"Il fantasma della libertà" (1974) è un film di Luis Buñuel con una serie di episodi fra loro concatenati grazie a un personaggio che di volta in volta cede il testimone a un altro. È ispirandosi dal punto di vista formale al regista di Aragona che Sergeij Loznitsa ha concepito "Donbass", un viaggio nell’autoproclamata repubblica separatista dell’Ucraina orientale, in questi mesi al centro delle cronache mondiali. Il film del regista slavo, tuttavia, non si prefigge lo scopo di fare chiarezza sulle ragioni delle due parti in lotta, i separatisti da un lato e le autorità di Kiev dall’altra, quanto quello di mostrarci in un’ottica universalistica le ricadute della guerra. Di tutte le guerre. La disgregazione sociale, l’immoralità e la corruzione sono il triste corollario iconico di un film privo di trincee, piani d’attacco o contabilità di vittime, ma che ci fa scendere nel tunnel dell’abiezione, senza che infondo si possa intravedere una luce. Loznitsa, appassionato indagatore e sperimentatore dei limiti che distinguono film d’invenzione da documentari come si nota già in "Austerlitz" (2016), si spinge da questo punto di vista su un territorio pressochè vergine: girare un film contenutisticamente d’invenzione, ma con moduli espressivi decisamente documentaristici è una sfida che può essere affrontata solo da uno che sa il fatto suo. Fondamentale la collaborazione del direttore della fotografia Oleg Mutu, già noto nella cinematografia rumena per "La morte del signor Lazarescu" (2004), ma soprattutto per "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" (2007) e "Oltre le colline" (2012).
Dal momento che lo spettatore viene catapultato nell’intreccio senza alcun preambolo esplicativo o progressione di avvenimenti, con il solo ausilio delle didascalie geografiche, si ha una forte impressione di realtà. Impressione acuita dal ricorso a prolungati piani sequenza, alla macchina da presa a mano che segue di sottecchi i personaggi, a inquadrature fisse o panoramiche che ci restituiscono uno sfondo di violenza di cui l’uomo è inesorabilmente succube e che non è più in grado di dominare, proprio come accade con i propri peggiori istinti. Le inquadrature più allargate sono funzionali a ingenerare il senso di incertezza, di precarietà, di insicurezza; come quando una animata discussione tra un tronfio separatista e un ingenuo giornalista tedesco a caccia di scoop viene troncata dall'esplosione di tre granate: all’interno dell’inquadratura può sempre entrare qualcosa che sconvolge le vite dei personaggi.
Il film è strutturato in 12 episodi interconnessi con un effetto domino, che offrono ciascuno uno spaccato della realtà o, come meglio amerebbe dire Loznitsa, della ricostruzione della realtà del Donbass. Sì, perché il cineasta (vincitore a Cannes 71 nella sezione Un Certain Regard) fa di questo film anche un’occasione per indurre lo spettatore a riflettere sulla distorsione della realtà per mezzo delle immagini. Innanzitutto perché gli episodi del film sono incastonati tra due momenti (iniziale e finale) in cui viene inquadrato un gruppo di attrici intente al maquillage prima di andare sul set. Guerra dunque, ma anche metacinema, con un’inquadratura fissa finale su una scaena criminis che costringe lo spettatore a chiedersi dove finisca la realtà e cominci l’invenzione. E questo è uno dei temi del film, neanche troppo accessorio, che emerge anche in altre occasioni. Dopo la sequenza del trucco di cui si diceva, ad esempio, il cast, sotto le concitate indicazioni di una donna, si precipita all’esterno tra un dedalo di edifici, mentre intorno si susseguono le esplosioni. Quelli che vediamo sono attori che si trovano veramente a contatto con la guerra o le immagini che scorrono sono fittizie perché ci stanno mostrando il set di un film? Per tutto il corso di Donbass la distorsione della realtà per mezzo dei media è un tema assai sentito dal regista slavo. E che dire dell’episodio in cui una donna irrompe nel corso di una seduta del consiglio regionale e accusa di diffamazione un politico corrotto rovesciandogli sul capo una secchiata di sterco? La macchina da presa non inquadra solo i protagonisti, ma si allarga in piano sequenza tra gli astanti che, a loro volta, filmano con i cellulari. Non sembrano più le riprese di un film, ma di qualcos’altro che, al netto del sapore da commedia della beffa, lascia interdetto lo spettatore. Altro episodio singolare è quello in cui con una macchina da presa veniamo introdotti in un rifugio antiaereo trasformato in ricovero stabile per sfollati. Ma di chi è il punto di vista? I rifugiati guardano in macchina e suggeriscono cosa inquadrare senza che però venga rivelata l’identità dello sguardo. Si tratta di un personaggio del film? È il giornalista dell’episodio precedente? Ecco il cinema di Loznitsa.
Assistendo all’episodio probabilmente più disturbante tra i dodici, si comprende a fondo quanto il piano sequenza abbia un effetto psicagogico sullo spettatore. Un soldato volontario antiseparatista viene ammanettato e condotto sulla pubblica piazza per essere esposto al ludibrio dei passanti. Ben presto tuttavia gli insulti diventano spinte e percosse. La lunghezza della sequenza, infonde da un lato una forte impressione di realtà, dall’altra una sensazione di disgusto. Ciò che il regista voleva ottenere. Farsesco è invece il tono del primo matrimonio ufficiale certificato dalle autorità della cosiddetta Novorossija: una sgangherata coppia di sposi già ebbri ancor prima della cerimonia, e che sembra uscita da un film di Federico Fellini, è di fronte all’altare mentre tutt’intorno i paramilitari festeggiano.
Anche il linguaggio di Donbass merita una menzione: i dialoghi sono fatti di posizioni inconciliabili, frutto di scontri verbali privi di un qualsivoglia spessore culturale e che hanno nell’insulto il loro minimo comun denominatore. La parola fascista, frequentissima, sembra l’improperio con cui certificare la bontà delle proprie idee e l’ottusità di quelle altrui. Tutti sembrano aver ragione e nessuno torto. Per questo motivo, a proposito del sistema dei personaggi, rispetto alle pellicole precedenti, quali "Anime nella nebbia" (2012) o "A Gentle Creature" (2017), mancando un ruolo positivo nel quale indentificarsi si ingenera nello spettatore una ulteriore sensazione di spaesamento.
cast:
Tamara Yatsenko, Irina Zayarmiuk, Grigory Masliuk, Olesya Zhurakivska, Thorsten Merten, Vladimir Lubovsky, Petro Panchuk, Vadim Dubovsky, Valeriy Antonyuk
regia:
Sergei Loznitsa
titolo originale:
Donbass
durata:
122'
produzione:
Ma.ja.de. Fiction, Arthouse Traffic, JBA Production, Graniet Film, Wild at Art, Digital Cube
sceneggiatura:
Sergei Loznitsa
fotografia:
Oleg Mutu
montaggio:
Danielius Kokanauskis
Una troupe si prepara a girare un film sulla pacifica popolazione del Donbass. La corruzione dilaga in ogni settore della vita pubblica. Nei frequenti posti di blocco i cittadini rischiano di essere taglieggiati o espropriati delle proprie autovetture col pretesto di sovvenzionare le milizie paramilitari. Mentre la guerra infuria, un giornalista tedesco si reca sul fronte per avere risposte che non avrà. Anche tra i soldati manca ogni senso morale e di disciplina: uno viene brutalmente punito per scoraggiare atti di sciacallaggio, mentre un prigioniero nemico viene esposto al pubblico ludibrio.