La periferia di Roma sembra ancora una volta un non-luogo, uno spazio edificato e lasciato in mano allo scorrere del tempo, degradato eppure così bucolico nei suoi anfratti cementizi, nelle sue strade di collegamento e nei suoi piazzali vuoti riempiti dal sole torrido e dalla spazzatura in terra. Eccola la Roma limitrofa dei fratelli D'Innocenzo (appaiono così nei titoli i registi Damiano e Fabio); altra scommessa di coppia dopo la novità Guaglianone/Resinaro ("Mine"); altra sicurezza del genere dopo i Manetti ("Ammore e Malavita")? Salde sono le certezze dell'abilità del duo a muoversi nella storia criminale, dunque nella categorizzazione cinematografica che tanto mancava al cinema italiano e tanto sta riaffiorando. Ma "La terra dell'abbastanza" incorpora il genere per farne racconto di vita ai margini del Grande Raccordo Anulare, con un occhio, questo sì confermatosi prepotentemente nel cinema successivo a "Gomorra", all'intento veristico delle vicende impregnate tanto di dialetti e regionalismi nella scrittura quanto di lunghe sezioni di macchina a mano nella regia. Nessuna fuga documentata ovviamente (siamo lontani da "I Cormorani" o "Manuel") perché i D'Innocenzo assecondano la scrittura di genere prendendo forse spunto da puntate precedenti in questo universo territoriale, ma con uno stile registico e una drammaturgia personalissima.
Mirko e Manolo sono inseguiti dall'occhio della cinepresa mentre investono mortalmente un criminale, mentre fanno le prove per portare la pistola della banda a cui si affiliano, mentre uccidono e inseguono la "svorta", cioè lo svincolo per lasciare il non-luogo. L'inserimento e la crescita nell'ambiente criminale avviene per caso; sospinti a mettere a posto le situazioni familiari, i ragazzi trasformano un'accidentalità in una incidenza naturale, parte del loro percorso di crescita, ponendosi in una posizione ambigua nei confronti di loro stessi e di chi li osserva dall'esterno. Furioso animali anche se non lo sono, convinti di essere portati per questo tipo di vita e rafforzando il loro legame con la degenerazione piuttosto che con gli affetti.
Questa doppiezza prende forma grazie alla capacità dei D'Innocenzo di riempire la sceneggiatura di piccoli dettagli affascinanti, affondando pian piano nei caratteri dei personaggi di contorno e nei contesti in cui si svolge la trasformazione di Mirko e Manolo. Così il sughetto di pomodoro preparato mentre si cucina la droga da spacciare, il rantolo di un anziano della banda durante un rapporto sessuale, l'indecisione di Manolo a premere per la prima volta il grilletto di fronte alla sua vittima diventano potenti elementi di senso che scavano in un racconto fatto soprattutto di persone e che sulle persone rimane attaccato. I piani-sequenza, i volti in primissimo piano, così come l'audio in presa diretta, aumentano il senso di immersione in una suburra per giovani adepti da svezzare e, all'occorrenza, usare.
Sembra di essere nella Gioia Tauro di "A Ciambra", senza la dimensione etnografica, con la sostituzione del lirismo emozionale agli stati onirici nel film di Jonas Carpignano. Eppure non c'è esasperazione o compiacimento visivo di questa sofferenza, difatti le ellissi temporali tagliano spesso il racconto e sospendono il giudizio morale, lasciano ai fatti il compito di raccontare. In una Roma così cruda, la violenza può essere un atto distante come l'occhio sopraelevato sopra le baracche nel finale che spezza la distanza con la violenza, la relega a momento fuori campo per convergere immediatamente con un altro atto di morte. La fotografia di Paolo Carnera sublima questi processi in un'alternanza di toni caldi e freddi, ammorbidendo e poi congelando l'immagine, dandosi il cambio con il jazz ambientale (Bohren & Der Club of Gore).
Pur pagando il dazio di essere arrivato in un momento in cui il cinema criminale in questo ambiente periferico è ormai un bosco fittissimo, ciò non preclude ai giovani Fabio e Damiano D'Innocenzo un posto in questa flora che può regalare sempre nuove modalità di approccio. Circondati da una troupe d'esperienza, i registi inscenano una demitizzazione del criminale avvolta nell'ambiguità della scelta. Si lasciano andare in un finale che fa da orpello gravoso e fiaccante, corpo estraneo, probabilmente a sottolineare ancora una volta (di troppo) l'aridità vitalistica del microcosmo di periferia, probabilmente per il troppo amore verso i loro personaggi. Può essere una colpa questa?
cast:
Luca Zingaretti, Max Tortora, Milena Mancini, Matteo Olivetti, Andrea Carpignano
regia:
Fabio DInnocenzo, Damiano DInnocenzo
titolo originale:
La terra dell'abbastanza
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
95'
produzione:
Pepito Produzioni
sceneggiatura:
Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo
fotografia:
Paolo Carnera
scenografie:
Paolo Bonfini
montaggio:
Marco Spoletini
costumi:
Massimo Cantini Parrini
musiche:
Toni Bruna