È facile rimanere spiazzati da "Vizio di forma", soprattutto se si entra in sala preparati a vedere una commedia gonza - "Il grande Lebowski" dei fratelli Coen fuso a freddo con "Il lungo addio", come si è letto spesso in questi mesi di attesa. La complessità narrativa del romanzo di Thomas Pynchon che va continuando ad ampliarsi di personaggi e situazioni lungo le sue 470 pagine viene modificata da un preciso lavoro di taglia e cuci di cui fa le spese l'ambientazione surfer e che, da un certo punto in poi, si discosta dalla lettera dello scrittore alterandone la materia narrativa ma non lo spirito: l'operazione molto fedele di riscrittura cinematografica è vicina al capolavoro cine-letterario "Non è un paese per vecchi". Come era già successo per "There Will Be Blood" e per "The Master", Anderson usa il cinema come una macchina del tempo e affresca in 35 millimetri un altro momento di passaggio della storia statunitense partendo da un personaggio: se lo sghembo Freddie Quell era il residuo umano dell'America post-bellica, Larry "Doc" Sportello è uno dei pochi irriducibili hippie che non ha ceduto alle lusinghe dell'eroina, personaggio-faro nella nebbia losangelina del 1970.
Nel prologo, Doc si volta richiamato dall'arrivo di Shasta, la sua ex-ragazza che si presenta a casa sua con una insolita mise borghese e un grosso problema. È al corrente di un imbroglio ai danni del suo uomo, il magnate dell'immobiliare Mickey Wolfmann: la moglie e il di lei amante vorrebbero accordarsi con la ragazza per fregarlo e rinchiuderlo in un ospedale psichiatrico. Il detective, ancora innamorato della ex, si decide ad aiutarla, immaginando si tratti delle solite questioni di corna. Il nome di Wolfmann, però, diventa il punto di contatto tra le sue indagini e la Golden Fang, una misteriosa imbarcazione che pare essere anche un'associazione per evasori fiscali e un cartello indocinese dell'eroina. E qui è bene fermarsi, non per schivare il pericolo di svelare eventuali colpi di scena quanto piuttosto per evitare di perdersi nel dedalo narrativo architettato da Anderson. Perdersi in "Inherent Vice" è ben più importante del ritrovare la via, e si direbbe che il regista abbia lavorato intorno a quest'assunto: si smarrisce Shasta come Mickey Wolfmann, i personaggi appaiono e scompaiono dal nulla (esemplare la sequenza che inizia con una dissolvenza su un banco di nebbia), e Doc è continuamente spaesato per via dell'ingente e continuo quantitativo di marijuana che fuma. Il film stesso perde il proprio bandolo per poi ritrovarlo casualmente ed è difficile ricostruire la sequenza degli avvenimenti secondo un principio di causalità: siamo nel regno del caos, il terreno più fertile per il noir che è il genere di riferimento sia del romanzo sia del film, come se fosse una storia chandleriana raccontata dall'Hunter S. Thompson di "Paura e delirio a Las Vegas".
La rilettura postmoderna del noir da parte di Pynchon diviene la colonna portante della sua analisi sulla fine delle utopie della controcultura, mentre Anderson decide di espungere la maggior parte delle citazioni (meta)cinematografiche di cui il romanzo è intessuto. Il protagonista, nonostante il modus vivendi hippy, è un investigatore di un certo talento e rimpiange l'epoca in cui dominavano le figure dei grandi e anarchici private eye, mentre a dominare adesso sono gli sbirri che sfondano le porte a calci e violano i diritti civili. Se in Pynchon la dimensione nostalgica è esplicita e i riferimenti continui, Anderson costruisce un nostalgia film tramite il filtro del linguaggio audiovisivo, dalle musiche di Jonny Greenwood alle cromie psichedeliche di Robert Elswit, al ritmo che pare seguire gli up&down dei drogati. Anche la scelta di Sortilége (a cui presta il volto Joanna Newsom), il personaggio più mistico come narratore interno, è da leggere in questa direzione: benché appaia più volte in scena, Sortilége talvolta scompare in un raccordo di montaggio e di lei rimane un'eco, come se fosse solo una voce lontana che risuona nella testa di Doc, ricordandogli di eventi passati, guidandolo e incitandolo.
Lo stile di "Inherent Vice" procede per strappi tramite cui la realtà percepita da Doc sembra produrre delle epifanie. La steadycam si muove ondeggiante fino ad eccitanti e ipnotici long take, come quello dei titoli di testa sulle note di "Vitamin C" dei Can, oppure la lunga (circa sette minuti) sequenza di seduzione di Shasta in cui l'erotismo si carica di perversione. I dialoghi vengono filmati con lenti zoom-in, oppure, in campo-controcampo con inquadratura dal basso, così da accentuare la sensazione paranoica di qualcuno che osservi e spii i protagonisti. Altri passaggi sono più sconnessi e posseggono un ritmo sincopato in cui il regista preme l'acceleratore sul pedale dell'assurdo, costruendo gag dal gusto surreale e slapstick. La mobilità della steady combinata alla profondità di campo diviene una soluzione espressiva centrale nella creazione di questa realtà rarefatta e sospesa, da cui nasce il sospetto di una verità occulta, di un inganno o un'illusione. In una sequenza cruciale il detective si avvia verso il bungalow di un centro massaggi, col suo solito passo lento e rilassato sale le scale e poi si ferma a guardare indietro; nella particolare semi-soggettiva lo spiazzo di fronte è sfocato ma, quando il detective si gira di spalle, viene messo a fuoco rivelando degli uomini in tenuta mimetica che si apprestano a un raid. È una geniale invenzione andersoniana e, forse, anche una cripto-citazione del suicidio dello scrittore hemingwayano de "Il lungo addio" di Robert Altman, che si svolgeva sul profilmico, quando Marlowe guardava da un'altra parte. La messa in scena di Anderson oltrepassa la scissione canonica tra reale e onirico, immergendo lo spettatore in una dimensione altra per mezzo di sottili slittamenti che portano il flusso delle immagini dalle parti del trip lisergico, senza sentire la necessità di forzare sul piano espressivo-visionario.
Doc, nella prima scena, ha lo sguardo perso nel vuoto, al di là dei margini dell'inquadratura: non sappiamo cosa cerchi, cosa fissi, e quando si volta per l'improvviso palesamento di Shasta, lei, che resta sulla soglia (in bilico tra passato e presente), gli chiede se pensa che sia un'allucinazione. Elliott Gould racconta che sul set de "Il lungo addio" chiamavano il suo Marlowe Rip Van Winckle, come il personaggio di Washington Irving che, dormendo vent'anni, si risveglia dopo la Rivoluzione americana. Allo stesso modo Shasta ridesta Larry "Doc" Sportello, un hippy che ha sognato la rivoluzione e si ritrova invece nel pieno della restaurazione Nixon. Lo stato di polizia è ben rappresentato dal detective e attore part-time Christian "Bigfoot" Bjornsen (Josh Brolin protagonista di alcune delle gag migliori) nell'ennesimo incontro-scontro tra personaggi maschili del cinema andersoniano, memore del tema del doppio in Kubrick. Il rapporto tra Bigfoot e Doc ha elementi di buddy movie, flirta con la tensione omoerotica (col poliziotto che continua a succhiare banane gelato davanti al private eye) e finisce per essere una improbabile quanto straziante storia di amicizia (o amore) impossibile, dovuto a un passato che ritorna come tormento.
Nella pellicola Shasta assume la funzione metonimica intorno a cui galleggia la memoria di Sportello: i flashback idealizzati sono l'epitome di un mondo che non aveva perso la sua innocenza, fatto di romantiche corse sotto la pioggia alla ricerca di un po' di erba. Il surplus lisergico che ha tagliato le gambe alla controcultura si lega alla fogna della guerra del Vietnam, alla presidenza Nixon (lo scandalo Watergate è alle porte) e al ritorno a un paranoico ordine precostituito a cui Doc assiste con disincanto. Durante la sua indagine, egli scopre un istituto di rehab con, all'ingresso, l'inscrizione "Straight is Hip" (identico nella grafica all'Arbecht macht frei di Auschwitz) dove viene trattenuto il magnate-fantasma, il quale, innamoratosi del movimento hippy, iniziava a coltivare il sogno di devolvere tutte le sue ricchezze: il grottesco teatrino fa parte della Golden Fang che lucra su tutte le tappe della filiera della droga, dalla produzione fino alla disintossicazione. È la società capitalista che, prima o poi, conquista e vizia dall'interno le isole di libertà che alcuni uomini avevano immaginato ancora possibili. È questo il vizio intrinseco, quello che corrompe i sentimenti rivoluzionari e corrode anche i ricordi: dopo che Doc ha fatto l'amore con Shasta controlla che non abbia dei segni sul collo, che non sia marchiata dalla Golden Fang. Per Doc c'è solo una malinconica e impossibile fuga dalla realtà, perché non esiste una realtà ulteriore più (o meno) folle e allucinata rispetto a quella che vive: il primo piano che stringe su di lui nel finale esclude ciò che l'uomo vede facendolo sorridere, lasciando il dubbio che sia dentro un dolce e protettivo trip dal quale è meglio non uscire.
In un film affollato di personaggi secondari, ciascuna parte è caratterizzata e interpretata con grazia, ma è strabiliante l'ennesima trasformazione di Joaquin Phoenix che, con la sua recitazione felina e istintiva, fatta di improvvisi scatti degli occhi, micro-espressioni e frasi perennemente biascicate, rende Larry Sportello un personaggio iconico e memorabile. Il cinema di Paul Thomas Anderson è ormai molto simile al suo protagonista resistente e anticonformista e sta tracciando in solitaria un solco nel cinema americano contemporaneo, con uno stile di regia e di racconto che ha fatto della libertà il denominatore della sua maturità artistica.
cast:
Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterston, Reese Witherspoon, Benicio Del Toro, Martin Short, Joanna Newsome
regia:
Paul Thomas Anderson
titolo originale:
Inherent Vice
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
148'
produzione:
Warner Bros., Ghoulardi Film Company
sceneggiatura:
Paul Thomas Anderson
fotografia:
Robert Elswit
scenografie:
David Crank
montaggio:
Leslie Jones, Melanie Oliver
costumi:
Mark Bridges
musiche:
Jonny Greenwood