Premessa n°1: il film in questione è difficilmente analizzabile senza far riferimento al cortometraggio pseudo-documentaristico “H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia”, realizzato l’anno precedente dal duo di registi e che è facilmente trovabile su YouTube qualora lo si volesse cercare (come “Road to L.”, per la cronaca). Da un punto di vista teorico è un vero e proprio paratesto del presunto documentario sul presunto viaggio di HPL in Italia, di cui va inteso come estensione, per quanto sia più articolato e ben più noto.
Premessa n°2: i due film vanno inseriti all’interno del tentativo portato avanti dai registi, da Sebastiano Fusco, da Gianfranco de Turris e da Alfredo Castelli di creare la leggenda del viaggio nel Vecchio mondo di Lovecraft e darle verosimiglianza. Hanno fatto parte di questo interessante progetto transmediale, di cui i Wu Ming hanno compiuto un’affascinante ricostruzione, non priva della consueta polemicità, anche un fumetto ispirato al film qui analizzato, interventi ad alcune convention lovecraftiane e vari articoli, oltre al presunto diario/lettera che certificherebbe la veridicità del viaggio. Fra tutte le componenti dell’operazione quella probabilmente più interessante è il documentario.
Premessa n°3: non si può che constatare la frequenza con cui l’opus lovecraftiano fa capolino nel panorama horror italiano, ricorrendo non meno che in cinematografie come quella statunitense. Greco, Zuccon, Bianchini, ma anche in primis il precursore Mariano Baino, sono tutti autori influenzati in maniera esplicita dall’immaginario dello scrittore di Providence e dei suoi temi di mutazione, isolamento e decostruzione della capacità di comprensione e narrazione. Queste pellicole paiono anche in qualche modo interiorizzare i tratti stessi della letteratura marginale di Lovecraft: cinema a bassissimo budget, dall’ambientazione rigorosamente provinciale, facenti spesso a meno dei meccanismi identificativi presenti, per quanto spogliati di efficacia, nell’horror.
Dopo l’avanguardia mainstream di “Blair Witch Project” e prima della definitiva consacrazione commerciale del genere con “Pananormal Activity”, “Il mistero di Lovecraft” si pone come un mockumentary horror ben poco originale, se non in rapporto al già citato cortometraggio, proponendo, forse in maniera involontaria, una sorta di mise en abyme della decostruzione delle capacità di rappresentazione del reale che sono implicite nel genere. All’uso di tutti gli infingimenti documentaristici per connotare come verosimile ciò che non può esserlo, qui si accompagnano simultaneamente l’esasperazione di questo tentativo di contestualizzazione realistica, tramite la creazione di un backstage fittizio che è la componente centrale del film, e la demistificazione di questa in virtù della fedele adesione ai cliché del genere orrorifico da parte del suddetto mezzo di realisticizzazione. “Road to L.” si pone ai limiti del genere ma non si capisce se lo faccia per incrementare le sue possibilità di essere efficace, aderendo quindi appieno ai meccanismi dell’horror, oppure se intenda fungere da commento alle debolezze concettuali del mockumentary, tentativo di ricostruire la realtà di ciò che non è reale con un mezzo che solo un ingenuo può considerare effettivamente realistico.
A livello tematico questa ibridazione fra “Blair Witch Project”, la beffa di Angelo Froglia e “La casa dalle finestre che ridono” (il cui setting è confinante, dall’altra sponda del delta del Po) offre notevoli spunti di riflessione, come spesso simili iniziative post-moderniste tendono a fare. Analizzato come prodotto audiovisivo “Il mistero di Lovecraft” non ha invece molte frecce nella sua faretra, pur potendo contare su una cura estetica, soprattutto a livello d’ambientazione e illuminazione, che sopravanza la maggior parte degli esponenti del genere, al netto dei mezzi visibilmente limitati anche per l’epoca. Merito dei due registi (uno dei quali quasi costantemente in scena come operatore, permanenza dell’autorialità dove questa dovrebbe dissolversi nella realtà esibita) è probabilmente quello di rendere gli attori quasi sempre verosimili nei propri ruoli, evitando l’overacting che solitamente affossa la credibilità di questo genere di mockumentary. Principale eccezione è il prefinale, che si potrebbe quasi dire sia una parodia della categoria filmica, per come è costruito, tendendo a un crescendo di tragedia e rivelazione che poi si dissolve in nulla.
Al riguardo si può pensare che Greco&Leggio abbiano voluto restare fedeli a Lovecraft anche nel momento in cui l’orrore finalmente si manifesta ed è, anche in virtù del budget ridotto e del ricorso stereotipico alla shaky cam, inintelligibile, una macchia di colore dalle forme impossibili, la cui vaga alterità basta a confermare i peggiori timori di tutti i presenti e a rispettare lo stile descrittivo molto suggestivo dello scrittore statunitense. Forse deludente per molti fan dell’horror il finale del film è probabilmente la parte più riuscita, limitata nell’efficacia dal montaggio statico cui il contesto l’ha costretta, ma non per questo priva di forza evocativa (anche grazie alle accurate scelte musicali), con una conclusione improvvisa che pare produrre un cortocircuito logico con “Ipotesi di un viaggio in Italia”. Di “Road to L.” colpisce la costante apertura, frutto della dipendenza del film dai vari paratesti del progetto transmediale di cui fa parte e che riecheggia quella del documentario di cui è un’estensione (una divagazione, verrebbe da dire), come se non volesse disvelare la finzionalità dell’ipotesi del viaggio di Lovecraft, in apparente contraddizione con la rimarcata adesione ai cliché del cinema di genere.
Più che un viaggio verso Loreo, il paese rodigino che sarebbe custode dei segreti del tour italiano dello scrittore, “Il mistero di Lovecraft” è un viaggio verso di lui, verso l’immaginario che ha creato in 20 anni di incessante attività e che è alla base della maggior parte della sci-fi e dell’horror contemporanei. Più che un finto documentario su Lovecraft si dovrebbe parlare di un doppio documentario sull’immaginario lovecraftiano e sulla trappola rappresentativa che si rivela per quasi tutti coloro che ardiscono metterci mano, restando ingabbiati in artigli molto più vischiosi di quelli d’uno sfocato uomo-anfibio alieno.
cast:
Roberto David Purvis, Federico Greco, Simonetta Solder, Fausto Maria Sciarappa, Valentina Lodovini, Carlo Lucarelli, Gianni Sparapan
regia:
Roberto Leggio, Federico Greco
durata:
86'
produzione:
Digital Desk, Minerva Production Group
sceneggiatura:
Federico Greco, Roberto Leggio, Igor Maltagliati
fotografia:
Fabrizio La Palombara
scenografie:
Roberto Papi
montaggio:
Fulvio Molena
costumi:
Laura Matiz
musiche:
Giorgio Baldi, Riccardo Giagni