Forte delle nomea fattasi tra gli appassionati del genere e di un (esiguo) supporto della regione Friuli-Venezia Giulia Bianchini torna nei territori già esplorati in "Radice quadrata di tre" e soprattutto nel mediometraggio licantropico "I dincj de lune" ma con una rinnovata ambizione, in quest'occasione meno concettuale e più produttiva. La decuplicazione del budget permette al regista friulano di espandere la componente thriller e di ricerca, concretizzandosi in una sceneggiatura più articolata e matura, per quanto ancora molto debitrice dell'immaginario del giallo all'italiana, di cui è facile considerare "Custodes Bestiae" uno dei migliori tentativi di modernizzazione, assieme al quasi coevo "Il mistero di Lovecraft - Road to L." di Federico Greco. Tratto comune fra le due pellicole è anche il riferirsi al corpus del Solitario di Providence, pur in maniera mai esplicita nel caso del film di Bianchini, il quale riecheggia in tutto l'ultimo terzo, così come nella tematica della degradazione celata nella/dalla provincia, "The Shadow over Innsmouth".
Sebbene le suggestive immagini del finale (girate nel paesino carnico di Còmeglians con notevole padronanza dei limiti col buio del digitale a basso budget) appaiano come una citazione quasi diretta del racconto dello scrittore americano non si deve sopravvalutare l'influenza della produzione di quest'ultimo sul film del 2004, dato che le tematiche di matrice lovecraftiana albergano da decenni nel cinema thriller internazionale ed hanno avuto nello specifico italiano anni 70 una delle più chiare e al contempo interessanti applicazioni. Da qui si arriva al secondo, onnipresente, riferimento di "Custodes Bestiae", e ancor più dei discorsi della critica riguardo ad esso: "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati. I due film sono difatti uniti dall'investigazione tra giallo classico e horror attorno ad un misterioso affresco e dalla centralità del paesaggio e della cultura provinciali nell'economia delle opere, di cui Avati ne fa un uso sicuramente più interessante e perturbante, laddove Bianchini si limita ad utilizzarli per creare, ancora, geografie e Storie esclusivamente filmiche, più similmente all'altro horror avatiano del periodo, "Zeder", la cui narrativa criptica e la fascinazione per il buio e la notte lo avvicinano al film di Bianchini più dell'altra pellicola del regista emiliano.
Una tale verbosità per analizzare riferimenti e matrici culturali potrebbe sembrare sminuente l'opus n°2 del regista friulano ma in realtà, secondo chi scrive, è il modo migliore per rapportarsi con la creatura (le creature) di Bianchini, film sempre fortemente derivativo(i) e che dimostra(no) il proprio valore nella misura in cui riesce(ono) a rielaborare con intelligenza e una relativa originalità gli ingombranti modelli. Si pensi alla suggestioni folk horror inserite nella forma di flashback provenienti da un passato remoto e, così come in "Radice quadrata di tre", intervallanti la narrazione con una certa frequenza, stavolta però mai soffocante, e permettenti così al cineasta udinese di importare (non senza imperfezioni e innecessità) un paradigma narrativo e visivo differente da quello usuale, concretizzandosi nella dilatazione narrativa (le tragedie, simultanee, del prete e della ragazza) e visiva (i campi lunghi abbondano, grazie anche alle ambientazioni rustiche). Tali variazioni, tipiche del succitato sottogenere e ben distanti dalla concisione narrativa e dall'ossessione per i dettagli del cinema di Bianchini e dei suoi riferimenti abituali, non risultano però incoerenti col corpo della pellicola e dimostrano la capacità rielaborativa del regista (che pure darà il meglio al riguardo con "Across the River") e la conseguita maturazione, dopo l'ambizioso quanto irresoluto primo film.
Secondo alcuni questa evidente padronanza del medium finirebbe alla lunga per palesare le carenze principali della pellicola (ops) in questione e del cinema del friulano in generale, ovvero la banalità/semplicità delle storie narrate (signori, benvenuti nell'horror), il citazionismo mai celato, l'uso superfluamente quasi sperimentale delle potenzialità del montaggio non lineare (zoom in postproduzione, ralenti, accelerazioni e sovrapposizioni abbondano anche in questo film) e, ovviamente, la povertà produttiva. Pur essendo difficile negare che maggiori finanziamenti avrebbero impedito di far recitare la vicina di casa e di dover rendere molte sequenze notturne con la completa (eppure efficace) oscurità, questo focus sull'entità del budget si dimostra, oggi ancor più che allora, segno di una considerevole superficialità critica, a fronte di una gestione del filmico da parte di Bianchini ancor più encomiabile rispetto all'opera precedente (rimangono alcune scelte innegabilmente dozzinali come i rapidi frame onirici, all'inizio efficaci ma poi davvero estenuanti, e i passaggi al b/n che delimitano le digressioni). D'altronde, come insegna la quête del giornalista Max Londero (l'ottimo Pividore), ineluttabile per il continuo specchiarsi in essa di simili ricerche compiute nel passato, è necessario, per approfondire qualcosa, andare sempre più a fondo, dai soleggiati colli nei pressi di Udine alle profondità dei cunicoli sotto una misteriosa pieve, dall'evidenza di un servizio giornalistico all'indefinitezza di un'antica leggenda di montagna. Ciò che pare un'essenzialità determinata dalla povertà dei mezzi e dalle limitate capacità dell'autore è in realtà la precisa scelta dell'archetipicità della narrazione orrorifica e del suo immaginario, un guado che, prima o poi, chiunque ha a che fare col cinema di Bianchini deve attraversare.
cast:
Massimiliano Pividore, Alex Nazzi, Giorgio Merlino, Gianni Nistri, Giorgio Basile, Mauro Rijavec, Mara Carpi, Maurizio della Rossa
regia:
Lorenzo Bianchini
distribuzione:
Centro Espressioni Cinematografiche
durata:
92'
produzione:
Argento Vivo
sceneggiatura:
Lorenzo Bianchini
fotografia:
Ivan Scialino
scenografie:
Alex Nazzi
montaggio:
Lorenzo Bianchini
musiche:
Giulio Venier