Tra reazioni perplesse e altre più violente, tra fischi e qualche grido ai danni di Isabella Ferrari che ritira il premio per la miglior interpretazione femminile, si è conclusa la settima edizione del Festival di Roma. Si ricorderà sicuramente per le scelte spiazzanti della giuria, a favore di film che hanno suscitato solo reazioni agli antipodi, non mettendo d'accordo tutti. Un verdetto "non all'unanimità"
CONCORSO INTERNAZIONALE
- Marc’Aurelio d'Oro per il miglior film: "Marfa Girl" di Larry Clark
- Premio per la migliore regia: Paolo Franchi per "E la chiamano estate"
- Premio Speciale della Giuria: "Alì ha gli occhi azzurri" di Claudio Giovannesi
- Premio per la migliore interpretazione maschile: Jérémie Elkaïm per "Main dans la main"
- Premio per la migliore interpretazione femminile: Isabella Ferrari per "E la chiamano estate"
- Premio a un giovane attore o attrice emergente: Marilyne Fontaine per "Un enfant de toi"
- Premio per il migliore contributo tecnico: Arnau Valls Colomer per la fotografia di "Mai morire"
- Premio per la migliore sceneggiatura: Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue per "The Motel Life"
CONCORSO CINEMAXXI
Premio CinemaXXI (riservato ai lungometraggi): "Avanti Popolo" di Michael Wahrmann
Premio Speciale della Giuria – CinemaXXI (riservato ai lungometraggi): "Picas" di Laila Pakalnina
Premio CinemaXXI Cortometraggi e Mediometraggi: "Panihida" di Ana-Felicia Scutelnicu
CONCORSO PROSPETTIVE ITALIA
Premio Prospettive per il migliore Lungometraggio: "Cosimo e Nicole" di Francesco Amato
Premio Prospettive per il migliore Documentario: "Pezzi" di Luca Ferrari
Premio Prospettive per il migliore Cortometraggio: "Il gatto del Maine" di Antonello Schioppa
Menzioni speciali: Cosimo Cinieri e in memoria di Anna Orso per "La prima legge di Newton"
La lista completa dei premi assegnati al settimo Festival Internazionale del Film di Roma
Più interessante è invece il secondo aspetto, quello legato ai film selezionati il cui menù sia in termini numerici che di ripartizione all'interno delle varie sezioni offre, fin da subito, degli spunti per qualche considerazione più attagliata al senso di questa introduzione. E allora, partendo dalle dichiarazioni del neo-direttore che ha parlato di un festival schizofrenico, ugualmente sbilanciato tra intrattenimento popolare - l'ultimo episodio di "Twilight" ma anche il Sylvester Stallone diretto da Walter Hill sono della partita - e ricerca autoriale, emerge il primo dato significativo che è anche un marchio di fabbrica di ogni allestimento muelleriano: la volontà di essere vetrina di un cinema assolutamente inedito. Da qui la presenza di ben 60 anteprime presentate nella varie sezioni del concorso e poi, altra costante, il forte investimento sul panorama nazionale chiamato a recitare un ruolo di prima piano con ben tre film nel concorso ufficiale (Pappi Corsicato, Paolo Franchi e Claudio Giovannesi) ed una sezione, "Prospettive Italia", dedicata alle nuove linee di tendenza del nostro cinema; in questo spazio spiccano numerosi ritratti di maestri della settima arte celebrati da altrettanti documentari (da Verdone a Tornatore passando per Giuliano Montaldo); esordi piuttosto curiosi come quello del giallista Carlo Lucarelli ("L'isola dell'angelo caduto"), alle prese con la riduzione di un suo romanzo ambientato negli anni del fascismo; e conferme di una fama che, nel caso di Michele Placido, supera i confini nazionali per arrivare in Francia, patria del polar, al quale il nostro da oggi contribuisce con "Le guetter" che insieme alla presenza di star internazionali, come Daniel Auteuil e Mathieu Kassovitz, vede nel cast anche i nostri Luca Argentero e Violante Placido.
Nel concorso ufficiale spicca l'accostamento di notorietà eterogenee e di individualità come quelle di Larry Clark, già autore degli scandalosi "Kids" e "Ken Park" e qui ai nastri di partenza con un racconto di formazione ("Marfa Girl") a base di sesso, droga e rock and roll, o di Valérie Donzelli, in cerca di un bis dopo il successo di "La guerra è dichiarata"; per non parlare di Roman Coppola, sicuramente desideroso di un'affermazione capace di affrancarlo definitivamente dall'ingombrante genitore e speranzoso, quindi, sugli esiti di un film come "A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III" che ricorda non solo nel titolo il cinema di Wes Anderson, ma è capace di annoverare attori quali Bill Murray, Charlie Sheen e Patricia Arquette. Ed ancora Takashi Miike, che ritorna alle origini con il thriller-horror "Lesson of the Evil", ed Aleksei Fedorchenko, quest'anno nelle sale con "Silent Souls" e qui in concorso con "Spose celesti dei mari della pianura", un collage di 29 racconti dai toni fiabeschi e magici.
Per chi non si dovesse accontentare di tali asperità e proprio non ce la facesse a digerire film attesi e glamour come "Populaire", storia ambientata negli anni 50 con le facce e i corpi di Romain Duris e Bérénice Bejo ("The Artist") avrà pane per i suoi denti nella sezione "CinemaXXI", dove con formati di ogni tipo e durata trovano asilo le nuove correnti del cinema mondiale e, in cui, oltre ai talenti di domani, vengono ripescate vecchie conoscenze dell'indie come Amos Poe ("Walk in the Park"), ex-enfant prodige come Mike Figgis ("Suspension of Disbelief") e Paul Verhoeven ("Steekspel"), o artisti eternamente giovani come Peter Greenway e Manoel de Oliveira, parte in causa nell'omaggio alla città di Guimarães, realizzato a più mani con colleghi del calibro di Petro Costa e Aki Kaurismaki. Senza dimenticare le "Masterclass" che ogni anno costituiscono il valore aggiunto della manifestazione capitolina e che, in questa edizione, daranno ai frequentatori l'occasione di incontrare personalità quali Walter Hill, Paul Verhoeven, James Franco. Insomma come spesso accade ad ogni festival, anche quello di Roma 2012 non si sottrae a curiosità ed aspettative che ne stimolano la visione. Per sapere se le previsioni verranno rispettate, e nell'impossibilità di verificare di persona, non vi resta che seguirci e, soprattutto, leggerci.
***Sabato 17 Novembre, nono giorno
Fuori concorso
Una pistola en cada mano di Cesc Gay
La crisi dell'identità maschile nasce da lontano e trova nel cinema capolavori come "Mariti"di John Cassavetes e "Tre mogli, gli amici ed affettuosamente le altre" di Claude Sautet che, tra gli altri, hanno rappresentato per molti versi il punto di partenza per ulteriori analisi. Diversamente da quel cinema, per momento storico e linguaggio cinematografico, il nuovo film del regista spagnolo Cesc Gay, arrivato a discreta fama per il suo "Krampack" (2000), aggiorna ai nostri tempi il disagio di quel mondo rappresentandolo in otto storie, suddivise in episodi a sé stanti che si incrociano alla fine con l'escamotage di una festa a cui i protagonisti finiscono per partecipare. Si individuano in diversa maniera altrettante problematiche: innanzitutto il tradimento, perpetrato e subito con risultati allo stesso modo deludenti (nel terzo episodio interpretato da Riccardo Darìn traditore e tradito sono accomunati dal medesimo rammarico), e poi, con diverse sfumature, il fallimento del proprio ruolo familiare, messo in secondo piano da matrimoni falliti e poi ripensati - ci riferiamo al personaggio di Javier Càmar che, separato, chiede alla moglie di ritornare a vivere insieme - per arrivare alla patologia con impotenza e gelosia a farla da padrone in quello conclusivo. Di impianto teatrale, con la macchina da presa praticamente ferma e centrale rispetto agli attori, "Una pistola en cada mano" si fa apprezzare per l'intelligenza con cui traduce temi ampiamente conosciuti, rinnovandoli con il gusto per il paradosso e una voglia di non prendersi sul serio che smorza in parte la malinconia, quella sì, simile ai modelli citati all'inizio, che gli esiti delle storie, con il loro finale aperto e sospeso ad una dubbia felicità, producono. Eccellente l'ensemble attoriale a cui partecipano, oltre a quelli già citati, nomi come Eduardo Noriega, Leonor Waitling e Jordi Molla. Una commedia sui sentimenti che non mancherà di deliziare anche il pubblico italiano se i distibutori si ricorderanno di acquistarlo e poi di distribuirlo. (CC)
Voto: 7
Prospettive Italia
Razzabastarda di Alessandro Gasman
Ambientato a Latina e girato prevalentemente in interni, "Razzabastarda" è la storia di un amore dimezzato dai condizionamenti del milieu delinquenziale ed ambiguo in cui si muovono Roman, pusher romeno e analfabeta di origini gitane (da cui il titolo del film) e il figlio Nicu, adolescente prematuramente abbandonato dalla madre e in cerca della propria identità. Nella baraccopoli che costituisce la loro casa e funge da negozio per l'attività di gommista, Roman spaccia droga nella speranza di assicurare a Nicu un'esistenza diversa e migliore, e nel frattempo si occupa di lui soffocandolo con attenzioni incapaci di leggerne il disagio. Nel tentativo di contribuire al sodalizio, e all'insaputa del padre, Nicu si intromette negli affari del genitore con conseguenze imprevedibili e drammatiche. Girato in un bianco e nero di una consistenza materica che sembra espellere dallo schermo la sporcizia morale e anche fisica d'ambienti e personaggi, "Razzabastarda" esplode la sua rabbia in uno stile concitato e ferino che tende ad accumulare sensazioni e stati d'animo in una regia che non molla per un attimo gli attori, e una recitazione di stati d'animo tradotti da un attrito continuo di facce e di corpi che insieme costruiscono la rappresentazione di un mondo tribale e violento, applicato tanto agli immigrati romeni, ripresi in un sottobosco scandito da senso appartenenza e desiderio di potere, che alla componente indigena, tra drogati, malavitosi e poco di buono, cristallizzati in un quadro di generale sopraffazione. Sdoppiato nel duplice ruolo d'attore e di regista, Alessandro Gassman se la cava egregiamente accompagnato anche dalla bravura degli altri interpreti. In particolare la sua regia dimostra di possedere un senso dello spettacolo che proietta il suo film dalle parti del cinema americano, con una regia pragmatica e consistente che ricorda quella di Stefano Sollima in "Acab". Meno efficace risulta il messaggio sociale, quello legato ad una realtà di tipo pasoliniano, e contenuto in un'analisi del tessuto sociale che in termini di resa testimoniale rimane sacrificata alle esigenze di fruibilità e di azione. Un difetto che appartiene anche al cuore del film, con il rapporto padre figlio un po' troppo a senso unico nella sua mancanza di sfumature. Ciononostante, la pellicola è ben realizzata e non mancherà di trovare il suo pubblico (CC)
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Conferenza stampa: Razzabastarda
Conferenza stampa piena di sorrisi e complimenti quella di "Razzabastarda" dove Alessandro Gasman parla con soddisfazione del suo primo lavoro cinematografico: "Fare la regia di un lavoro che ho portato per così lungo tempo in teatro (tre anni e trecento repliche) è stato così naturale che, ad un certo punto, mi sembrava di averlo sempre fatto quel mestiere. La storia era dentro di me e rappresentarla è stata una conseguenza di questa condizione". Una contentezza che il neo-regista condivide con il resto del cast: a cominciare dal coprotagonista Giovanni Ansaldo, "una faccia che con Pasolini avrebbe sempre lavorato", e poi con il direttore della fotografia, fondamentale, come dice giustamente Gasman per la resa visiva del film. Sull'uso del bianco e nero anche motivi contingenti: "giravamo in primavera e il sole di quella stagione non si conciliava con la mia volontà di collocare la storia in una sorta di inverno, non solo emotivo ma anche metereologico" e poi "il bisogno di replicare al cinema la fatica che avevo visto nella rappresentazione teatrale" dice il direttore della fotografia. A chi gli dice che nel suo film c'è molto Pasolini, il regista annuisce e poi snocciola i suoi registi di riferimento: Kassovitz, di cui "Razzabastarda" ricorda nei temi e nelle estetiche, e poi ancora il Larry Clark di "Kids" e "Ken Park". Girato a Latina con l'aiuto della locale Film Commission, la città laziale era ideale "perchè è una città multietnica, piatta, senza orizzonti. E anche per un degrado filmabile in tutti i luoghi, visto che di fatto non ha un vero centro storico". Ora la palla passa al pubblico delle sale, quello della stampa ha apprezzato (CC)
Fuori concorso
Tom le cancre di Manuel Pradal
Un classe di scolari è in gita, quando la maestra mangia una bacca e sviene: i bambini credendola morta si affidano al "secchione" che però ammette di essersi perso dopo poco. Con lui rimangono solo gli amici più stretti e la mattina dopo si imbattono in Tom il somaro (le cancre, in francese), che è andato a vivere nei boschi visto che veniva deriso da tutti. Tom prende i bambini sotto la sua ala e inizia un corso di "diseducazione", una cura a base di lavoro manuale, fatica e vermi all'ora dei pasti. Convinto dai suoi adepti di riportarli a casa, va in cerca del "lupo", un uomo che vive nelle caverne e ha un lupo sulle spalle, e lo convince a riparare un auto abbandonata (una Simca) in cambio di un bambino da mangiare (il ritrovato "petit" Peter). Da qui in poi è inutile anche elencare le cose che succedono: presa questa piega favolistica, Pradal pensa di poterci infilare qualsiasi cosa accada. E così da un "signore delle mosche" rivisitato si passa per Pinocchio e le favole dei fratelli Grimm senza alcuna coerenza. Non c'è nulla di male a voler realizzare una favola, ma anche le favole hanno una loro logica interna di cui "Tom le cancre" è privo, cambiando registro ogni dieci minuti, come se Pradal avesse inserito ogni idea "stramba" che gli fosse venuta in mente (compresi un'infinità di blooper, alcuni sicuramente voluti, mentre su altri sospendiamo il giudizio).
Lo vedremo nei pomeriggi estivi di Italia Uno. (GG)
Voto: 4
Fuori concorso
Black Star di Francesco Castellani
Non tutti nascono sotto una buona stella e c'è chi è quindi nato su una "stella nera": lui può solo sperare di sopravvivere, sperando in un miracolo. Il miracolo di cui si parla è la nascita del Liberi Nantes Football Club, avvenuta a Roma dopo una strenua resistenza da parte di alcuni tenaci ragazzi che hanno occupato insieme alla loro squadra, composta da immigrati forzati e rifugiati politici, un campetto nel quartiere di Pietralata. Il regista Francesco Castellani aveva raccontato questa storia con un documentario, "Liberi Nantes Football Club" presentato proprio a Roma nel 2009, e ora l'ha rifatto con un film di fiction. Peccato per l'esilità della sceneggiatura che si poggia totalmente sui fatti realmente accaduti, portando il processo di drammatizzazione all'eccesso con la conclusione favolistica. Peccato, perché la sensazione che si respira è quella dei dilettanti allo sbaraglio, con recitazioni stentate o sovreccitate e una regia prossima allo zero, che non si può definire nemmeno "da fiction televisiva" perché gli si farebbe un complimento. Peccato, infine, perché il soggetto offriva svariate chiavi per leggere gli italiani di oggi e divenire metafora di un'ipocrita senso nazionalistico che fa perdere il senso delle proporzioni: più che la libertà di giocare a calcio ha vinto la melassa. (GG)
Voto: 3
Venerdì 16 Novembre, ottavo giorno
In Concorso
The Motel life di Gabriel ed Alan Polsky
L'ultima fatica della regista ucraina in concorso a Roma si apre nell’appartamento di una donna in cui fa "irruzione" un suo vecchio compagno di studi. I due non si vedono da vent’anni e l’uomo, lì per affari, decide di andarla a trovare e di riversare la sua disperazione sentimentale; ama infatti due donne: la moglie, con la quale è sposato da dieci anni, e una ragazza incontrata tre mesi prima e di cui non può fare a meno. La donna ascolta ma non dà i consigli che l’uomo sperava di ricevere: anzi si dimostra piuttosto seccata e insensibile, profilandogli solo tre possibilità. Scegliere la moglie, scegliere l’amante, o continuare con entrambe; oppure un’altra più eccitante, scappare mollandole entrambe. Girato con più piani sequenza, il primo dei quali dalla virtuosa durata di sette minuti, la scena si conclude con uno stacco. Si succede la medesima scena con altri attori che interpretano i personaggi in maniera differente. Sono "i provini" della Muratova, due ore di esercizi di stile dedicati al mestiere dell’attore, infusi di ironia brillante e sofisticata. Se si sta al gioco, tra metacinema (conclamato, per chi non è uscito dopo la prima mezz’ora) e straniamento beckettiano, "Eterno ritorno: Provini" è un delizioso divertissement. (GG)
Voto: 7
Fuori concorso
La bande des Jotas di Marjane Satrapi
Dopo il boom di "Persepolis" che l'ha fatta diventare una beniamina di pubblico e critica Marjane Satrapi non sa più che pesci prendere. E così, dopo l'ibrido e pasticciato "Polo alle prugne" (2011), la regista iraniana torna al cinema con un corpo estraneo, inzialmente destinato a essere un corto, e poi per misteriosi motivi gonfiato fino a farlo diventare un film con il titolo di "La bande des Jotas", presentato in anteprima mondiale e fuori concorso al festiva di Roma. La trama è presto detta: una donna perseguitata dalla mafia convince due sconosciuti a liberarla dalla minaccia della banda di malavitosi che la vuole eliminare. Da quel momento, attraverso un viaggio nella penisola iberica, il racconto si sviluppa con un "on the road" che testimonierà l'efficacia assassina dell'inedito trio, con una sorpresa finale che rimette tutto in gioco. Girato con scarsi mezzi ed in un lasso di tempo brevvissimo, il film della Satrapi dimostra il fiato corto quando per portare avanti la frittata espande il minutaggio con inserti posticci come quello della regista che improvvisamente si mette a ballare, propinandoci la sua esibizione fino all'ultima nota della canzone, oppure quando mette sullo schermo, in soggettiva e in primo piano, la strada che si apre di fronte agli occhi dei personaggi che stanno andando verso la meta finale. Variazioni che di per sè andrebbero anche bene in un altro tipo di cinema ma che, nella storia scherzosa e straniante che vediamo, appaiono sinceramente poco centrate. La Satrapi, interprete nel ruolo della protagonista, dà tutto per scontato e non spiega nulla. Gioca sul nonsense e sui corpi dei personaggi, rivelando ancora una volta la matrice fumettistica e cartonesca del suo cinema. Il film, deludente per chi scrive, è stato salutato da un applauso caloroso al termine della proiezione ufficiale. (CC)
Voto: 5
CinemaXXI
Judge Archer Liu Baiyuan di Xu Haofeng
Il nome di Xu Haofeng non dirà granché a molti. Ha presentato l'anno scorso il suo esordio "The Sword Identity" alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, un wuxiapian raffreddato e asciugato dal lato fantasy e immaginifico del genere. Questo "Judge Archer Liu Baiyuan" rilegge il genere seguendo la linea storico-filologica di Xu, studioso di taoismo e arti marziali, e lo dimostra l'incipit che ci spiega la posizione sociale del Giudice-Arciere, un maestro che doveva dirimere i conflitti tra le scuole di arti marziali (principalmente tra quelli di spada, rappresentanti le qualità personali, e della lancia, il potere politico), portando l'equità e la giustizia. Il film Xu Haofeng sfrutta il genere per raccontare la rinascita spirituale del protagonista che aveva perso se stesso (rinnegando il suo nome) dopo aver assistito impotente allo stupro della sorella, identificandosi poi con la figura del Giudice-Arciere riacquista un posto nel mondo e la pace interiore. Nel mezzo le contraddizioni di un uomo che pur avendo fatto un giuramento e svolgendo la propria missione in maniera diligente, non riesce a risolvere i problemi personali, innamorandosi della donna di un anziano maestro...
La regia di Xu è cela virtuosi movimenti di macchina in perfette geometrie con un montaggio dalla precisione chirurgica. Un velo di ironia alleggerisce i toni di un'opera che potrebbe prendersi apparentemente sin troppo sul serio. Xu Haofeng ha anche sceneggiato "The Grandmaster", il prossimo Wong Kar-wai. (GG)
Voto: 7
CinemaXXI
Dream di James Franco
Tar di AAVV
Il film collettivo scritto e diretto da 12 cineasti esordienti e tra i cui produttori spicca il nome di James Franco è stato preceduto da un cortometraggio diretto dallo stesso attore: si tratta di "Dream", un unico piano sequenza dove carrelliamo dentro una casa e intravediamo scenari onirici fino alla cucina che si affaccia sul Grand Canyon. Ottima realizzazione tecnica e gran gusto per i dettagli, ma non si può dire oltre visto che il corto dura meno di centoventi secondi.
"Tar" invece è un interessante esperimento, sia per la natura collettiva del progetto, sia per l’idea formale che i registi hanno voluto dare alla loro opera prima. Il titolo è lo stesso di una famosa raccolta di poesie di C.K. Williams, da cui il film è ispirato. Il protagonista è il poeta stesso che vediamo all’inizio leggere le sue poesie (e l’immagine ritornerà più volte): come se volessimo concentrarci sui nuclei biografici che hanno ispirato il poeta, si torna indietro nel tempo e lo rivediamo con le fattezze di James Franco e di Henry Hopper (per i ricordi del passato giovanile, più vari altri attori-bambini). La narrazione è naturalmente frammentaria: cercando di ricreare per immagini la poesia di Williams in cui la luce si incontra con un senso di decadenza e morte imminente, i registi fanno avanti indietro tra le parole e il vissuto biografico dello scrittore, trovando analogie e ottime intuizioni, come il passato fotografato con la grana della bassa definizione rispetto al presente. Il nume tutelare si chiama Terrence Malick e in certi casi la filiazione diventa evidente in maniera imbarazzante: al di là della luce del sole che filtra tra i rami degli alberi e i ragazzi che vagano per i giardini, hanno avuto l’ardire di scegliere Jessica Chastain nel ruolo della madre. D’altra parte, era difficile che dodici esordienti riuscissero a trovare un’unica "voce" e hanno preferito appoggiarsi all’universo poetico e visivo malickiano, già consolidato dal tempo. Per certi aspetti, lo si può vedere come un ottimo saggio di fine accademia...(GG)
Voto: 7
Giovedì 15 Novembre, settimo giorno
In concorso
Drug War di Johnnie To
Dopo alcuni anni in cui il glorioso nome di Johnnie To sembrava essersi un po' appannato, tra alcuni film ingiustamente sottovalutati ("Mad Detective" e "Sparrow" in primis) e altri progetti inferiori per riuscita complessiva (la co-produzione francese "Vendicami") o per aderire al mainstream cinese ("Romancing in thin air" visto al Far East di Udine), il regista fa un ritorno in grande spolvero con "Drug War", seconda "sorpresa" del programma della settima edizione del Festival di Roma.
Primo film che To gira interamente in Cina, con alle spalle una produzione che parla il mandarino, "Duzhan" è un poliziesco concitato e serratissimo che segue l'apice di un'operazione di polizia per arrestare dei fabbricanti e trafficanti di droga. Girato in maniera sontuosa ma asciugato dal suo stile esuberante, con una fotografia plumbea che richiama il realismo autoriale dei registi dell'ultima generazione (Jia Zhang-ke e Wang Bing), il poliziesco di To è un gioco di maschere e tradimenti, costruito su più livelli - e che è riescito abilmente anche ad aggirare la censura, mostrando per la prima volta un'esecuzione capitale. (GG)
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In concorso
Un enfant de toi di Jacques Doillon
"Un enfat de toi" è un’opera che si immerge nella vita senza mezze misure, scandagliandola in lungo e in largo per farne uscire le contraddizioni dei sentimenti che la muovano. Per farlo, Doillon chiude i suoi personaggi all’interno di un'ossessione amorosa che ricorda "Jules e Jim" nel legame che lega a doppio filo Aya (Lou Dillon figlia del regista), madre di Lina, a Victor, il suo nuovo compagno, e a Louis, l’ex che ha deciso di rivedere dopo che Victor gli ha espresso il desiderio di diventare padre. Una richiesta che scombina il fragile equilibrio della donna, mettendo in moto una giostra sentimentale che la vedrà contesa dai due uomini, in un continuo prendersi e lasciarsi.
Come un testo teatrale "Un enfant de toi" è diviso in tre atti. Una scelta che permette di focalizzare l’attenzione sull’importanza dei dialoghi che, insieme alle performance attoriali, costituiscono la parte più vistosa del lavoro di Doillon. E’ infatti la combinazione di queste due componenti, quello della parola scritta, costruita sulla cura del vocabolario e la precisione della partitura, e della sua traduzione all’interno delle immagini, attraverso l’interpretazione che ne danno gli attori (spontaneamente utilitaristica), a rendere fruibile un film altrimenti destinato a far sentire il peso di un testo che torna continuamente su se stesso, con variazioni di segno anche all’interno della stessa sequenza che rendono bene l’instabilità di Aya, divisa tra due uomini dalle diverse virtù caratteriali. (CC)
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In concorso
A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III di Roman Coppola
Roman Coppola è il figlio di Francis Ford e il fratello di Sophia, che ha affiancato più volte nella produzione (o nella regia di seconda unità). Soprattutto, Roman è uno degli amici e sodali di Wes Anderson e ha co-sceneggiato "Moonrise Kingdom", di imminente uscita nelle sale italiane.
Si potrebbe definire il secondo lungometraggio di Coppola jr. un "Wes Anderson dei poveri", visto che si possono notare vistosi ammiccamenti ai suoi stilemi: il setting temporale negli anni '70, l'attenzione maniacale ai costumi, alla scenografia e ai dettagli della messa in scena, che rivelano quasi sempre una citazione o un omaggio cinefilo, e, naturalmente, un gruppo di protagonisti nevrotici e malinconici.
Charles Swan (un ottimo Sheen, istrione malconcio) è un egocentrico grafico che viene lasciato in maniera improvvisa (la fatidica ultima goccia è stata la scoperta delle foto di nudo delle ex di Charles) dalla fidanzata Ivana. Abituandosi all'idea di quest'amore finito, comincia a fare un bilancio del suo mondo affettivo. Attorno a lui l'amata sorella (Patricia Arquette), il suo avvocato (Bill Murray) e il suo più grande amico (Jason Schwartzman nel ruolo di uno stand-up comedian). Nonostante il flusso dell'immaginazione di Swan che si sostituisce alla realtà facciano parte di un modo di raccontare particolare e, forse, desueto, l'opera nel suo complesso è troppo fiacca e monocorde per incidere laddove vorrebbe. Tutti i sogni del protagonista sono lasciati sullo stesso piano visivo della realtà, sottolineando la mancanza proprio di Wes, con le sue impareggiabili carrellate, con le sue geometrie che ritagliano lo spazio emotivo dei vari personaggi: se l'idea alla base di "A glimpse inside the mind of Charles Swan III" è interessante e piena di possibili spunti, alcuni attuati dalla stessa sceneggiatura, mancano però le soluzioni visive e registiche a controbilanciarle. (GG)
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CinemaXXI
Tutto parla di te di Alina Marazzi
Anche senza voler considerare le debolezza della traccia narrativa, lasciata volutamente aperta fino alla fine ma senza tenere desta l’attenzione necessaria per il segreto del personaggio della Rampling, abbastanza intuibile sin dall’inizio, "Tutto parla di te" è soprattutto una docufiction pensata male. Quello che perplime e stride nella costruzione dell’opera è la mancanza di omogeneità nel lavoro di architettare una narrazione che includa diegeticamente anche del materiale documentario che, per altro, risulta abbastanza forzato e pretestuoso. Com’è, d’altro canto, anche l’inserimento di due sequenze con personaggi di plastilina a passo uno che rappresentano la proiezione onirica nella possibilità di un finale diverso dei tragici ricordi di Pauline (la Marazzi si rifà alla pratica junghiana del sand-play). La gratuità con cui vengono gestiti i vari livelli stilistici non sono aiutati da una regia incerta e, spiace dirlo, banale: le inquadrature che aprono l’orizzonte alla natura circostante la città piemontese, dove si esalta ancora l’occhio della documentarista, sono di gran lunga superiori calla gestione di dialoghi - zoppicanti e didascalici – e di scene urbane, che ha riprese abbastanza povere. Non mancano i momenti poetici, quando ad esempio si sovrappongono le immagini fotografiche di Simona Ghizzoni con le sue donne fantasmatiche che sembrano sul punto di svanire o essere risucchiate dallo sfondo, e le stesse sequenze in stop-motion sono belle e riuscite. È il vettore del racconto a non essere una solida impalcatura per i restanti contenuti di un’opera che usa il cinema come mezzo di autoanalisi. (GG)
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Mercoledì 14 Novembre, sesto giorno
Fuori concorso
Bullet to the head di Walter Hill
La proiezione stampa mattutina dell’ultimo film di Walter Hill è stata accolta da un applauso convinto. Forse si attendeva, dopo il giro di boa della manifestazione capitolina, qualcosa del genere, così di genere. Un action muscolare senza troppi fronzoli, diretto da un regista sopravvissuto a un’altra epoca e che continua, con perseveranza. a fare i suoi film, alternando progetti più personali ad altri su commissione. Come appare, d’altronde questo "Bullet to the head" che, nonostante un titolo dal sapore wooiano, è un esemplare di cinema d’azione vecchio stampo, con tanto di rapporto tra il sicario della mala (un pompatissimo Stallone) e l’agente dell’FBI a ricordare i "buddy movie" degli anni 80. Tanta ironia, con battute a raffica, e una sceneggiatura semplice semplice scritta da un italiano (il produttore Alessandro Camon) e tratta da un fumetto. Se la pellicola, di per sé, non si segnala per avere qualcosa di realmente interessante per spiccare in un panorama dove qualche passo in avanti lo si è compiuto, "Bullet to the head" ha un certo rilievo in un discorso più ampio e intertestuale, visto che Jimmy Bobo appare essenzialmente come il fratello del protagonista de "I Mercenari" E proprio all’autoironia del dittico fortemente voluto da Sylvester Stallone sembra rifarsi il film di Hill, quasi come fosse uno spin-off. (GG)
Voto: 6
In concorso
E la chiamano estate di Paolo Franchi
Nelle opere di un autore esiste sempre un segno di riconoscibilità che le rende uniche e speciali. E' questo una sorta di lasciapassare in grado di spezzare il muro dell'indifferenza; e, ancora, il catalizzatore che intercetta il segreto nascosto dietro il telaio immaginifico e visuale dell' invenzione filmica. L'intensità della sua evidenza è la discriminante che stabilisce la profondità con cui questo elemento si imprime nei tessuti subliminali, permettendogli di entrare in sintonia con il divenire della storia. Una caratteristica che non dipende dall'intensità dell'applicazione e che, un regista ancora giovane come Paolo Franchi, dimostra di avere già acquisito, se è vero che anche il suo terzo film, "E la chiamano estate", è caratterizzato come i precedenti da un'assenza che produce dolore. A mancare tra Dino ed Anna è il rapporto sessuale che l'uomo rifugge nonostante sia profondamente innamorato della donna. Dilaniato dal senso di colpa, Dino si accoppia in maniera spasmodica con amanti occasionali e, nello stesso tempo, contatta gli ex-compagni di Anna per convincerli a ritornare con lei. Un percorso autodistruttivo che indirizza la coppia verso un abisso d'infelicità che sarà pagata a caro prezzo.
Ad inceppare il meccanismo è stavolta una scrittura che toglie forza alle immagini e che, in molti passaggi, si fa portatrice di ovvietà talmente scontate da suscitare la comicità involontaria . E' come se Franchi si trovasse a disagio con le parole: non deve essere certo un caso se il suo film più riuscito resti "La spettatrice" che di quelle sapeva fare a meno. Accolto con fischi e risate di scherno nella proiezione stampa, "E la chiamano estate" è stato contestato anche nella conferenza post-visione, con il regista laconico ed evidentemente disinteressato alle reazioni della platea. (CC)
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Conferenza stampa: E la chiamano estate
C'è tensione in conferenza stampa, come se gli addetti ai lavori volessero riversare sul film di Paolo Franchi una scontentezza per un concorso che fin qui non ha regalato nessun capolavoro. A farne le spese è l'atmosfera generale con Nicoletta Mantovani rammaricata per l'aggressività dei toni, e il regista laconico e disinteressato a fornire risposte a chi tra i presenti si è espresso in maniera negativa nei confronti del film. A chi lo accusa di essere stato troppo ermetico e di aver girato con poco ritmo risponde:"L'arte è egoista, non può arrivare a tutti e, nonostante queste reazioni, ci sarà qualcuno a cui il mio film finirà per piacere" ed ancora "Volevo raccontare l'amore come condivisione del dolore e mi rendo conto che la diversità che ho voluto esprimere possa essere spiazzante". Costato circa un milione e mezzo di euro "E la chiamano estate" è stato scritto pensando a un'idea del tempo che non è reale ma interiore, modellata sulle teorie di Bergson e, quindi, capace di concentrare nello stesso momento le tre declinazioni temporali. Ad alleggerire il clima ci prova Isabella Ferrari che, grazie alla stima per Franchi che ritiene un grande autore, non ha avuto problemi a recitare nuda e, per la prima volta, si è sentita libera di impersonare un ruolo senza indossare una maschera: "Ho parlato molto con Paolo e, nonostante non abbia compreso tutte le cose che lui aveva in testa, mi sono concentrata sul ruolo pensando al vuoto. In questo modo ho perso tutti i riferimenti e sono riuscita a rendere il senso di smarrimento e di perdita che appartiene ad Anna, il mio personaggio". Insieme a lei nel ruolo di Dino, l'attore e regista Jean-Marc Barr diventato famoso per "Le grand bleu" di Luc Besson e, successivamente, diventando sodale di Lars Von Trier di cui ha adottato il "Dogma". E' nella consapevolezza di un paese come l'Italia, ancora impreparato a forme d'amore come quella tra Dino e Anna, che l'artista francese chiude l'incontro e rimanda il giudizio al pubblico delle sale, dove il film uscirà la prossima settimana. (CC)
Prospettive Italia
Il Leone d'Orvieto di Aureliano Amadei
Il romano Amadei non ci aveva fatto strappare i capelli con la sua opera prima, tratta dal suo libro autobiografico "20 sigarette a Nassiriya". Torna con un piccolo lavoro documentario, di 75 minuti, dedicato all'ascesa del "leone d'Orvieto": dietro questo epiteto si cela Giancarlo Parretti, faccendiere e finanziere italiano che ebbe molto successo dalla fine degli anni '70 all'inizio dei '90, per poi essere condannato alla damnatio memoriae. Il documentario di Aureliano Amadei inizia da Orvieto, quando Parretti faceva il cameriere per un ristorante locale, poi il passaggio nelle navi da crociera e in maniera rapida e solo attraverso una strana rete di amicizie arriva in Sicilia dove, come lui stesso ci dice, è già un imprenditore. Ci si chiede, quindi, come Giancarlo Parretti sia riuscito a fare quello che ha fatto. È risaputo che frequentasse il partito socialista e l'ala craxiana che all'epoca si stava spartendo l'Italia: molti l'hanno dimenticato ma è stato proprio Parretti a rivendere l'A.C. Milan a Silvio Berlusconi oltre che una catena di sale cinematografiche. Il nostro, inoltre, è stato il protagonista di un'azione storica: dopo aver comprato la Cannon e la Pathé due colossi della produzione cinematografica in crisi, con la tecnica dei finanziamenti al rilancio (quindi tutti giocati su capitali virtuali), Parretti ha quasi per scommessa accettato di scalare la mitica Metro-Goldwin-Mayer, all'epoca vicina alla bancarotta e messa in vendita per l'ennesima volta da Kerkorian. Racconta alle telecamere, tra verità e personale mistificazione, che l'ha fatto quasi per scommessa, stretta mentre era a tavola con l'avvocato Agnelli insieme a Henry Kissinger. La cosa più singolare, però, è che vi è riuscito davvero! Questo mostro delle scalate agli imperi d'Oltreoceano lasciò attoniti un po' tutti: senza titoli di studi, senza conoscere una lingua straniera e con qualche difficoltà ad esprimersi bene anche in italiano, Parretti riusciva a spuntarla in ogni obiettivo che si prefissava. Da notare che quando la Crédit Lyonnais (la banca che finanziò l'acquisizione della MGM) licenziò Parretti e lo denunciò per abuso di fondi aziendali e frode fiscale, l'italiano si fece un paio di settimane di carcere mentre l'amico che lo tradì, Florio Fiorini, quattro anni. Amadei senza sforzarsi più di tanto nel lavoro cinematografico, attraverso interviste agli interessati e ai giornalisti che hanno ricostruito i fatti, inserendo immagini, articoli e filmati d'epoca si limita a realizzare un documentario che esemplifica l'arte di arrangiarsi di ultima generazione. Quella che ci ha governato fino all'altro ieri. (GG)
Voto: 6.5
Martedì 13 Novembre, quinto giorno
In concorso
Mai morire di Enrique Rivero
"Mai morire" è il classico esempio di quella tipologia che viene malignamente etichettata come "film da festival". Proveniente da una cinematografia poco conosciuta, cioè quella del Messico, nota per lo più per registi che hanno emigrato a Hollywood, l’opera seconda di Enrique Rivero (che con l’esordio vinse il Pardo d’oro a Locarno) ha ritmi lenti e tempi dilatati, con molti piani fissi e uno stile che tende a essere contemplativo. Rivero indaga la ricerca identitaria della sua protagonista che torna a casa dopo molto tempo, nell’antica e isolata città di Xochimilco, per prestare soccorso alla madre ammalata. Gli spostamenti si svolgono essenzialmente attraverso il fiume o a piedi e il ritmo della vita, come nota Chayo, è differente. La donna che fa la cuoca in città ricorda le radici della sua famiglia e della sua infanzia, si avverte sullo sfondo il senso sciamanico che attraversa la tradizione del suo popolo: nel frattempo la madre si aggrava e si avvia verso la morte, anzi, la abbraccia. Chayo che, prima si ribella a questo fatto, alla fine si arrende al flusso della vita, il tutto in una dimensione a metà tra il panico e il pagano. Rivero, come detto, sceglie uno stile contemplativo con un’attenzione particolare all’uso dei colori e si concede degli inserti onirici girati con un certo virtuosismo. "Mai morire" è un film che non propone novità nel raccontare una storia narrata più volte e non sposta di una virgola le sorti del concorso assestandosi nella mediocrità generale. Il regista resta impigliato nella trappola di quel minimalismo che, a forza di dire poco finisce per sottintendere tutto, finanche le così più essenziali. (GG)
Voto: 5.5
CinemaXXI
Tasher Desh - La terra delle carte di Q
Sotto lo pseudonimo di Q si cela il vero nome di Kaushik Mukherjee, che aveva già stupito (e irritato) col suo esordio, "Gunda", presentato a Berlino l'anno scorso. Questo regista bengalese continua nel solco di un cinema sfrenatamente visionario e, finora, "Tasher Desh" è l'opera migliore presentata nel concorso parallelo "CinemaXXI" di questo festival romano, rappresentando un ottimo risultato nella ricerca di contaminazione nel linguaggio cinematografico. Il film ha alle sue spalle un classico della letteratura indiana, "Il regno delle carte" di Rabindranath Tagore, e lo rilegge in chiave moderna e ultrapop.
All'inizio vediamo incrociarsi due linee narrative: da una parte il bianco e nero di un cantastorie che cerca di raccontare ancora una volta "Il regno delle carte" a qualcuno, dall'altra si cominciano a delineare i margini del racconto. C'era una volta un principe che viveva in un esilio dorato, con la madre infelice e un amico (il figlio del mercante). Il principe si sente soffocato e prigioniero dei suoi finti privilegi; vuole partire alla ricerca di qualcosa di nuovo, "del nuovo". Il primo atto, forse un po' ridondante, si sostanzia degli amletici dubbi del protagonista e del nostro storyteller che, continuando a spostarsi raccontando la sua storia, trova nel cortile di una casa una ragazza che chiama Asso di Cuori (il perché del nome lo si capirà poco dopo). Quando il principe col suo fidato amico, una sorta di Sancho Panza viveur con uno spinello sempre a portata di mano, si decide a mettersi in viaggio vediamo nuovi titoli di testa che ci traghettano al secondo tempo di "Tasher Desh". In effetti il film cambia decisamente tono: da un onirismo piuttosto evidente, si passa a una messa in scena grottesca e profondamente concettuale con un montaggio schizzato e sincopato. I protagonisti approdano nel regno delle carte, un luogo dove il popolo è suddiviso per i quattro semi (di cui indossano la divisa) e ci si muove come in uno stato occupato da un regime militare e fascista: il principe e il giovane mercante dichiarano di essere stati spinti da un vento nuovo, di essere difettosi e di portare l'errore, il caos, la libertà. Queste parole incrinano la coscienza di alcune carte e innescano una progressiva rivoluzione che ribalterà le sorti dell'isola. "Tasher Desh" è un'opera eversiva, un folle inno alla rivoluzione con passaggi musicali che ribaltano anche i cliché bollywoodiani. Difficilmente lo si vedrà dalle nostre parti. (GG)
Voto: 7.5
In concorso
Ixjana di Józef e Michal Skolimowski
La conoscenza di sé passa anche attraverso la sua negazione. Un processo di consapevolezza paradossale e, sotto molti aspetti, incomprensibile, ma utile per capire il senso di un film come quello dei fratelli Skolimowski, presentato al festival di Roma nell'ambito del concorso internazionale. Una difficoltà che la trama non aiuta a spiegare, se è vero che dopo pochi minuti di certezze la storia sembra prendere direzioni che privilegiano aspetti irrazionali e riguardanti l'inconscio. Succede, infatti, che Marek, scrittore emergente dal brillante avvenire, abbia il sentore di avere ucciso l'amico dopo un alterco avvenuto sotto l'effetto dell'alcol. Dilaniato dai sensi di colpa, il ragazzo è intenzionato a scoprire la verità ma, nel farlo, si perde all'interno di un mondo dominato dall'illusione e dall'inganno, in cui ogni certezza è fatta per essere smentita.
Con un racconto circolare che mette insieme gusto del paradosso, proiezioni metafisiche e deragliamento dei sensi, i fratelli d'arte Jozef e Michal Skolimoski costruiscono un gioco di specchi affascinante e manierato, in cui la precisione della messa in scena, delineata e sovresposta tanto nell'evidenza dei colori quanto nella linearità delle componente visuale, entra in collisione con la sfuggente fluidità dei contenuti, provocando un effetto straniante e surreale. In questo modo la trama si frantuma in un puzzle di segmenti spazio-temporali che individuano realtà multiple e parallele, dove i cambi di identità e le possibilità di smentita sono all'ordine del giorno. I personaggi diventano allora simulacri di un mondo evocato da echi letterari (il Bulgakov de "Il maestro e margherita"), scambi di persona, passioni deliranti, con eros e thanatos a fissare le scadenze di ciascuna vita umana. I registi polacchi sono bravi ad inventare un paesaggio onirico ed insieme magico che deve molto a David Lynch: a volte audacia ed ambizioni sfuggono di mano, altre, invece, producono una fascinazione ipnotica e conturbante. (CC)
Voto: 6
Prospettive Italia
L'isola dell'Angelo Caduto di Carlo Lucarelli
Per Lucarelli la sfida più grande era rappresentata dalla possibilità di riuscire ad adattarsi al nuovo mezzo di comunicazione. In sostanza si trattava per lui di dimenticarsi della letteratura iniziando a ragionare per immagini. Una scommessa che potrebbe dirsi vinta se i termini di paragone fossero riferiti al panorama televisivo nei confronti del quale, "L'isola dell'Angelo Caduto", non sfigura. Ma è proprio il fatto di non riuscire a discostarsi neanche per un attimo dalle estetiche del tubo catodico, piegando la sostanza del suo film alla piattezza della percezione televisiva ad impedire la riuscita dell'opera. Girato in maniera diligente ma didascalica, la narrazione procede meccanicamente con un'indagine troppo spiegata e quasi programmatica, quando mette in condizione i personaggi secondari di sparire, dopo una fugace apparizione. Maneggiando con superficialità un materiale eterogeneo, riferito al quadro politico sociale e ai fermenti dell'epoca, con un occhio al fantastico e all'esoterico presente nella sottotrama che cerca di trovare la spiegazione dei delitti nei rituali satanisti, organizzati nella speranza di ampliare la comunità dei seguaci di Belzebù, "L'isola dell'Angelo Caduto" evidenzia ancora di più i suoi difetti. Se a questo aggiungiamo una recitazione che, soprattutto nei personaggi secondari (in particolare il capo delle camicie nere interpretato da Gaetano Bruno), è assolutamente sopra le righe, il dado è tratto. (CC)
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Lunedì 12 Novembre, quarto giorno
In concorso
Il volto di un'altra di Pappi Corsicato
Licenziata dal programma televisivo, una famosa conduttrice, convinta dal marito chirurgo estetico, decide di vendicarsi facendo credere al resto del mondo di essere stata deturpata nel corso di un incidente automobilistico. In palio ci sono i soldi dell'assicurazione e uno show che la renderà ancora più famosa.
Da sempre autore di un cinema citazionista e cinefilo, grottesco e surreale, Pappi Corsicato deve molto a Marco Müller. Fu quest'ultimo, infatti, a riportarlo all'attenzione del pubblico e della critica presentandolo in concorso a Venezia con "Il seme della discordia" (2008), arrivato dopo una pausa dovuta anche all'ostracismo produttivo operato nei suoi confronti.
Le premesse del film erano scoppiettanti, vista la scelta di declinare argomenti universali e anche per l'abilità di Corsicato di saper guardare fuori dal proprio orto, cogliendo in maniera giocosa gli aspetti deteriori della nostra società, con un allestimento di personaggi secondari, come quello della famiglia appostata di fronte alla clinica dove Bella è ricoverata, che rappresentano un immaginario collettivo drogato di un voyeurismo morboso e sensazionalistico, oppure della suora opportunista e fedele alla religiosità del tornaconto personale; ma questa volta il melting-pot costruito dal regista non riesce a sostanziare le intenzioni. (CC)
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In concorso
Back to 1942 di Feng Xiaogang
Ecco svelato il primo dei film-sorpresa di Roma 2012 che, nel solco della tradizione muelleriana consolidatasi negli otto anni della direzione della Mostra veneziana, si rivela essere un prodotto cinese. In questo caso, è il kolossal storico di Feng Xiaogang che arriva dopo il successo di “Aftershock”, altra opera dalle dimensioni e dai costi notevolissimi. Feng ha trovato una sorta di compromesso tra il blockbuster di regime e una personale rilettura della storia cinese, che fa dei suoi film opere di un certo rilievo e di un certo interesse. Infatti, grazie a un’impalcatura spettacolare che rende “Back to 1942” un prodotto pensato e realizzato per essere popolare, con stilemi non dissimili dal kolossal hollywoodiano vecchio stampo, la pellicola di Feng si permette di puntare il dito su un anno, il 1942, cruciale per il secondo conflitto mondiale visto dalla Cina. Siamo, infatti, in piena guerra e la Cina si trova nella morsa dell’invasione giapponese e una tremenda carestia colpisce la zona dell’Henan. Proprio questa grande carestia, che affama una popolazione di milioni di persone è nella storia cinese il “1942”, con la differenza che la disgrazia si protrasse per più anni e uccise più di tre milioni di persone. Il film di Feng Xiaogang è un grande racconto di alcune famiglie che, seguendo la strada dei loro padri, scappano verso Ovest, verso la regione dello Shanxsi. A loro si uniscono anche diversi regimenti militari che si stanno ritirando, lasciando l’Henan in mano ai giapponesi. Il regista fa dialogare in maniera corale la parte bassa con una sezione più politica, dove vediamo le sfere governative (tra cui il Generalissimo Chiang Kai-Shek) cercare di mettere a tacere la tragedia, non facendo trapelare la corruzione del governo e l’incapacità di proporre un tentativo per salvare il popolo della regione. Feng, politicamente parlando, si mantiene in equilibrio tra denuncia storica (proiettata in avanti: il risultato è che il popolo lo si lascia morire) e la contemporanea retorica di regime, producendo comunque uno spettacolo tutt’altro che noioso (nonostante la durata di due ore e venti) e che annovera nel cast Adrien Brody (nel ruolo di un giornalista americano, vincitore del Pulitzer nel 1964) e Tim Robbins (nel ruolo di un prete). (GG)
Voto: 6
Fuori Concorso
Il cecchino di Michele Placido
Per Michele Placido "Le Guetter" era molto di più di un film, perché la proposta di girare in Francia con attori del calibro di Daniel Auteuil, Mathieu Kassovitz e Oliver Gourmet rappresentava non solo il riconoscimento di una professionalità capace di dialogare con il cinema internazionale, ma anche la possibilità di prendersi una pausa dalle paludi di una cinematografia casalinga sempre avara per un autore che voglia confrontarsi con le forme del cinema di genere - basti pensare, sempre per restare al nostro regista, lo scarso interesse suscitato dal pur buono "Vallanzasca - gli angeli del male" (2011). Un mestiere che Placido conosce bene per averlo più volte frequentato ("Romanzo Criminale", 2005) e che dal punto di vista tecnico e delle riprese mette a disposizione in maniera efficace in questo film. Per affermarlo basterebbe analizzare la sequenza d'apertura, quella della mancata rapina, in cui Placido non solo dimostra di conoscere a menadito il cinema americano, riprodotto con dovizia sia dal punto di vista stilistico, grazie ad un montaggio serrato ed ansiolitico, che spettacolare, con scontri a fuoco e crash automobilistici di incredibile dinamismo, ma anche di saper mantenere intatta la propria identità, con un realismo che permette al film di restare umano, con il sudore e la paura impressa nel volto dei poliziotti e sparata in primo piano sullo schermo. Una qualità sulla quale pesa una sceneggiatura - ricordiamo che "Le guetter" è un lavoro su commissione - sbilanciata quasi subito da un interesse eccessivo nei confronti di personaggi e situazioni che, paradossalmente, nell'intento di alzare la posta in gioco spingendo l'acceleratore sul gore e sull' horror, finiscono per produrre il risultato inverso, facendo perdere alla storia credibilità, compattezza e tensione. Accade, infatti, che le linee d'ombra di cui si nutre un genere come il polar vengano messo in secondo piano, e sostituite da chiavi psicologhe, le cui derive patologiche e melodrammatiche, portano "Le guetter" nei territori della mostruosità da serial killer e di personaggi alla Hannibal Lecter. Ci sarebbe voluto ben altro spessore e ci sarebbe stao bisogno di un'altra storia, mentre in un calderone del genere anche le interpretazioni di attori come Mathieu Kassovitz e Daniel Auteuil, per non dire dei nostri Luca Argentero e Violante Placido, finiscono per perdere consistenza, consegnandosi ad un risultato che è un'occasione persa un po' per tutti, soprattutto per chi dovrà pagare il biglietto. (CC)
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CinemaXXI
Suspension of Desbelief di Mike Figgis
La sospensione dell’incredulità è il patto che ogni narratore fa col proprio pubblico. Una delle domande che pongono a Martin, sceneggiatore di successo e insegnante al London Film Institute, è come possa funzionare così bene, permettendo agli spettatori di emozionarsi realmente davanti a una storia di finzione. Questo avviene perché anche quando vediamo una rappresentazione, la nostra mente non fa la distinzione tra verità e finzione. È questo l’assunto di base di "Suspension of Disbelief", ultima fatica del britannico Mike Figgis che anche stavolta, scrive e dirige, oltre a curare la fotografia, il montaggio e la colonna sonora.
Il protagonista, interpretato da Sebastian Koch, è il classico sceneggiatore in crisi di idee, ma non siamo dalle parti de "Il ladro di orchidee" della premiata ditta Jonze-Kaufman: Figgis guarda a Godard, al cinema indipendente sperimentale di cui è (stato) esponente (si pensi a "Timecode") e costruisce il film come una continua sovrimpressione teorica sull’atto di percepire narrativamente ogni fatto della vita. E a Martin di "storie da film" ne sono capitate tante: con alle spalle una moglie sparita nel nulla da quindici anni, si ritrova in casa Therese, la sorella gemella di una ragazza che conosce al venticinquesimo compleanno dell’adorata figlia (anch’essa attrice), e dalla quale è stata forse sedotto. La ragazza, Angelique, viene ritrovata morta, annegata quella stessa notte. Ma, per l’appunto, realtà e fantasia si mescolano continuamente e ogni avvenimento può diventare materiale per integrare la sceneggiatura: che sia quella nuova o quella che ha già scritto e che sta diventando un film interpretato dalla figlia è poco chiaro e, forse, poco importa. Figgis ragiona su alcuni componenti tipici del thriller, come il doppelganger e il sospetto hitchcockiano (è stato lui a uccidere Angelique? Oppure Therese? La moglie è scomparsa o è stata assassinata da Martin?). Questo continuo dentro e fuori, fra costruzione narrativa e riflessione metalinguistica, è portato avanti senza nerbo, scopertissimo fin dai primi minuti e, dopo che il regista della figlia dice "stiamo facendo un film noir che ribalta i cliché del genere", ci viene da domandarci se Figgis sappia che siamo nel 2012 e che è forse arrivato il momento di non nascondersi dietro il muro dell’ironia postmoderna. (GG)
Voto: 5
CinemaXXI
El ojo del Tiburòn di Alejo Hoijman
Per scrivere un commento che si adegui a "El ojo del Tiburòn" dovrei lasciare uno spazio bianco. Sarebbe però una scelta sin troppo concettuale e pensata per l’opera di Hoijman che, finora, si era segnalato soprattutto per i suoi documentari. E l’ispezione di un ambiente è quello che si vede innanzitutto nel film: questo villaggio che da una parte ha una fitta foresta attraversata da un fiume e dall’altra il mare (il film è girato in Nicaragua), dove i ragazzini protagonisti passano il tempo tra battute di caccia e di pesca pensando di tanto in tanto di cosa ne sarà di loro. La scelta di narrazione debole non si sostanzia con una potenza visiva adeguata, visto che la cinepresa del regista pedina i personaggi con un’asfissia letale: Hoijman si sofferma sui volti ma ci racconta troppo di ciò che accade all’esterno, come se la vita, quella vera, scorresse a fianco mentre i ragazzini guardano da qualche parte o si attardano in giochi crudeli con le iguante. Il fuori campo può essere sì un’arma, ma il modo in cui viene usata dal regista ammazza ritmo e il significato della pellicola. Lo dimostra il fatto che a mezz’ora dalla fine di questi interminabili 90 minuti, inquadra i ragazzi riguardare il girato del giorno e, in seguito, la sequenza prima della fine, nella quale Bryan spiega alla sua amica che stavano girando un film. Alla classica domanda "di che parla?" il ragazzo risponde che non ha una vera storia e che parla essenzialmente di come vivono, di cosa fanno in quel posto. Grazie tante, signor Hoijman per avercelo spiegato lei; da soli eravamo riusciti a produrre solo un altro interrogativo: "perché?". (GG)
Voto: 3
In concorso
Spose celestiali dei Mari di pianura di Aleksei Fedorchenko
Al contrario dello scomparso popolo Merja, ricordato in "Silent Souls", il popolo dei Mari esiste ancora e vive nei luoghi dei loro antichi antenati, portando avanti una cultura ancestrale, con tradizioni folkloristiche pagane. L’occhio di Fedorchenko può apparire molto simile all’occhio di un documentarista antropologo che, però, non è mai stato e mai sarà. Racconta storie e in questo caso le storie diventano ventitré: una sorta di "decamerone" condensato su tradizioni, folklore, aneddotica Mari in poco più di cento minuti di cinema.
A Venezia, nel 2010, "Silent Souls" ricevette un peana critico forse ingiustificato, tanto da essere considerato quasi il vincitore morale della competizione, mentre questo suo nuovo film si impone a una prima visione come più ostico, ma provvisto di un fascino e di una capacità di suggestionare lo spettatore molto più fresca e genuina. Gli scenari sono quelli dei Mari delle pianure, come dice anche il titolo, visto questo popolo si suddivide anche i Mari delle montagne e in Mari orientali. I ventitré episodi passano con leggerezza e raffinato gusto per l’intarsio narrativo e visivo (grazie anche ai colori usati per dipingere le case) dal racconto vero e proprio, allo sketch o la facezia, determinando un mondo fantastico, dominato da una mitologia affascinante e da strane leggende che Fedorchenko rende attraverso l’uso dei vari generi, come il mystery, il thriller, l’horror, tutto venato da una vena fantasiosamente erotica. (GG)
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Fuori concorso
Mental di P.J. Hogan
L'australiano Hogan ambienta in una ridente e colorata cittadina di provincia la sua nuova e folle commedia che inizia con la signora Muchmoore (Rebecca Gibney) che, uscita nel giardino di casa, canta a squarcia gola "The Sound of Music" destando l'attenzione e il riso di scherno di tutti i vicinati. "È successo di nuovo!" si dicono le cinque figlie femmine che cercano di riportare nell'interno della casa la loro madre, che sogna di avere una famiglia identica ai Von Trapp, i protagonisti del musical "Tutti insieme appassionatamente". Le cinque figlie, dal canto loro, fanno a gara a chi dovrebbe essere più "mental" (mentalmente disturbata): se Coral, la maggiore, ha fatto un test che le assicura di essere in uno stato prepsicotico, le più piccole si dividono tra sociopatiche, autistiche e poi c'è Michelle che sente gli alieni chiamarla. Dal sognare di essere come i Von Trapp a un esaurimento nervoso il passo è breve e la donna viene internata dal marito (Anthony LaPaglia) in una clinica psichiatrica: l'uomo è tra l'altro il sindaco della città, in corsa per la rielezione e, sebbene non abiti a casa da quando Coral, la figlia maggiore, ha tentato il suicidio cadendo sulla sua automobile, cerca di sfuggire in tutti i modi a uno scandalo che ne guasterebbe irrimediabilmente l'immagine. Mette in casa una tata con dei modi di fare alquanto particolari: si tratta di Shaz (Toni Collette), una Mary Poppins sboccata e borderline che ribalta la visione del mondo delle cinque Muchmoore. In realtà, gli australiani derivano da generazioni e generazioni di malati mentali e rappresentano un campionario di tutti disturbi riscontrabili in un manuale di psichiatria. Dimostra alle ragazze che la loro non conformità alle regole è preziosa e le rende molto più normali alla vicina di casa che passa la vita a pulire ogni centimetro quadrato della sua casa e del suo giardino, sfogando così il suo disordine ossessivo compulsivo. Basta rimescolare le carte, inserire qualche elemento di stonatura nello spartito di falsità e ipocrisie che la gente viene gettata nel caos. "Mental" non è, in definitiva, un grandissimo film, bensì una commedia scanzonata e divertente con gag riuscite e fantasiose, una protagonista schizzata e un comparto di macchiette che gestiscono bene le parti secondarie. (GG)
Voto: 6.5
In concorso
Marfa Girl di Larry Clark
A Marfa, piccolo centro del Texas, meta di artisti e set di vari film (da "Il gigante" a "Il petroliere"), si avvertono chiare le tensioni sociali e razziali, stando molto vicino al confine col Messico. Clark racconta la vita quotidiana di un gruppo di adolescenti che trascorre i pomeriggi tra gli spinelli, le prove con la band (la musica è solo quella diegetica) e le "prime volte". Adam, un giovane sedicenne, deve vedersela soprattutto con le molteplici donne della sua vita: con sua madre (insidiata da una guarda del confine dai comportamenti poco rassicuranti), con una professoressa che lo sculaccia, con la sua ragazza, con la sua amica 23enne, madre del bambino di un suo amico in prigione, con la quale fa sesso, e con un'artista hippy che si porterebbe a letto qualsiasi ragazzo latino sulla terra.
Sono passati diciassette anni dall'esordio con "Kids", eppure se lo si confronta proprio col suo partner di allora, Harmony Korine, la differenza che si riscontra è enorme: Korine è diventato regista ed è passato da "Gummo" a "Spring Breakers", cambiando pelle di volta in volta, passando da uno stile ruvido e urticante a un montage anfetaminico che rivolta l’mtv-style contro se stesso. Clark è rimasto uguale. E non è una mera questione di coerenza, si tratta di essere capaci, o meno, di capire il proprio tempo e renderlo formalmente col mezzo linguistico che si usa: e quando si vede “Marfa Girls” sembra che Clark, nonostante i 69 anni, sia ancora un ragazzino brufoloso che passa le sue giornate a farsi le canne, pregando per una scopata con la fidanzatina del liceo. (GG)
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Conferenze stampa: Marfa Girl
A sentirlo parlare ricorda Abel Ferrara: "Fuck off Hollywood, al diavolo i produttori che sono tutti dei gran farabutti! Chi vuole vedere il mio cinema lo può fare solo scaricandolo dal web. La rete è la nuova frontiera, è lì che vanno i giovani, il pubblico a cui io mi rivolgo". Le parole di Larry Clark mettono le mani avanti nei confronti delle accuse che gli vengono rivolte per le sue storie di adolescenze amorali, dominate da un uso del corpo a dir poco spregiudicato. "E' la vita, ed io mi ci attengo descrivendo quello che vedo", dice Clark ripetendo in maniera logorroica una serie di ragioni secondo lui legittimate da una carriera artistica che dura da almeno 50 anni e che ha lo ha visto passare dalla fotografia al cinema con la stessa spregiudicata libertà, concetto che il regista di "Kids" e "Ken Park" ama sventolare come vessillo del proprio modo di intendere la vita. Ispirato al cinema di Cassavetes "perché in alcuni momenti gli attori smettono di recitare ed iniziano a vivere", il suo cinema non è programmatico ma casuale, frutto di opportunità e circostanze. Per "Marfa Girl" l'occasione è stato un invito da parte del festival di Marfa, cittadina del Texas diventata famosa per aver ospitato il set de "Il gigante", ed oggi sede di un Istituto culturale che spezza la monotonia della cittadina offrendo borse di studio ad artisti provenisti da ogni parte dell'America. Abitata da una popolazione mista di americani e messicani, Marfa vede anche la presenza della polizia di confine che poco occupata per la lontananza del confine non trova di meglio che portarsi a letto le ragazze del luogo. Per aumentare il tasso di verità il film è stato interpretato arruolando per la maggior parte attori non professionisti. "I ragazzi si fidano di me perché sono cool, io gli faccio vedere i miei lavori, leggere i miei libri e loro capiscono chi sono e cosa voglio". Clark dice che molti dialoghi e quello che succede dentro al film sono il risultato delle ore di conversazione con gli interpreti, disposti a raccontargli esperienze e punti di vista. Gli attori presenti lo guardano referenti, ma restano muti. Per loro non c'è spazio, forse hanno esaurito le parole, avendole già regalate al loro mentore. "Faccio il cinema per me e non per gli altri". In questo modo non è possibile dare torto ai suoi ragionamenti. Chi si accontenta gode. (CC)
Fuori concorso
Populaire di Regis Roinsard
Che l'autostima non fosse mai mancata al cinema francese è un fatto ormai noto, perché la fiducia nei propri mezzi è una prerogativa naturale di quel popolo. A rafforzarla ulteriormente ci ha pensato una lunga striscia di affermazioni capaci di varcare i confini nazionali, per sostituirsi addirittura ad Hollywood, nella produzione di opere citazioniste ("The Artist") e di prodotti derivativi (il dittico legato a "Taken"). In questo senso un film come "Populaire" sembra fatto apposta per confermare all'ennesima potenza e per diversi motivi questo tipo di affermazione. (CC)
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In concorso
Lesson of the Evil di Takashi Miike
Hasumi insegna inglese in una scuola superiore privata. È giovane, attraente, carismatico, gli studenti lo adorano e i colleghi lo stimano. A una collegio docenti fa presente il problema di un evidente imbroglio studentesco durante gli ultimi esami e propone di bloccare il segnale dei cellulare grazie all'aiuto del professore esperto di radiotrasmissioni: proprio quest'ultimo cova da qualche tempo dei dubbi sul rampante collega.
Ricordando da vicino lo schema compositivo della narrazione di "13 Assassini", la lezione del male di Miike si permette una prima parte basata sulla ridente quotidianità scolastica (molto lontana comunque dal comic-movie di "Crows Zero"), per poi scatenare il "massacro totale". La pellicola si fa più inquietante e violenta mano a mano che si svela la vera natura del professor Hasumin (l'affettuoso nomignolo dei suoi studenti): l'uomo è infatti un serial killer che ha iniziato la sua carriera in giovane età e ha toccato anche la terra americana, dove ha concluso il suo apprendistato. Al contrario del suo "amico americano", Hasumin non uccide per divertimento ma per una necessità interiore, elimina chi mette a rischio la sua tranquillità e il suo stare nel mondo. Proprio quando uccide salta la sua cordiale maschera che indossa tutti i giorni ed emerge un inarrestabile demone non lontano da Izo. Tra "Battle Royale" e "Dexter", assestando un massacro splatter dal cinismo devastante, la continua elusione delle "promesse" narrative, la citazione irridente a Cronenberg e alcune genialità visive (come i ricordi allucinati a più livelli proiettati sulle pareti della baracca), "Lesson of the Evil" ci conferma la forma smagliante del cinema di Miike. Il regista di Osaka si diverte nel mettere in scena la violenza, facendo risaltare la purezza etica del protagonista contro l'ipocrisia degli altri personaggi, mettendo così in crisi anche le certezze della posizione dello spettatore. (GG)
Voto: 8
In concorso
Main dans la main di Valérie Donzelli
In un sobborgo vicino Parigi, Commercy, la patria delle madeleine, abitano i fratelli Joachim e Veronique, la quale sogna di vincere un concorso di ballo che si terrà a Montecarlo. Joachim abita con la sorella, che però è già sposata e con prole, intrattenendo con lei una relazione non priva di alcune ambigue sfumature. Un giorno Joachim va a Parigi col compito di cambiare gli specchi in una sala dell’Opéra Garnier: casualmente incontra la direttrice Hélène che piange in solitudine e, senza un ben precisato motivo, la bacia all’improvviso. I due, catturati da un incantesimo, non riusciranno ad allontanarsi l’uno dall’altra, muovendosi anche in sincronia. Nonostante i diversi pareri medici che raccolgono, Joachim e Hélène non capiscono cosa sia successo e si arrendono a vivere insieme.
Questa è la spiazzante e folle partenza del terzo lungometraggio di Valérie Donzelli, che articola la propria commedia sentimentale sabotando i classici passaggi narrativi e partendo col piede sull’acceleratore. La regista dell’apprezzatissimo "La guerra è dichiarata" ritorna con un’opera tutt’altro che solida, arrischiata e sul filo del ridicolo fin dalle battute iniziali: eppure proprio la parte che molti criticheranno ci è sembrata quella più estrosa e genuinamente "donzelliana". Peccato che l’espediente esploda poi nelle mani dell’autrice che, non sapendo più che farsene, lo accantona goffamente, iniziando quasi un altro film; una commedia che pur mantenendosi ancora sopra le righe non dice niente, riguardo la nascita di un rapporto di coppia, che non sapessimo già. (GG)
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CinemaXXI
A Walk in the Park di Amos Poe
Tra gli artisti appartenenti al movimento "No Wave" che nella New York dell'East Village annoverava registi come Jim Jarmusch, Sara Driver ed Abel Ferrara, Amos Poe era quello più radicale, sicuramente il più carismatico. Fedele a se stesso, si presenta al festival di Roma con "A Walk in the park", opera mutante che si muove tra cinema, documentario e video arte per raccontare la vita del fotografo Brian Fass, disposto a mettersi a nudo rivivendo la sofferenza della depressione di cui fu vittima. Deciso ad entrare dentro la mente del protagonista, Poe ne dichiara le intenzioni riprendendo alla maniera della "Marylin" di Andy Warhol gli encefalogrammi di una risonanza magnetica di Fass. Da quel momento in poi, su uno schermo trasformato in un collage di immagini di diversa natura e formato, assistiamo ad un viaggio psichedelico in cui la parola - e se ne spendono tante durante il corso del racconto - ha la stessa importanza delle immagini. Se in superficie si riescono a leggere le cause di una patologia causata dalle disfunzioni di una famiglia soffocata dalla presenza di una madre ingombrante, tra le righe Poe dà vita a un'opera d'antiquariato, elencando facce diverse della cultura americana. La frammentarietà della narrazione e il procedimento schizofrenico, che sovrappone dialoghi e incrocia piste sonore di diversa provenienza, incarna alla perfezione il decorso della malattia con il buio della mente progressivamente sostituito da un ritorno alla vita simboleggiato dalla luce che torna ad illuminare Fass e le figure umane precedentemente oscurate.
Come tutte le opere di questo tipo, "Walk in the Park" puo essere giudicato con diversi parametri: c'è chi ne apprezzerà la libertà senza compromessi, o all'opposto, chi lo paragonerà a un'istallazione da museo d'arte contemporanea. Indubbiamente affascinante all'epoca dei suoi esordi, il film di Poe risulta oggi meno sorprendente dei precedenti, e anche un po' ripetitivo. (CC)
Voto: 5.5
CinemaXXI
Steekspel di Paul Verhoeven
Uno script iniziale di appena quattro minuti, circa duemila sceneggiature fornite dagli utenti del web ai quali era stato chiesto di completare la storia, e una gran quantità di materiale video inviato allo stesso scopo. Sono questi i numeri dell'ultimo film di Paul Verhoeven, "Steekspel", frutto di una scommessa produttiva a cui il regista ha affidato il suo ritorno al cinema. La trama è presto detta: una festa di compleanno che si trasforma in una giostra (è questo la traduzione del titolo originale) di emozioni e di colpi di scena, innescati dall'entrata in scena di una ragazza, la cui gravidanza potrebbe essere il frutto della relazione tra lei ed il festeggiato, sposato con moglie e figli, a capo di un'impresa in gravi difficoltà economiche. Sono questi gli elementi principali di una storia che parte come "Festen" e procede alla maniera dei "Dieci piccoli indiani", con la differenza che, al posto del delitto, a passare da un personaggio all'altro è il punto di vista sul racconto e, di conseguenza, la possibilità per ognuno di loro di essere (seppur temporaneamente) i protagonisti del film. Il risultato è di una perfezione che in termini di scrittura rivaleggia con due capolavori come "Carnage" e "Una separazione". Verhoeven ci mette del suo armonizzando gli aspetti sperimentali con una spettacolarità non forzata, e conseguente ad una fluidità che appartiene tanto al modo di girare quanto alla spontaneità della recitazione. In appena 57 minuti "Steekspel" si inventa un mondo di desideri e di paura, di erotismo e tradimenti, il cui motto potrebbe essere il famoso detto "Chi la fa l'aspetti!". Un piccolo grande film. (CC)
Voto: 8
Prospettive Italia
La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli
Gli anni di piombo sono notoriamente un nervo scoperto della storia italiana. Il cinema, nel tentativo di aiutare il paese a metabolizzarne le conseguenze, ha mostrato una reticenza che è il segno più tangibile di come ancora oggi le ferite non si siano rimarginate. La difficoltà di raccontare quegli anni e, soprattutto, di accettare le motivazioni che li hanno prodotti, è stata acuita dal fatto che le persone chiamate a parlarne ne sono state in qualche modo coinvolte, magari tra barricate di una protesta sfuggita di mano, oppure solamente per aver provato la paura di giorni dominati dall'odio e dalla morte. L'ultimo tentativo, in tal senso, arriva dal festival di Roma che presenta nella sezione "Prospettive Italia" il secondo film di Susanna Nicchiarelli, "La scoperta dell'alba", ricavato con qualche cambiamento dall'omonimo romanzo di Walter Veltroni. (CC)
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Venerdì 9 Novembre, primo giorno
CinemaXXI
Centro Histórico di Aki Kaurismaki, Pedro Costa, Victor Erice, Manoel de Oliveira
La città portoghese di Guimarães è la capitale europea della cultura per l'anno 2012. Una ricorrenza che il festival di Roma ha pensato di celebrare nella sezione XXI con tre cortometraggi e soprattutto con un film come "Centro Histórico", capace di riunire nello stesso progetto due figure diversamente leggendarie del cinema europeo come Manoel de Oliveria e Aki Kaurismaki, affiancati dai colleghi Pedro Costa e Victor Erice a completare un quadro registico suddiviso in 4 momenti differenti - più che di episodi qui, infatti, si tratta di accostamenti realizzati sul filo del ricordo e dell'emozione - che in un modo o nell'altro hanno come sfondo, ed in parte la riprendono ripercorrendola in maniera specifica, la Storia della città dove di fatto è nata la nazione lusitana. E sarà proprio con l'intento di rievocare il soffio di un ricordo che ritorna improvvisamente alla mente, e poi si dilegua con altrettanta volatilità, che l'ideatore del progetto ha pensato, non a torto, di aprire e chiudere il film con le storie realizzate rispettivamente da Kaurismaki - "O Tasqueiro" - e da De Oliveira - "O conquistador, conquistado" - in cui il differente lignaggio dei protagonisti, nel primo caso un oste solitario e taciturno, nel secondo niente di meno che il primo re portoghese Enrico "il conquistatore", è quanto basta per provocare un cortocircuito di sensazioni e di infinita sospensione. Vittime del tempo presente che ribalta i ruoli - nell'inserto di De Oliveira la statua del re, immobile e pensosa, è a sua volta assalita e conquistata dall'avidità dei flash dei turisti - e non lascia spazio ad alcun romanticismo - al tracollo dell'attività economica, travolta dalla concorrenza, corrisponde anche quello amoroso, rappresentato dal mancato incontro dell'oste con la donna amata - i due personaggi rappresentano nella loro solitaria laconicità il contraltare tragicomico, e nel caso del maestro portoghese anche scherzoso, a quello che sta in mezzo, dominato tanto nella storia di Pedro Costa che in quella di Victor Erice da un profluvio di parole e di drammaticità. In entrambi i casi sono i fatti della storia a farla da padrone, con la rivoluzione portoghese che distrugge la vita delle persone e fa diventare pazzi ("Lamento da Vida Jovem" di Costa) oppure con la crisi economica che fa morire di colpo una delle realtà più fiorenti dell'industria tessile europea ("Vidros partidos" di Erice) e lascia i suoi operai a ragionare, tra rimembranze di un passato duro ma comunque solido, in termini di sopravvivenza, e tra le incertezze di un presente dove il lavoro ha cessato di essere un diritto.
Opera di finzione capace di includere la realtà tanto nei contenuti quanto nel formato (l'episodio di Victor Erice con le testimonianze degli operai può essere definito un documentario vero e proprio), "Centro Histórico" ha dalla sua il valore di una testimonianza che si oppone anche esteticamente all'omologazione della nostra contemporaneità, con la cinepresa praticamente immobile per tutto il corso della pellicola. Ma come è avvenuto per altri esperimenti del genere, "Centro Historico" fa fatica ad assemblare all'interno di una continuità drammaturgica il materiale che mette insieme, e alla fine la sensazione è quella di un film in cui la tesi è più importante della sintesi. Detto questo, questo avoro rimane imperdibile per tutti coloro che si accontenterebbero anche delle briciole pur di vedere all'opera i due mitici registi, qui veramente sottoutilizzati sia sotto il profilo del minutaggio che di quello dello sviluppo narrativo, che alla fine li relegano ad un lavoro che supera di poco il respiro di un corto. (CC)
Voto: 5.5
Prospettive Italia (Documentario Fuori Concorso)
Carlo! di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni
Vita ed opere di Carlo Verdone. "Carlo!" è una specie di "Otto e mezzo" felliniano in cui la carriera del cineasta prende forma attraverso il ricordo personale e le testimonianze di chi l’ha conosciuto da vicino. Ritratto onesto di un'artista generoso, "Carlo!" riesce in meno di due ore a cogliere l’essenza di un successo che non ha ancora smesso di incrementarsi. Per questi motivi, realizzare un film su un attore/regista come Carlo Verdone non era facile. Ma non solo: di mezzo c’era anche un immaginario ingombrante per longevità, successo e per quel trasformismo che appartiene alla capacità di metabolizzare un’epoca nel rinnovamento continuo del proprio repertorio. Segnali di un talento inequivocabile e, proprio per questo, difficile da ingabbiare in un contenitore come quello realizzato da Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni che avevano il compito di fare il punto su un vitalismo di tale portata. In casi come questi la difficoltà di cogliere l’essenza del soggetto, di toccare i territori dove nasce la visione del mondo dell'autorem si trasforma, non di rado, in una celebrazione acritica che non aiuta ad approfondire né l’uomo ne l’artista, come per esempio si è verificato nel recente documentario dedicato a Woody Allen. (CC).
Voto: 7.5