I gemelli terribili del cinema italiano tornano a farci visita in occasione dell’uscita del loro terzo lungometraggio, "America latina", presentato di recente a Venezia 78. Tra progetti, incubi, specchi e tackle scivolati.
"La terra dell'abbastanza", "Favolacce" e ora "America Latina". Già dai titoli, particolari e fortemente evocativi, si percepisce il legame del vostro cinema con un retroterra di fiabe e archetipi, quel misto di innocenza e tenebra che si trova nelle pagine di Andersen, o di Calvino. Che cos'è per voi la fiaba, e perché è importante?
Hai perfettamente ragione. Già questi titoli sono l'entrata per un mondo di tempi e possibilità diverse. Calvino diceva che le fiabe sono vere, ci troviamo d'accordo. Conducono la realtà su un pianale finalmente chiaro ed esemplare, forse perché sradicato dalle beghe quotidiane che attanagliano ognuno di noi. Discorsi come la politica, il tempo presente eccetera. La fiaba è la vita senza questioni minori o impicci laterali.
Eccoci allora su "America Latina", un titolo che non funziona come un'indicazione geografica ma piuttosto come un ossimoro, presentandoci una frattura tra un immaginario di ricchezza e successo (America) e la realtà della provincia laziale (Latina). Una frattura che vediamo anche nella locandina (splendida).
La crepa tra le nostre aspettative, dorate, libere, sconfinate e le nostre realtà, fatte di pochezze emotive, fisiche, confini, prigioni, occhi spaventosamente pigri.
Parlando di immaginario e realtà, il vostro è un cinema che, dopo l'esordio, sembra divertirsi a entrare in tackle sulle aspirazioni e le illusioni dell'immaginario borghese – ammesso che si possa ancora parlare di borghesia, una categoria che include tutti e nessuno.
Non è un divertimento. Ci spaventa molto quando in un'opera d'arte ci si diverte. Per divertirsi spesso tocca guardare da lontano, cosa che non vogliamo fare (e non sapremmo fare). Ci interessa piuttosto scandagliarci nel profondo, ferirci andando a scrivere delle nostre stesse debolezze, i nostri spauracchi senza freni, i fantasmi dell'infanzia e i battistrada del futuro che chiedono, macinano, tassano. In ultimo, tutti i caratteri che scriviamo nei nostri film ci somigliano. Quindi l'entrata in tackle è verso noi stessi, semmai. Non ci tiriamo fuori da ciò che raccontiamo, sarebbe un giochino molto vile.
Parlando invece di realtà, si ritrova qualcosa di profondamente autentico nei vostri personaggi. Quanto è importante lo spirito di osservazione, in particolare verso la provincia/periferia laziale che vi ha maternamente ispirato?
Smisurato. Continuiamo a tornare nei nidi d'infanzia perché crediamo che lì siano radicati tutti i nostri danni e il nostro dannarci, persino inconscio. Ogni nostro incubo notturno si materializza in aule scolastiche, paesaggi balneari senza fama, austeri, invernali, sciupati. E poi compleanni sfasciati, senza compagnia. Famiglie introverse accartocciate.
Rimanendo sui regionalismi, e sull'osservazione di una realtà più assurda della fantasia, mi viene in mente Vitaliano Trevisan, scomparso da poco, che esordì come attore nel bellissimo "Primo amore" di Garrone, che anche voi amate molto…
Vitaliano Trevisan era un grandissimo scrittore. Shorts è stato sul nostro comodino da quando non avevamo neppure un comodino, bensì una sedia che fungeva da armadio per i vestiti, comodino per i libri e divano per la sera.
Ve lo ha chiesto Diego l'ultima volta, ve lo chiedo di nuovo oggi. La figura, o meglio, l'archetipo della madre riveste un ruolo centrale nei vostri film. Winnicott scrisse, "il precursore dello specchio è il volto della madre." Questa frase vi dice qualcosa o mi prendete per matto?
Ci dice molto. Abbiamo intitolato il nostro volume di poesie Mia madre è un'arma. Lo specchio è spesso un'arma e i volti sono spesso materni e paterni. Pareri esterni su paure proprie. Non conosciamo Winnicott e il suo pensiero, ma analizzando unicamente questa frase ci sentiamo a posto, è un luogo che comprendiamo.
A proposito di frasi scritte, voi mantenete un rapporto di frequentazione continua e proficua con la scrittura. Non solo sceneggiatori, ma poeti (Mia madre è un'arma, La nave di Teseo) e autori di un libro fotografico (Farmacia notturna, Contrasto).
Abbiamo bisogno di scrivere, non avendo un gran bel rapporto con il vivere. Scontiamo molte nostre carenze sul foglio di carta, cercando di parlare lì, di scappare lì. Di allenarci lì. Ci sentiamo felici quando poggiamo i gomiti sul tavolo e scriviamo.
Andiamo via, via. Oltreoceano. "Ex vedove", il vostro prossimo progetto, un western al femminile girato negli Stati Uniti collaborando con Paul Thomas Anderson. Ci date qualche anticipazione?
L'anticipazione che possiamo darti per certa è che non sarà il nostro prossimo progetto. È un film al momento troppo impegnativo produttivamente. Costa tanto e ci chiediamo quindi se sia un'isola giusta da pretendere. Siamo ora al lavoro sulla nostra prossima storia, che sarà una serie televisiva dal titolo "Dostoevskij".
Il noir, la fiaba, il thriller, il western, le poesie, la serie tv. A quando un bel musical?
Sarebbe complicato perché ci piace muovere i generi e spesso storcerli per portarli ad altro. Il musical, tra tutti i generi cinematografici, è uno di quelli che ha più regole da seguire. Noi potremmo fare un musical senza alcuna musica, ecco. Questa potrebbe essere una premessa sufficientemente trasgressiva per darci il via.