. In generale dell'horror mi piace solo l'aspetto fantastico, la capacità di raccontare la realtà facendo un lungo giro fantastico nella irrealtà. Quindi per esempio tutto ciò che è splatter in genere lo evito, perché lo trovo gratuito, non aiuta a raccontare personaggi, salvo rare eccezioni. Ho fatto anche un piccolo corto, passato anch'esso al Noir in Festival, che era una specie di torture-porn, ovvero non un "porno" ma un film in cui l'elemento principale è la violenza gratuita su qualcuno: in quel caso, però, prendevo spunto da una vicenda reale, il protagonista era infatti un folle serial killer inglese, che mangiava il fegato delle sue vittime. Per me, insomma, l'horror è sempre un pretesto per raccontare le profondità abissali dell'animo umano, anche per questo amo Lovecraft. In generale, preferisco un horror alla "Shining", in cui si vede molto poco la violenza ed è tutto dentro le dinamiche psicologiche dei personaggi. Le cose più belle che vedo in circolazione oggi sono gli horror indipendenti americani, produzioni che comunque costano almeno un milione di dollari, ma che non essendo ancora "mainstream" e assoggettate all'industria hollywoodiana, possono permettersi riflessioni di un certo tipo. Tendenzialmente non mi piace l'horror americano che arriva in Italia con le grandi distribuzioni da listino. Ci sono casi particolari tipo la saga di "Paranormal Activity", anche se dopo il primo episodio si vede che è diventato già industria, una catena di montaggio... Della produzione coreana mi piacciono molto "Oldboy" e la Trilogia della Vendetta.
E il filone del mockumentary-horror alla "The Blair Witch Project"?
Quello mi ha colpito molto e devo dire che è mi stato di stimolo per fare il mio mockumentary "Road To L.". Per quanto se ne possa dire, è stata una grandissima svolta e ha permesso a questo genere di diventare mainstream, da "Rec" a "Cloverfield". Perfino un regista di grandi capolavori miliardari come Barry Levinson ha fatto l'anno scorso un mockumentary a basso costo, "The Bay". In generale, comunque, sono attratto in modo trasversale da tutti quei film che raccontano, attraverso l'horror, storie interessanti, senza cadere nei soliti cliché gratuiti del genere. Insomma, se è un film fatto soltanto per i fan dell'horror che vogliono vedere le teste che volano, non mi interessa, tant'è che "Nuit Americhèn" prende in giro anche quel tipo di cinema, come quando Diana (Regina Orioli) dice a Fausto: "In questa scena c'è un clown mannaro che è resuscitato, noi l'abbiamo già ammazzato, io non c'ho capito niente...". Ecco, non credo di esagerare dicendo che la maggior parte dei registi, anche americani, tendono a fare cose di quel tipo.
Nella tua produzione c'è anche il docu-film su Kubrick "Stanley and Us". Kubrick è un personaggio inafferrabile e indecifrabile per definizione, come sei riuscito ad avvicinarti al suo universo?
Tutto nacque nel 1997 con Stefano Landini e Mauro Di Flaviano, miei colleghi con i quali ho stretto un'amicizia eterna proprio grazie a questo lavoro. Eravamo tutti ossessionati dal cinema di Kubrick e dal mistero che c'era dietro, e decidemmo che l'unico modo per avvicinarsi a lui era inventarci un documentario. Siamo riusciti a ottenere l'interesse di Enzo Sallustro di RaiSat Cinema, presentandogli un po' di materiale che avevamo girato a Londra, vendendoci il servizio buono dei nostri genitori... e così abbiamo capito che quella era una strada. In due anni di lavoro, dal 1997 al 1999, abbiamo intervistato circa 48 persone tra attori, parenti, amici, collaboratori e critici che operavano nel cinema kubrickiano, e ci siamo resi conto che, anche se lui restava inavvicinabile, i suoi collaboratori invece volevano parlare. Forse anche perché erano abituati alla stampa inglese che è tendenzialmente gossipara e faceva domande tipo "è vero che Kubrick annaffia il giardino con l'elicottero?". Quando invece hanno cominciato a sentire le nostre domande, basate solo su una curiosità cinematografica, hanno iniziato a parlare volentieri ed è iniziato addirittura un passaparola divertente. Ad esempio, lo scenografo premio Oscar di "Barry Lyndon" ha chiamato il direttore della fotografia di "Eyes Wide Shut" per dirgli: "Questi ragazzi sono straordinari, fategli fare l'intervista". Insomma, alla fine delle riprese di "Eyes Wide Shut" erano alcuni di loro a chiederci di farsi intervistare.
Siete quindi riusciti a raccontare Kubrick attraverso i suoi collaboratori...
Sì, ma la cosa per noi drammatica è che siamo stati a un passo dal raggiungere Kubrick stesso. Avevamo chiesto l'intervista tramite uno dei suoi migliori amici, che era il direttore marketing della Warner Bros di Londra. Ci rispose diversi mesi dopo, con classico humour inglese: "Ok, Mr. Kubrick è intenzionato a farsi intervistare, chiede gentilmente se gli consentite però di finire il montaggio di ‘Eyes Wide Shut'".
Montaggio interminabile per definizione...
Già, ma la cosa incredibile è che ha finito il montaggio del film il 4 marzo del 1999 e il 7 marzo è morto. Quindi siamo rimasti spiazzati e doppiamente amareggiati.
Già il fatto di aver ottenuto la sua disponibilità era stato un successo, però.
Sì, ma negli ultimi mesi era un po' cambiato il suo atteggiamento, era un po' meno inaccessibile. Poi, dopo la sua morte, è come se si fosse aperta una diga, la famiglia ha dato accesso a tutto, comprese cose riservatissime. In realtà lui non era una persona morbosa o malata, come in tanti l'avevano dipinto. Era solo una persona estremamente concentrata sul suo lavoro e nient'altro, molto attenta alla sua privacy: un padre di famiglia che doveva proteggere le sue tre figlie, la moglie e tutto il suo entourage. Abbiamo anche scoperto che a St. Albans, il paesino nei dintorni di Londra in cui abitava, nessuno sapeva che vivesse lì. Eppure aveva questa enorme villa dalla quale coordinava tutto quello che faceva.
C'è invece un progetto che non hai mai realizzato e ti piacerebbe portare a termine e magari un attore o un'attrice che sogni di portare su quel set?
Sì, ho scritto tempo fa un lungometraggio che si chiama "Relax, said the night man", che in realtà è una delle ultime strofe della canzone degli Eagles "Hotel California", una canzone straordinaria, con un'armonia e una melodia molto positive, in maggiore, e un testo che invece è un horror. Si tratta di un film ambientato in Calabria, che è però un thriller psicologico internazionale, il cui protagonista è un messicano, e io ci ho sempre visto Javier Bardem.
Sarebbe perfetto! E che tipo di storia è?
Una storia di perdita della propria identità e di trasformazione psicologica. Un po' sulla falsariga di "Arancia meccanica". Lo Stato, tentando di trasformare un efferato criminale in una persona innocua, da reinserire nella società, in realtà, fa l'opposto e trasforma una persona innocua in un efferato criminale, che poi diventerà un serial-killer... Sullo sfondo c'è la macchinazione di una grande multinazionale gestita in Calabria e ovviamente in connubio con la ‘ndrangheta.
L'ultima domanda che volevo farti è sul cinema italiano. Secondo te, l'Oscar a "La Grande Bellezza" riflette un momento di ritrovata vivacità creativa, oppure è solo un caso isolato?
No, la seconda che hai detto! Non sto dicendo che "La Grande Bellezza" non sia un buon film, anzi, credo che sia un film che resterà. Però credo che l'approdo alla vittoria degli Oscar sia il risultato dell'incastro di diversi elementi e non un fatto che rispecchi la situazione del cinema italiano. Ci sono altre cinematografie che stanno producendo ben altri film, non solo a livello qualitativo, ma anche quantitativo. Ad esempio, la Danimarca, il Belgio, la Corea... Credo che il cinema italiano adesso sia molto in difficoltà perché qualche anno fa ha scoperto che al botteghino funziona molto bene la commediaccia, che non è più neanche quella scollacciata di una volta con Edwige Fenech, ma qualcosa di insulso... È quasi come se gli autori fossero costretti dai produttori a fare commedie da botteghino, e non ne vengono fuori film come il francese "Quasi amici", ma pellicole innocue. E credo proprio che l'innocuità sia purtroppo la chiave del cinema italiano di oggi. Anche i tentativi di fare analisi politiche risultano spesso innocui. Il cinema per poter essere visto deve essere universale, deve puntare su storie che superino i confini, e le storie del cinema italiano non superano i confini, a meno che non si parli sempre degli stessi tre temi.
Ad esempio, Roma, la Bellezza...
...e la mafia! Se vai a ben vedere, i grandi successi all'estero del cinema italiano ruotano attorno a queste cose. Anche se poi escono fuori film come "Gomorra" di Garrone che ho trovato bellissimo. Però un film belga, danese, coreano o americano non deve per forza parlare di gangster per possedere un'empatia universale, posso anche raccontare la storia di una persona che schiaccia una formica se riesco a farla diventare universale.
Beh, allora ti auguro di riuscire a fare il film con Javier Bardem e spero che continuerai a seguire OndaCinema.
Sì, vi conosco, e sono in qualche modo un "collega", infatti prima di fare il regista ho scritto anche di cinema per alcuni giornali.