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Un viaggio attraverso le filmografie (spesso ancora esigue) dei più amati e discussi cineasti degli ultimi 20 anni. Si comincia con Hollywood e con un californiano doc. Scoprite qual è, secondo la nostra redazione, il suo film più bello...

Cominciamo con questo speciale un nuovo percorso per la nostra redazione. Unendo due nostre passioni, quella per il gioco delle classifiche e quello per le monografie, proviamo a dire la nostra su alcuni dei più importanti cineasti dell'ultima e della penultima generazione, autori che hanno cominciato a fare film tra gli anni 90 e i 00, troppo giovani o con una carriera ancora troppo in movimento per poter essere oggetto di lavori monografici, ma non per questo meno influenti per il panorama contemporaneo.

E così abbiamo deciso di procedere a questa maniera, mettendo a nudo le nostre preferenze come mai ci era capitato davanti al nostro pubblico. Abbiamo prima votato, non senza discussioni redazionali accese, i titoli della filmografia di un singolo autore e poi abbiamo stilato una classifica che elegge l'opera più bella, secondo il nostro giudizio. Ma siccome non volevamo ridurre il tutto al solito gioco virtuale delle graduatorie, abbiamo pensato ad altro. Stavolta ogni redattore (di quelli che hanno partecipato alla votazione) ha scritto poche righe, molto personali e assolutamente non perentorie, con cui ci e vi spiega la sua scelta, motivando perché ha messo al primo posto un film piuttosto che uno degli altri. Troverete così titoli senza commenti ulteriori quando nessun redattore li avrà collocati al primo posto della propria classifica, e opere con diversi commenti a seguire, proprio perché più redattori hanno optato proprio per quell'opera.

Come avrete intuito, partiamo da Hollywood (da quella generazione di autori ribattezzata considerata da alcuni critici diretta discendente dell'epoca d'oro della New Hollywood) e da un californiano doc come Paul Thomas Anderson, uno dei nomi più divisivi di questi anni, capace di attrarre attorno a sé un popolo di cinefili duri e puri che lo amano a prescindere, ma anche uno stuolo molto deciso di detrattori per partito preso. Noi cerchiamo di rimettere le cose a posto, scegliendo il suo film più rappresentativo, ma anche spiegando, redattore per redattore, che cosa ci spinge a preferire "Il petroliere" rispetto a "Boogie Nights" o, ancora, rispetto a "The Master". Noi stessi ci siamo comunque sorpresi, infine, per la nettezza del nostro voto. Sono questi tre a distaccarsi nettamente, a nostro giudizio, dal resto della sua carriera. Tre opere apparentemente inaccostabili, data la loro diversità di fondo.
Un'ultima avvertenza: la classifica è puramente indicativa ed è il frutto dei ricordi e delle sensazioni del momento. Forse potremmo decidere di aggiornarla in futuro e, siamo sicuri, molte posizioni potrebbero cambiare. Buona lettura.


7. SYDNEY (Hard Eight, 1996)

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6. UBRIACO D'AMORE (Punch-Drunk Love, 2002)

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5. VIZIO DI FORMA (Inherent Vice, 2014)

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4. MAGNOLIA (1999)

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 3. THE MASTER (2012)

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Carlo Cerofolini
La scelta di mettere "The Master" in cima alla classifica dei film realizzati da Paul Thomas Anderson ha più di una spiegazione. La prima deriva dal fascino della sua imperfezione e dalla sensazione di indeterminatezza che impedisce di capirlo fino in fondo. Ci sono gli aspetti legati alla mitologia hollywoodiana che in questo caso si tingono di mistero rispetto al processo di post produzione, complicato, si dice, dal mancato benestare di Scientology e dai continui ripensamenti del regista in sede di final cut. E per ultimo, ma solo in ordine d'elenco, il piacere di vedere insieme, ahimè, per l?ultima volta, una delle migliori alchimie attoriali che possiamo ricordare, con Joaquin Phoenix e il compianto Seymour Hoffman a scambiarsi il ruolo di gran cerimoniere del sabba cinematografico allestito dal regista.

Alberto Mazzoni
Colui che possiede, colui che controlla, colui che sa. Nessuno è in questa posizione, ma speriamo che l'altro - il marito, il salvatore, lo straniero - lo sia e sistemi le cose, vi dia senso. Non ottieni tre interpretazioni straordinarie in un solo film se non hai un racconto eccezionale e dei simboli potenti a sorreggerle. L'ubriachezza che scardina, come nella Centauromachia. Ma amerei questo film anche senza dialoghi, solo con le musiche di Greenwood e le immagini. La passeggiata della modella, la fuga dalle baracche per i campi, l'arrivo alla nave, lo scavo e la fuga in moto nel deserto, il tutto incorniciato dalle scie lasciate dalle grandi navi nell'acqua. Credo che funzionerebbe senza parole persino il primo test tra i due, quasi al buio, solo i primi piani. C'è questo momento in cui leggi nei loro volti che colui che desidera essere guidato senza volerlo ha fatto smarrire la propria guida e neanche se ne rende conto. The Master.

Vincenzo Lacolla
Spaparanzato su una sedia a dondolo cigolante, Lancaster Dodd, un calice in mano e le gambe accavallate, osserva il precario pedalare di una bimba sul triciclo. All'improvviso volge lo sguardo altrove, si solleva e, mentre comincia a scendere dal patio, fa in tempo ad acchiappare qualcosa da un piattino e masticarla. Quando Freddy entra nell'inquadratura, fuori fuoco e dinoccolato, i due si concedono un abbraccio fraterno, composto. Un attimo dopo si ritrovano a rotolarsi sul prato avvinghiati l'uno all'altro, tra ansimi e sghignazzi. Poi Dodd afferra Freddy per una gamba, lo trascina sdrucendogli il pantalone e lo sculaccia, sotto gli occhi increduli di ospiti e parenti. Tutto in campo medio, senza che la macchina da presa si avvicini di un millimetro. In questa anomalia prossemica, che fissa un gesto irriflesso e lo traduce in momento chiave dell'enigmatica dialettica relazionale dei due protagonisti, sta la forza squassante di "The Master". Una pellicola interamente calibrata sulle difformità, sulle discrasie, capace di incastonare immagini cristalline e stentoree su un telaio teorico ostico, elusivo, in divenire. Un capolavoro cerebrale e, al contempo, tremendamente struggente.

Giuseppe Gangi
Dopo "Il petroliere", qualcosa è cambiato nella percezione che avevo di Paul Thomas Anderson. Quando ha deciso di asciugare il suo linguaggio cinematografico, lavorando su calibrati movimenti di macchina, sui colori della fotografia, sui tagli del montaggio e gli effetti sonori, rendendo la pellicola una partitura psichica dei personaggi messi in scena ha iniziato a folgorarmi. "The Master" è il suo film più ipnotico e liquido, forse anche più allucinato del successivo "Inherent Vice". Il titanico duello attoriale tra Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix racconta la smarrita America post-bellica, in cerca di nuovi culti e di nuovi padroni, nella dialettica antropologica e politica tra un'autonomia distruttiva e un altrettanto logorante asservimento. È un'opera ostica che si impara ad amare, una pellicola che si cicatrizza nella memoria e di cui riemergono potenti sequenze come le carrellate sulle folli corse dello sghembo Freddie Quell e i suoi botta e risposta con il wellesiano Lancaster Dodd. E magnetiche immagini come quella sonnambula in cui vediamo Phoenix dormire/svegliarsi in una sala cinematografica, luogo in cui si riallaccia il cordone ombelicale col suo mentore, contraltare ambiguo e onirico alla spiaggia dove può farsi cullare dalla "grande madre" di sabbia, tra lo sciabordio delle onde.

Francesca d'Ettorre
Cinque anni dopo "Il petroliere", nel 2012, Paul Thomas Anderson torna a interagire con il linguaggio cinematografico con un film altrettanto spiazzante e ancora più divisivo. Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è un reduce della Seconda Guerra Mondiale, i cui postumi sono il viatico di una instabilità emotiva che estrinseca con dosi massicce di violenza, alcool e sesso.  Su una nave incontrerà Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), capo carismatico della Causa - parafrasi più o meno esplicita e non autorizzata di Scientology  - che gli prometterà di cambiargli la vita. Il loro rapporto, oppositivo e simbiotico al contempo,  descritto in immagini dal movimento campo-controcampo, è l'occasione per l'autore di proseguire la narrazione dell'America, e lo fa a partire dai suoi uomini: al contrario de "Il petroliere", in cui è l'istituzione americana (il capitale) a ricondurre al particolarismo umano, in "The Master" sono i personaggi a dettare i significati e farsi testimoni di quel senso di incertezza e paura che ha ubriacato l'America del dopoguerra.


2. BOOGIE NIGHTS - L'ALTRA HOLLYWOOD
(Boogie Nights, 1997)

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Giancarlo Usai
Perché "Boogie Nights"? Perché è il film che esalta il talento narrativo (dei tanti che questo giovane regista può vantare) migliore di Anderson: la messa in scena circolare, la passione per il racconto corale che avviluppa al suo interno i suoi personaggi, mai fermi, mai domi, in perenne mutazione, maturazione. Il crescendo emotivo, poi, che parte da uno stile glaciale e iper-virtuoso per sfociare nell'apoteosi di eventi finali, si insinua sotto pelle in modo impalpabile. "Boogie Nights" è ritratto nostalgico degli anni 70, con le sue famiglie allargate, la confusione sessuale e sentimentale, lo spirito fuori dal tempo di un cinema off che rivendicava una sua piena dignità. Il porno girato dal Jack Horner interpretato da Burt Reynolds altro non è che un sognatore fuori tempo, un artigiano che si è inventato da solo ma che ha sognato, per un momento, la possibilità di raggiungere il cuore del pubblico. Poi sono arrivati gli anni 80 e addio all'immaginazione di un'epoca ormai superata.

Alex Poltronieri
C'è stato un tempo in cui P.T. Anderson non sentiva la necessità di ergersi a primo della classe. Sì, il suo cinema ha cambiato pelle, a partire da "Il petroliere" in poi (e forse già prima nell'insolito "Ubriaco d'amore"), si è chiuso in sé stesso, è diventato più cupo, complesso, "oscuro", difficoltoso. Un cinema rivolto non si sa bene a chi, forse a sé stessi, forse alla critica che spesso ha scritto cose più interessanti sul cinema di P.T. Anderson dei suoi stessi film. A conti fatti il suo film che prediligo è il secondo, "Boogie Nights", in cui Anderson, a metà via tra il racconto corale alla Altman e il febbrile affresco d'epoca alla Scorsese (tra l'altro questa pellicola ha una delle colonne sonore più significative dei novanta), racconta gli anni d'oro dell'industria pornografica e il suo declino. Un ritratto mai nostalgico o patetico, ma semmai affettuoso e partecipe, di un mondo che non esiste più, e un apologo su un America fragile, insicura e miserabile, che trova calore e forza d'andare avanti in una sorta di famiglia borderline, al fondo rassicurante nonostante i tanti eccessi. Già allora Anderson sapeva d'esser bravo, non fa nulla per nasconderlo (si sprecano i piani sequenza da manuale), ma rispetto alle opere seguenti qui c'è ancora autocontrollo, disciplina, una sana dose di ironia e umana pietas. Cast semplicemente sublime, dal primo all'ultimo nome.

Davide De Lucca

Il film che ha rivelato Paul Thomas Anderson e che probabilmente rimane quello più autentico e irripetibile. Di un regista/autore che ricercava la sua voce, che voleva essere originale e provocatore, raccontando il cinema con il cinema. Con una nostalgia per il passato e per un cinema sincero, indipendente, diverso. Senza salire in cattedra, muovendosi su quel filo tra il voler essere cool e la consapevolezza di non essere ancora cult. Un film girato con il sudore sulla fronte, caldo di fatica, freddo di paura, ma che rivelava già i segni di una grande consapevolezza. E, per quanto mi riguarda, trasuda anche la malinconia di un tempo perduto e del cinema della West Coast degli anni '90, con la scoperta di quei registi che si affermavano come Tarantino, Solondz, i Coen, che contribuirono (Solondz e i Coen) con Anderson a consacrare il talento di Philip Seymour Hoffman.

Stefano Guerini Rocco
A ventisette (!) anni P.T. Anderson porta al cinema un racconto corale, altmaniano su fasti e decadenza dell'industria pornografica statunitense. Una vera saga made in USA, un affresco storico che lascia leggere in filigrana il passaggio traumatico dalla controcultura degli anni 70 e all'edonismo reaganiano degli 80. In primo piano, però, rimangono sempre i personaggi: un'umanità ai margini, gioiosa e confusa allo stesso tempo, che il giovane autore fotografa con sguardo lucido ma partecipe, mai giudicante, carico di pietas. In questo gruppo composito, interpretato da un cast eccezionale, spicca la fulva Julianne Moore: una contessa miseria al centro di un impero in rapido e inesorabile declino, una madre debosciata che accudisce una gioventù derelitta, un'amante isterica che non sa far altro che darsi. L'Oscar lo ha vinto quest'anno per il (leccatissimo) dramma "Still Alice", ma la sua Amber dolce e patetica, sensuale e protettiva, madre e puttana, era ben più incisiva. Straziante.


1. IL PETROLIERE
(There Will Be Blood, 2007)

petroliere


Antonio Pettierre
"Il petroliere" è il miglior film di Paul T. Anderson perché è impressionante la capacità di mettere in scena il dramma oscuro della nascita del moderno capitalismo americano. Nei primi anni del Novecento, la parabola ascendente di Daniel Plainview, da minatore texano a tycoon del petrolio, si basa sull'inganno, l'omicidio, la violenza espressa sotto forma verbale, fisica ed economica. Estrarre il petrolio dalla terra è come succhiare la vita degli altri, per accumulare denaro e potere. Il dio denaro è l'unico conosciuto da Plainview ed è disposto a passare su tutto (anche sull?affetto del figlio). Sineddoche del capitalismo duro e solitario, una storia per raccontare un punto cruciale della Storia. Immagini immerse nella polvere, nel nero del petrolio che sgorga come sangue malato dalle viscere della Nazione americana. E il ghigno e lo sguardo rapace del protagonista, che un superlativo Daniel Day-Lewis esprime, è tanto disturbante quanto quello di una belva feroce.

Stefano Santoli
"There will be blood". Non petrolio: sangue.
L'incipit è clamoroso. 15 minuti di silenzi, rumori, grugniti, lordume, arti spezzati. Poi: cieli neri di petrolio in fiamme, un conflitto edipico, una fraternità ingombrante, lo scontro irriducibile fra potere secolare e spirituale. Film dilatato, austero, materico: dagli orizzonti vasti quanto l'ego del protagonista, desertici come il suo cuore di tenebra. Individualismo, misantropia e prevaricazione; retorica, plagio e paranoia: queste le fondamenta della Terra Promessa. Si finisce con una sala da bowling che pare venire dall'Overlook Hotel: sullo sfondo, due porte da cui sembrerebbe stia per sgorgare il sangue.
"Il petroliere" è la chiave di volta nella filmografia di Anderson: emancipandosi dai rimandi a Scorsese e Altman, il regista inizia qui una personale rilettura della Storia americana che proseguirà nei film successivi, scegliendo registri diversi e sempre obliqui rispetto alle modalità narrative del cinema classico.

Matteo De Simei

Ci sarà sangue su questa America avida e anaffettiva, fagocitata dal potere e trainata da una misantropia capace di sgretolare le ultime speranze di salvezza dell'anima. Che il capolavoro di Paul Thomas Anderson abbracci il periodo antecedente alla grande depressione degli anni trenta, sottolinea in un certo senso la primigenia natura imperialista e capitalista di una nazione, nata nel sangue e destinata a rappresentare l'allegorico status di paese inscalfibile, gelidamente cinico, a cui la Storia non ha insegnato nulla, dai duelli per i pozzi di petrolio di inizio novecento al dispotismo (poco illuminato) degli ultimi governi di nuovo millennio. Continuerà ad esserci sangue anche sul cinema, una macchia che, sempre più estesa, lambisce ambigue fattezze griffithiane, non si priva quasi mai di un patriottismo incontrovertibile figlio degli anni d'oro hollywoodiani di Ford e Houston. Tematiche che il cineasta losangelino rimette in luce con un naturalismo lirico ed esasperato, realizzando l'emblema del "film americano" di nuovo millennio. L'orgoglio e la furia di un uomo dinanzi al cospetto di un Dio (inesistente). I'm finished.

Alessandro Corda
Ho votato "Il petroliere" come miglior film di Paul T. Anderson perché è il racconto, lucido e spietato, dell'alba del capitalismo americano, con le inevitabili derive nel cinismo e nel bieco arricchimento. È la demistificazione del self made man, che diventa incarnazione di un autentico homo homini lupus, guidato unicamente da istinti primordiali. Daniel Day Lewis regala un'interpretazione animalesca e possente. L'uomo che non crede a nulla in contrapposizione allo spirito religioso: c'è davvero tanto. Dopo aver raccontato l'America di oggi con "Magnolia", Anderson inizia con questo film un percorso nelle viscere della Storia dell'America.

Diego Capuano
Da designato erede di Robert Altman (il notevole "Magnolia"), con "There Will Be Blood" P.T. Anderson effettua la sua decisiva sterzata verso multiformi territori cinematografici. Adoperando un approccio memore di un'epica che recupera radici primordiali ("Rapacità" di von Stroheim resta il più seducente tra i possibili rimandi) l'autore scivola sovente su e nei suoi pozzi di petrolio: passione, sudore e sangue tra grigie foto d'epoca, scontro tanto fisico quanto dialettico tra evangelismo e capitalismo, panoramiche su evocazioni e limiti del paesaggio e destrutturazioni cubiste. Dissonanze che sembrano quasi sempre sul punto di esplodere, incorporate nella figura mitica di Daniel Plainview (un titanico Daniel Day Lewis), che trova nella grottesca eccentricità finale una mirabile sintesi del proteiforme (e ancora in evoluzione) cinema di Paul Thomas Anderson. "Ho finito".

Piero Calò
Regista più di riffa che di raffa, PTA si esprime meglio quando il canovaccio è solido e districarsi è quasi impossibile. Ne "Il petroliere" si misura con cose che eccedono il suo pur acuto ego e per domesticarle si traveste nel regista classico che non è né vorrebbe essere: l'epopea del petrolio, l'incontenibilità attoriale di Day-Lewis, lo spazio mistico di una California monoteista (il dollaro) e anche un neanche tanto simpatico bimbetto che nel suo piccolo riesce anche a rendersi utile. Scommessa vinta.





Speciale registi - Il miglior film di Paul Thomas Anderson