Consolidatosi con la Palma d'oro a Cannes 2007 assegnata all'opera seconda di Cristian Mungiu, il riconoscimento internazionale di un emergente movimento cinematografico rumeno era iniziato due anni prima con Cristi Puiu e "La morte del signor Lazarescu". Film premiato anch'esso a Cannes, sezione Un Certain Regard, ha dato il la a produzioni che con le dovute differenze sono riuscite a trasformare una condizione critica (lo scarso/nullo supporto economico al sistema cinema in Romania) in una cifra artistica. Prima di girarlo Puiu ha sofferto a lungo di un'ipocondria patologica, acutissima; era sicuro di aver contratto una malattia terminale. Un triennio speso tra ambulatori e depressioni, esperienza difficilmente separabile dallo sguardo rispettoso ma instancabile, ai limiti dell'ossessivo, adottato per seguire il percorso ferale di Dante Remus Lazarescu, sei ore di tempo della storia e due e mezzo di tempo del racconto di graduale avvicinamento alla morte, ultima e unica stazione negata alla vista (ma già sancita dal titolo) su una via crucis ospedaliera notturna nella cinica Bucarest di oggi.
Il film orbita attorno a questi due fuochi, la morte (il morire) e la vista (il vedere), uno di ambito argomentativo, l'altro di ambito formale. L'intero sviluppo narrativo, che si apre su un campo lungo del condominio teatro dei primi cinquanta minuti, una specie di esterno-ponte fra gli universi dello spettatore e della pellicola già indizio di una visione a distanza, non è che il morire del signor Lazarescu. Sessantatreenne, alcolista, burbero, solo, malridotto, viene colpito una sera da malori in prima battuta ricondotti a postumi di una vecchia ulcera. Più forti del solito però, motivo per cui Lazarescu richiede un'ambulanza. Dall'intensificarsi della sua apprensione la macchina a mano comincia a svelare le poche relazioni sociali che l'uomo detiene e deteneva, fra sprezzo e rimpianto: con la sorella che abita lontano, con la quale litiga al telefono; con i dirimpettai compatenti; con la figlia scomparsa dai radar, emigrata in Usa; con la moglie deceduta da tempo. Più che relazioni, fantasmi di relazioni. Puiu e il suo operatore, Andrei Butica, si aggirano nell'appartamento angusto di Lazarescu con discrezione, spiando, origliando, quasi mai oltrepassando la mezza figura, spesso frapponendo tra obiettivo e personaggio un ulteriore segno di distanza, anche soltanto accennato a margine dell'inquadratura: la spalla di uno dei vicini di casa oppure di Mioara (la paramedica che lo assisterà tutta la notte); uno stipite; una porta socchiusa. Lazarescu è soggetto e oggetto, protagonista e tappezzeria, mentre prova a spiegare i propri sintomi ai soccorritori annoiati. Addirittura sparisce (sul piano visivo) sdraiato sul divano, con i dirimpettai seduti praticamente addosso.
Non solo in questi frangenti introduttivi ma fino alla conclusione del film il gioco di slittamenti fra prospettive, focalizzazioni e ocularizzazioni (cfr. Jost) viaggia appaiato al mimetismo di regia e attori. Caricato Lazarescu in ambulanza parte l'azione effettiva, un traversia da ospedale a ospedale che è uno sprecarsi di diagnosi senza che mai nessun medico si assuma la responsabilità di praticare una cura. Mioara scorta il moribondo fra l'arroganza di personale sanitario insensibile nel migliore dei casi, insopportabile nel peggiore. Avanza la notte, Lazarescu si aggrava. Gli vengono scoperti un ematoma subdurale e una neoplasia al fegato. Deve essere operato d'urgenza ma gli ospedali continuano a rimbalzarselo a vicenda, con sferzate di umorismo nero ed echi da teatro dell'assurdo che rendono ancora più sofferta l'insita sofferenza della vicenda. La macchina persiste nella sua osservazione rigorosamente a mano, in continuo movimento in zone circoscritte; riadattandosi agli spostamenti in scena degli attori vira da Lazarescu a Mioara, stabilendo un'alternanza di riprese fra i due che sembra tradurre un legame di solidarietà umana, predisposto invece a marcare il contrasto con l'epilogo luttuoso.
Il tramonto di Lazarescu è lento, scandito da visite mediche a ciascuna delle quali corrisponde un sintomo aggiunto. La sua morte finale, nuda, silenziosa, con perfino la mdp finalmente immobile, arriva all'apice di un declino di mente e corpo contro il quale resistere non serve a nulla. Vomito, vaneggiamenti, paresi, incontinenza, l'individuo svanisce nella carne, nell'organismo finito, a campo sgombro da trascendenze e astrazioni. Tuttavia sarebbe un errore affermare che Puiu è spietato col proprio protagonista, perché non pone in essere una narrazione bensì una mostrazione. E mostra il morire, non la morte, simulando il tempo reale con piccole ellissi e minimizzando gli stacchi di montaggio, sintonizzando il film sul ritmo bradicardico di un'attesa febbrile, eterna, dandogli l'estetica in presa diretta della docufiction. Non in ricerca di finto realismo, piuttosto dell'autenticità attraverso l'austerità (parafrasando Jonathan Lethem su Cassavetes, regista molto amato da Puiu). Un'autenticità frutto paradossale di meticolosa progettazione a monte, solcata al contempo da significati allusivi al didentro e al difuori del film. Il mondo ospedaliero è, o potrebbe essere, il tessuto sociopolitico rumeno, a detta del regista poco incline a oneri e altruismo; il vagare di Lazarescu e Mioara, lo smarrimento, la solitudine, l'impotenza di un popolo. La spettrale trinità femminile moglie-sorella-figlia di Lazarescu infine si incarna in una dottoressa e due infermiere, apparizione in bilico fra sospiro liberatorio ed estremo turbamento.
Straziante nel suo rigore, spiazzante nei toni, "La morte del signor Lazarescu" lavora a diversi livelli di rappresentazione e ricezione, in qualcosa di definibile come una linearità complessa, un'immediatezza faticosa. Luminița Gheorghiu - Mioara - trattiene tutto. Ioan Fiscuteanu cessa di esistere dentro Lazarescu, e in una di quelle coincidenze che a volte uniscono vissuto e arte, muore di cancro due anni dopo l'uscita del film. Puiu distilla informazioni o meglio, nella sua posizione di testimone oculare invisibile pare apprenderle strada facendo, respingendo tentazioni di facile empatia, tragicismo e crudeltà hanekiana per offrire in esame il rapporto dell'uomo con la morte, con la vecchiaia, con il disfacimento fisico, con l'abbandono, con la perdita (della vitalità prima che della vita), con paure che mangiano l'anima e sono impossibili da esorcizzare.
Primo capitolo di un ciclo in atto, sotto il segno di Rohmer: "Sei storie dalla periferia di Bucarest".
cast:
Ioan Fiscuteanu, Luminita Gheorghiu, Doru Ana, Dragos Bucur
regia:
Cristi Puiu
titolo originale:
Moartea Domnului Lazarescu
durata:
153'
produzione:
Mandragora Movies
sceneggiatura:
Cristi Puiu, Razvan Radulescu
fotografia:
Andrei Butica, Oleg Mutu
scenografie:
Cristina Barbu
montaggio:
Dana Bunescu
costumi:
Cristina Barbu
musiche:
Andreea Paduraru