Intervistiamo Massimo D'Orzi, il regista del documentario "Bosnia Express", che racconta il suo punto di vista sui Balcani e sulla rappresentazione della guerra
La prima opera di Massimo D’Orzi, regista di origini toscane, risale al 2004: "Adisa o la storia di mille anni". Si tratta di un docufilm girato tra le comunità rom della Bosnia Erzegovina. Nel 2010 realizza il documentario "Ombre di luce". Dalla collaborazione con Paola Traverso nasce "Ribelli!". Nel 2012 esce in sala il suo primo lungometraggio di finzione: "Sàmara". "Tempo imperfetto" è invece il suo primo romanzo. Tra il 2016 e il 2020, con il sostegno di MIBACT, Europa Creativa, Luce e Rai Com, vede la luce la sua opera più importante: "Bosnia Express". Attualmente, con la collaborazione di Massimiliano Nardulli, il regista è impegnato nella realizzazione di "Mirages", incentrato sulle realtà transfrontaliere italo-francesi.
Come quando nasce il tuo interesse per i Balcani?
É stato per caso (!) che mi sono ritrovato in Bosnia, nel cuore dei Balcani. Era l’autunno del 1996. La guerra era appena finita. Io studiavo all’università di Roma e di ritorno a casa in Toscana, seppi che un uomo buono, un volontario, cercava qualcuno che lo aiutasse a portare cibo e vestiti in Bosnia e a riportare donne e bambini in Italia per curarsi. Non ci dormii la notte e all’alba salii sul furgone e nel giro di 36 ore giungemmo a Mostar, via Spalato. Sul traghetto da Ancona a Spalato, orde di pellegrini si recavano a Medjugorje come ad una nuova crociata per salvare l’Europa dal rischio islamico… l’idea (non tanto inconscia) che traspariva dalle loro preghiere era quella di sterminarli tutti o di fare della Bosnia una riserva indiana!! A Mostar trovai una città distrutta, un cumulo di macerie, la notte si sprofondava in un lungo medioevo, ma nei canti, negli abbracci delle donne sentivi che c’era vita, nonostante che ad alcune, molte, la vita fosse stata tolta, strappata con violenza. In particolare ricordo gli occhi di Ana che non si chiudevano più. Le avevano tolto il sonno e il sogno… così è nato il mio rapporto con i Balcani…
Quali film e quali libri ti hanno avvicinato ai Balcani?
Alcuni film di Emir Kusturica fino a "Gatto nero Gatto bianco", Theodoros Angelopoulos, con "Lo sguardo di Ulisse", "Il volo" ma anche "Ricostruzione di un delitto", e poi i film di Jasmila Zbanic; "Il segreto di Esma", "Il sentiero", e "No Man’s Land" di Danis Tanovic, che conobbi a "Fare Cinema" a Bobbio, mentre montava il film con Francesca Calvelli. Be’, per i libri la lista è lunga: dal "Ponte sulla Drina" di Ivo Andric a "Maschere per un massacro" di Paolo Rumiz, "Noi, criminali di guerra" di Giuseppe Zaccaria, "Come se io non ci fossi" di Slavenka Drakulic, alcuni libri sui campi di concentramento e gli stupri usciti già nel 1993, per dire che le cose erano note a tutti fin dall’inizio: "L’attentato di Sarajevo" di Georges Perec, "La guerra in casa" di Luca Rastello, "La figlia" di Clara Uson, le poesie di Izet Sarajlic, e così via. E ovviamente i libri di Luca Leone, in particolare "Bosnia Express"…
Cosa pensi di "Lo sguardo di Ulisse" di Angelopoulos e della sua conclusione?
Angelopuolos è un grande artista, un maestro. Lo sguardo di Ulisse è un film di un uomo visionario, che ha la sensibilità di cogliere l’invisibile dietro l’apparenza delle cose reali, i fatti. Nei Balcani, ma non solo, se non hai questa sensibilità non vai da nessuna parte. Ci sono molte cose geniali in quel film (girato mentre quella parte d’Europa era in fiamme): l’idea di ritrovare uno sguardo originale, nuovo con cui guardare al mondo e ai Balcani, l’idea che quelle aree conservino un mistero, un segreto che è vitale scoprire e conoscere, per il bene non solo di quei territori ma dell’Europa e del mondo intero. “In un dialogo fra Angelopuolos e il proiezionista si dice: “C’è qualcosa di perduto, uno sguardo che tenta di uscire dall’oscurità. Una specie di nascita. Lei non ha il diritto di imprigionare quello sguardo, la guerra, la follia, la morte, a maggior ragione, non hanno il diritto…”. Ecco una spiegazione alla guerra in Bosnia! Che cosa volevano impedire? E perché le donne? Sono domande che hanno risuonato nella mia testa a lungo! Insomma un genio. Kusturica non ci arriva neanche lontanamente ad un pensiero del genere, nonostante i suoi lazzi e i suoi fuochi d’artificio. E ci dice un sacco di cose rispetto a cosa è successo nei Balcani, qual era il sogno che si doveva distruggere… Bosnia Express segue questo filo quando il suo autore a distanza di più di venti anni si rimette in cammino per riattraversarli… lo fa nello spirito di Angelopoulos in un certo senso… quel senso anticipato magistralmente dalle scene iniziali con quegli stormi di pellegrini, come corvi neri che annunciano morte e distruzione, pregano e cantano con le fiaccole in mano…Noi non vediamo cosa rivelano le tre bobine misteriose, sappiamo che avvicinarsi a quel segreto costa la morte!! Il viaggio di Bosnia Express racconta di un uomo che ha attraversato la morte per salvare un volto di donna deturpato dalla guerra e dalla violenza di uomini neri e barbuti sintetizzati nella favola che apre il film con la storia dello Zar dei serpenti! Zar appunto, parola che di questi tempi fa un certo effetto pronunciare!
Rispetto al libro di Luca Leone in che cosa nel tuo film sei rimasto più vicino al testo e in che cosa invece hai scelto di allontanarti?
Il libro di Luca è un pugno nello stomaco. Una denuncia, il testo di un uomo che non si arrende di fronte al perpetuarsi della violenza e delle ingiustizie nei confronti di quella terra e di quel popolo. Il film però fin dall’inizio dichiara una scelta di campo molto diversa: dice che per raccontare la Bosnia e i Balcani la denuncia non è sufficiente, serve il linguaggio, la metafora, penetrare il senso nascosto delle cose, l’invisibile… alla Michelangelo Antonioni. Togliere i veli alla realtà, cercare il vero! In Bosnia la visione frontale non funziona… serve creare un linguaggio che entri in sintonia profonda con quella sensibilità, quella cultura, quella umanità!! In più la scelta di indagare il rapporto fra donne e religioni, cercare mandanti e assassini, oltre quelli condannati dall’Aja. E tutto questo usando il linguaggio cinematografico, le immagini, perché questo è il mio lavoro…
Nel tuo film hai preso una scelta di campo piuttosto netta: parlare della guerra rinunciando al racconto delle distruzioni e alle immagini di morte, preferendo invece soffermarti sulle ferite interiori, quelle più difficili da dimenticare…
É la lezione di Angelopoulos ma anche dei russi, di Antonioni, Luis Bunuel…Stanley Kubrick. L’idea del fuori campo, far comparire l’invisibile nella mente dello spettatore mentre apparentemente sta guardando tutt’altro. La violenza manifesta è bandita dal mio film, quella pornografia da tg, l’anestesia che procurano le immagini di morte e di sofferenza, quella compassione indotta che annichilisce il pensiero e la reazione di chi ascolta, guarda un film… Non voglio indurre pietà nello spettatore, ma emozione vera, toccare la sensibilità, giungere al pensiero, perché lì è l’anticamera della reazione e della rivolta… Le immagini e i reportage di guerra trattati in un quel modo risultano infine false, inverosimili, manipolabili, pur nella loro riproduzione fedele. Perché? Un film, "Warshoots", che vidi qualche anno fa a Venezia, trattava il tema attraverso la storia di un fotoreporter che giungeva a montare la sua Leika su un Kalashnikov strappato ad un cecchino per cui premendo il grilletto uccideva e fotografava - l’istantanea della morte servita all’ora di cena ai tg e i giornali di tutto il mondo. In inglese to shoot significa sparare e filmare.
In Bosnia Express accade l’esatto opposto: l’azione, l’immagine genera vita, non morte. Questo è ciò che colpisce di più del mio film.
Se devo pensare ad un film, che fra l’altro è stato citato nelle critiche a Bosnia Express, parlerei di "Hiroshima mon amour" (di Alain Resnais) per l’idea di un’umanità che non ha perduto la potenza dell’amore, della vitalità, della creatività, ciò che distingue gli esseri umani dalle bestie disumane!! Una frase di un critico a proposito di Hiroshima mon amour suona più o meno così: “Nel trasformare il ricordo in memoria, la donna si libera di quell’incantesimo e ricomincia a vivere”. Frase che sposerei in pieno. Aggiungendo che la memoria è un atto creativo, il ricordo un fatto meccanico”. In Bosnia si vogliono lasciare le donne incollate ai ricordi, in Bosnia Express si cerca il segreto per trasformarli in memoria per liberarsene. Liberarsi dal senso di colpa che lega la vittima al suo assassino a vita, come racconta splendidamente Liliana Cavani nel suo "Portiere di notte" e la Drakulic in Come se io non ci fossi. Un’utopia, forse, ma il cinema è un’utopia.
Da qualche tempo il confine piuttosto netto tra cinema di finzione e documentario va sfumando verso forme più ibride, si potrebbero citare "Collectiv" di Alexander Nanau o "Donbass" di Sergei Loznitsa. Cosa pensi di questo fenomeno e di questi film?
É vero! Ma non è una questione di questi ultimi tempi. Il cinema contiene questo dilemma dalla sua origine, fra chi lo voleva specchio della realtà e chi si è posto da subito il problema del linguaggio. Se è arte serve un linguaggio. Gli Anni venti in Unione Sovietica, in Germania e non solo, raccontano di un laboratorio stupefacente di idee e invenzioni molte delle quali ancora incomprese. Non sono molto interessato alla querelle fra documentario e finzione, al limite la questione è fra un cinema che cerca un linguaggio e coloro che si limitano a riprodurre realisticamente la vita così com’è! Se c’è un linguaggio, un punto di vista, un’originalità c’è cinema, altrimenti non c’è! Questo vale sia per i film di finzione che per i documentari. La differenza, casomai, sta fra un cinema che usa lo strumento per raccontare storie e coloro che si spingono più in là, rappresentando anche un modo di pensare, un’idea nuova, originale. Quando vedi un film non recepisci solo la trama, la storia raccontata, ma anche il pensiero di chi la racconta. Penso che il punto, la differenza, stia proprio qui. Ci sono autori che seguono la realtà e altri che la anticipano, la creano, la modificano. Non esiste un rapporto fra regista e realtà in cui non avviene qualcosa che modifichi l’uno o l’altra. É in questa chiave che va visto il cinema, più che in tutte le altre arti. Se alla fine di un mio film io sono lo stesso di quando l’ho iniziato, vuol dire che ho fallito l’impresa.
Il tuo Bosnia Express è essenzialmente un film di montaggio, ci puoi raccontare qualche aneddoto che aiuti a capire le difficoltà ma anche il fascino insito in questo aspetto della post-produzione?
Il montaggio è il momento in cui il pensiero per immagini prende forma, non solo la storia, ma i possibili nessi, i legami. In montaggio non si tratta di mettere insieme i tasselli di un puzzle, ma di realizzare nessi inaspettati, trovare combinazioni latenti, scoprire possibilità che in fase di scrittura e riprese non sospettavi e immaginavi. Il montaggio di Bosnia Express realizzato con la montatrice Paola Traverso è stato molto complesso perché non era chiaro fino in fondo che cosa stessi cercando con questo film, qual era il punto cieco: le religioni, il comunismo, i Balcani, il viaggio, l’intolleranza… la ricostruzione di un delitto, gli assassini di donne!! Sono andato a tentoni a lungo in cerca del percorso giusto, in attesa che prendesse forma. Poi mi sono reso conto che le linee erano dietro di me, dentro di me, erano quel viaggio a zig zag che stavo facendo, quel vagare apparentemente senza meta, che al contrario aveva una solidità e una forma “umana e cinematografica”. Erano quei ripensamenti il motore di tutto: mettersi a nudo era il massimo di onestà con cui potevo presentarmi allo spettatore, all’opposto di quei pittori che cambiano la posizione della mano o ruotano il volto di un personaggio e poi lo mascherano sotto pennellate di colore successivo. Io lo dovevo mostrare, non nascondere. In questo modo potevo mettere in scena un pensiero che cerca, che si allontana dai luoghi comuni, dalle regole predefinite, che dice ciò che scopre e realizza nel momento stesso in cui ciò avviene. Il montaggio inventa il film, la parte scritta e quella filmata tentano una sintesi su un piano diverso. Il linguaggio appunto. Ecco perché non sono interessato al cinema del reale, perché la realtà di per sé non ha immagini; ciò che avviene fra regista e personaggio crea qualcosa di nuovo, che è esclusivo del rapporto e del momento, dove si mette in gioco la creatività, l’intelligenza, la sensibilità di entrambi. Le persone/personaggi che vedete sullo schermo sono vere, non semplicemente reali, perché le cose e le persone possono essere reali ma false e non comunicare alcunché. Il cinema deve produrre immagini, inventare forme e modelli, questo è il suo compito. Non limitarsi a riprodurre. Non siamo scanner del reale.
Qual è secondo uno che ha il polso dell'opinione pubblica il rapporto tra immagine e parola oggi? Intendo, cosa pensi della sudditanza della seconda nei confronti della prima?
Il cinema è essenzialmente linguaggio delle immagini. Mi commuovo sempre quando leggo le reazioni di Charlie Chaplin, di Sergeij Eizestein e molti altri all’avvento del sonoro. I miei film precedenti sono essenzialmente film di immagini, credono nel potere e nella capacità delle immagini di esprimere pensiero, linguaggio, come quei primitivi che nelle grotte si esprimevano semplicemente con linee e colori. Tuttavia più tardi ho scoperto la parola, una parola che vive non nella forma letteraria, ma pulsa come immagine acustica, come un cuneo che poteva provocare ulteriori immagini rispetto a quelle che lo spettatore vedeva sullo schermo. La parola nel mio film ha rappresentato l’ossatura e le immagini sembrano avvitarsi intorno come in una spirale. Il problema della parola nel cinema è cardinale nel senso che, se ci pensiamo bene, la parola nella storia dell’uomo è arrivata più tardi rispetto alle immagini. I bambini prima disegnano e poi scrivono. Tuttavia nel cinema il primo passo è scrivere e poi tradurre in immagini. É un grosso vincolo. Talvolta una prigione. Che cosa deve avere la parola affinché le immagini non nascano morte o siano semplicemente la traduzione di un pensiero scritto? Noi con Word-Frame (workshop internazionale creato con Massimiliano Nardulli e supportato da TSFM e dal suo direttore Enrico Vannucci) lavoriamo molto su questa fase iniziale, lo sviluppo e la struttura di un’idea per il cinema.
Sei stato più volte nei Balcani; a tuo giudizio c'è qualcosa che noi italiani non capiamo a fondo di questi Popoli, nella fattispecie la Bosnia, e qualcosa che viceversa loro non capiscono di noi?
Non penso sia una questione esclusivamente italiana, ma europea, forse occidentale. Quei luoghi sono stati storicamente un crocevia di culture - bizantina, slava, ottomana... I Balcani sono sempre stati tirati da Oriente e Occidente, da Bisanzio a Roma, da Istanbul a Mosca, dal liberismo al comunismo. Anche l’attuale guerra in Ucraina risente di tutto questo…più di quanto immaginiamo. Un tempo da Trieste partiva il Vicino Oriente, e l’oriente fin dai tempi della Grecia classica era il non razionale, il mondo primitivo e selvaggio, i barbari, coloro che non parlavano la lingua, non condividevano la cultura. Per noi uomini razionali ciò che non è razionale è il male, il non umano. Il nostro approccio ai Balcani risente di tutto questo. Nello specifico la Bosnia era ed è un paese prevalentemente musulmano nel cuore d’Europa. Sarajevo è sempre stata una città tollerante… quando nel Cinquecento i mori e gli ebrei fuggivano cacciati dagli stati cristiani, essi trovavano rifugio a Sarajevo. Come scrissi in un articolo su "Left" la Bosnia è il frutto di tre eresie: quella del Duecento, i Bogomili, la successiva conversione all’Islam nel XVII secolo, e l’eresia di Tito quando disse no a Mosca nel 1948 e avviò una terza via con i paesi non allineati…
Nel cinema italiano odierno quali autori ti piacciono maggiormente e perché?
Non si tratta di apprezzare o meno il lavoro dell’uno o dell’altro. Ci sono molti buoni professionisti, il cinema italiano non è inferiore ad altre cinematografie europee. Quello che mi appare evidente è la mancanza di ricerca sul linguaggio cinematografico e sull’immagine femminile, la rappresentazione della donna. Penso che il linguaggio delle immagini e la ricerca sul femminile siano inscindibili: ce lo raccontano i pittori nella storia dell’arte, da Leonardo a Picasso e Matisse, ce lo raccontano Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini, Carl T. Dreyer, Ingmar Bergman, Luis Bunuel, Francois Truffaut, Luis Godard… Dov’è finita questa ricerca? Il cinema moderno sembra completamente cieco su questo fronte, salvo poche eccezioni, e il cinema italiano più di altri. Come dicevo in un’intervista di qualche anno fa rilasciata a Beatrice Fiorentino, io vado da un’altra parte.
Tu ti occupi di linguaggio cinematografico… secondo te oggi è proprio vero che la pubblicità, videoclip, i fumetti lo stanno influenzando in modo sempre più preponderante?
Il cinema fin dall’inizio è andato alla ricerca di un proprio linguaggio, una propria specificità. É bellissimo studiare il linguaggio vedendo come un’arte cerchi sé stessa attraverso i suoi autori, i suoi pionieri, coloro che coraggiosi tentano di portare l’arte fuori dalle secche delle imitazioni, dei modelli prefissati, della traduzione di testi letterari o teatrali, quelli a cui punterebbe l’industria cinematografica, la quale, paradossalmente, ha bisogno degli sperimentatori…coloro che inventano nuovi prototipi, nuovi linguaggi… Come autore non smetto mai di cercare… Rispetto a quello che chiedi, mi viene in mente che negli anni ottanta fu forte l’influenza del modello MTV, anche Spike Lee ne fu influenzato. Il regista cinematografico è una strana figura: come dicevano i russi, deve essere carpentiere e architetto, imbianchino e scrittore, elettricista, pittore designer. Ma alla fine deve riuscire nella sintesi estrema di trovare un proprio linguaggio, al di là degli stimoli. “Se c’è da rubare, rubo”, diceva Picasso, ma poi alla fine quello che usciva fuori era la sua arte, non la somma delle sollecitazioni e dei furti.
Nel tuo film le donne sono importanti a prescindere dalla religione di appartenenza. Potresti soffermarti su questo concetto?
Come ho accennato prima, nel mio lavoro ho sempre cercato il lato nascosto delle cose, il mistero del non conosciuto. Le donne permettono di vedere il mondo in modo diverso, ti costringono ad andare più a fondo, nell’umano, nell’arte, nelle immagini, nei sogni. Fuori dalla dittatura della razionalità, fuori dalla freddezza e dalla lucidità. Nel 2016 ho scritto il romanzo "Tempo imperfetto", le cui protagoniste sono quasi esclusivamente donne, come in Bosnia Express. L’avventura nel mondo femminile ti permette una ricerca infinita… il cinema contemporaneo ha smarrito questa ricerca che per me è centrale. In questi mesi di proiezioni e presentazioni, alla fine del film, sul volto delle persone ho visto molte volte stupore, meraviglia. Come se riconoscessero la possibilità che la ricerca sul femminile non è completamente perduta, che le donne possono non solo resistere a questa deriva religiosa e criminale, ma anche farcela a proporre e immaginare “un’umanità nuova”, diversa dal modello attuale. Molti autori di cinema, ma anche letterati, anche i più combattivi, sembrano aver rinunciato all’idea di una nuova antropologia. Se consideri ancora l’essere umano con una tara atavica di male o macchiato di un peccato alla sua origine, getti un giudizio di immodificabilità che condiziona tutta la tua vita di uomo e di regista. E guarda caso nell’idea di male al fondo c’è sempre la donna. Il cinema deve cogliere, stimolare e provocare trasformazioni. Altrimenti riproduce stampi delle stesse torte. E delle stesse credenze.