Snobbato dalla critica più cinefila e considerata a forza da magazine e testate giornalistiche che un tempo facevano a gara per documentarne le imprese, la Festa del Cinema di Roma ci mette anche del suo per favorire la disaffezione, regalandosi un'identità troppo provvisoria per risultare importante. Per fortuna ci sono i film disseminati lungo un percorso cinematografico in cui non sono mancate sorprese e originalità. In questo senso un plauso particolare lasciatecelo rivolgere agli organizzatori della sezione Alice nella città. A loro il merito di averci fatto scoprire nuovi talenti ed opere altrimenti destinate a restare sconosciute.
Capita sempre più spesso che i film d'autore restringano il loro campo d'azione, rifugiandosi all'interno di ambienti domestici in cui, al riparo da occhi indiscreti, è possibile dare sfogo agli istinti più bassi e disdicevoli del comportamento umano. All'inseguimento di un'ipotetica diversità il cinema borghese finisce per costruirsi invece una nicchia che, ahimè, simula gli stessi infingimenti messi in circolo dai milioni di internauti che popolano la rete. E' con queste premesse che si presenta "The Party", ultimo di una lista di titoli in cui ad andare in scena è un gioco al massacro che fa terra bruciata di ogni parvenza d'amore e di amicizia. Con un titolo che allude tanto agli intenti politici (falsamente progressisti) della padrona di casa, primo ministro in pectore che, come vuole la vulgata, deve fare i conti con i soliti scheletri rinchiusi nell'armadio, quanto al ricevimento culinario che fornisce la scusa dell'occasionale rimpatriata. Il film sceglie i propri ospiti in modo che ognuno di loro contribuisca a riprodurre i punti di vista se non dell'intera compagine sociale, almeno di quella che dovrebbe fare capo alle forze liberali del paese. Sally Potter, che di teatro e di teatralità se ne intende eccome, sceglie attori sacrificando il glamour alla recitazione mettendoli davanti alla mdp come fossero sul palcoscenico dell'Old Vic, pronti a scannarsi prima con le parole e poi, chi lo sa! Il tenore dell'operazione rimanda a "Carnage", ma del film di Polanski quello della Potter non ha l'energia cinematica, forse perché l'intenzione non è quella di ricrearne il continuo cambio di prospettive quanto piuttosto di seguirne l'escalation drammaturgica. Peccato solo che la dimensione sofisticata, il ritmo dei dialoghi e le eccellenti interpretazioni di attori da Oscar siano messe a disposizione di un divertissement che assomiglia a un esercizio di stile.
voto: 6
Per la prima parte della sua durata "Blue my Mind" delle svizzera Lisa Brühlmann si muove su un terreno conosciuto, raccontando i personaggi nel modo in cui lo aveva fatto Uli Edel per "Cristiana F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" (1981) e più di recente, Sofia Coppola con il suo "Bling Ring" (2013). Incomunicabilità metropolitana, malessere esistenziale e istinto di autodistruzione sono dunque gli ingredienti principali del drammatico teen movie utilizzati dalla Brühlmann per dare sostanza al percorso iniziatico di Mia, adolescente che, alla pari delle proprie coetanee, cerca nell'approvazione del gruppo la maniera per supplire all'assenteismo genitoriale. In questa fase, la peculiarità del film non è l'originalità quanto il coraggio di raccontare l'adolescenza senza freni inibitori, mostrando ciò che altri non avevano osato fare in questo tipo di prodotto. Poi, improvvisamente, il vero e proprio colpo di coda, con quella che si può considerare la messa in scena di una metamorfosi kafkiana, capace di fare cambiare pelle al film, ibridandolo con un fantasy dalle venature horror. Detto che l'ambizione è quella di metaforizzare i dubbi e le paure tipiche dei riti di passaggio, "Blue my Mind" è un prodotto che fa della contaminazione (di genere e di contenuti) il suo punto di forza. Se fosse distribuito anche da noi non mancherebbe di far parlare di sé.
voto: 7
La prima cosa che viene da pensare mentre si guarda "The Changeover" è il suo essere in controtendenza con la maggior parte dei film girati in Nuova Zelanda. A differenza delle grandi produzioni hollywoodiane che sbarcano ogni anno da quelle parti, quella capeggiata dai registi Miranda Harcourt e Stuart McKenzie fa i conti con mezzi che gli permettono a stento di guardarsi intorno, rendendo impossibile alla storia di approfittare delle bellezza incontaminata del paesaggio circostante. E qui sta il punto di un film che riesce a trascendere i propri limiti con la scelta di volti che, a partire dalla giovane protagonista di origine maori, Erana James (una sorpresa), risultano funzionali a un prodotto che punta molto sull'empatia del pubblico nei confronti dei personaggi. I quali, immersi nella magia di una vicenda che racconta la lotta tra bene e male e che nel mescolamento di generi (teen movie e fantasy) sembra ispirata alla lezione di "Twilight", trovano il modo di rappresentare con felice aderenza un romanzo di formazione ricco di idee e fantasia.
voto: 7
Nel cinema statunitense i personaggi sono spesso messi di fronte a situazioni fuori dal normale che in qualche modo li aiutano a superare i propri limiti. Anche di questo raccontano i tre film che abbiamo visto. Con la differenza che mentre "Mudbound" e "Borg McEnroe" ne parlano attraverso temi e personaggi di dominio pubblico, "Porcupine Lake" concentra la propria attenzione sugli accadimenti della vita minuta. A non cambiare è la qualità sempre alta dei risultati.
Come tutti i fenomeni festivalieri anche la discussione legata alla presenza di titoli destinati alla sola distribuzione via internet inizia a sgonfiarsi e, di conseguenza, anche le polemiche sulla scelte dei selezionatori di mettere in gara produzioni targate Netflix. A rimanere inalterata, almeno da parte degli appassionati, è piuttosto la curiosità di vedere se, e in che modo, il nuovo brand sia in grado di dire la sua nell'ambito di un mercato sempre più saturo di proposte. Un contributo alla discussione la può dare la visione di "Mudbound", realizzato in chiave Oscar dalla piattaforma americana e passato con buon successo alla scorsa edizione del Sundance Film Festival. In effetti il lungometraggio diretto dalla regista Dee Rees presenta alcune delle caratteristiche che meglio si addicono ai gusti dell'Academy, prima fra tutte quella di presentare con toni edificanti e stile classico una storia di ordinaria discriminazione ambientata nel Mississippi razzista e intollerante della seconda metà degli anni 40. Protagonisti di "Mudbound" sono due uomini che si ritrovano a condividere i traumi della guerra dalla quale sono appena tornati. Divisi dal colore della pelle e obbligati a fare i conti con le rispettive responsabilità familiari, l'amicizia tra i due protagonisti fa da corollario a un'epopea collettiva dove i torti e i soprusi, fatti e ricevuti, non impediscono a uomini e donne di sperimentare l'intero spettro dei sentimenti umani. Più che la ricostruzione d'epoca, corretta ma didascalica, a fare la differenza in "Mudbound" è la capacità della Rees di maneggiare il coté emotivo dei personaggi, i quali sottomessi a un'esistenza di sacrifici, umiliazioni e false aspettative, colorano la vicenda con forme da melodramma vecchio stile. Per contro a essere nuove sono le facce degli attori tra cui, oltre a Carey Milligan, si distinguono quelle dei due giovani protagonisti, Garrett Hedlund e Jason Mitchell.
Le finali di Wimbledon sono tutte importanti, ma quella giocata da Bjorn Borg e John McEnroe nel 1980 assunse fin da subito un significato particolare non solo perchè metteva di fronte nel palcoscenico più importante due stili di gioco agli antipodi, con lo svedese padrone della linea di fondo e l'americano artista dei colpi giocati sottorete, ma soprattutto in ragione di personalità che non potevano essere più distanti. Ed è proprio lo scarto caratteriale tra i due tennisti e il paragone tra la compostezza del primo e le intemperanze del secondo a creare la cornice drammatica all'interno della quale il regista Janus Metz racconta il percorso tennistico e privato che porta i due campioni a ritrovarsi di fronte nel giorno della finale. Raccontato al presente ma corredato da una corposa presenza di flashback volti a ricostruire la biografia dei protagonisti, "Borg McEnroe" fa dimenticare il suo pedigree sportivo in virtù di un impianto drammaturgico che trasforma il tennis nel mezzo con il quale esplorare il limite che separa il successo dal fallimento. Detto questo, "Borg McEnroe" non tradisce le aspettative degli appassionati del genere in questione, contribuendo ad arricchire la lista dei lungometraggi a tema sportivo con riprese capaci di documentare il gesto tennistico come mai fino ad ora si era visto sul grande schermo. Senza contare che Sverrir Gudnason nella parte dell'orso scandinavo e Shia Lebouf in quella del moccioso newyorkese soddisfano al meglio le qualità mimetiche del biopic contemporaneo. Consigliato anche ai non praticanti.
Come molti dei film presenti nella sezione Alice nella città, anche "Porcupine Lake" si manifesta allo spettatore come un'opera a basso profilo. Senza grandi proclami e con attori sconosciuti, il film della canadese Ingrid Veninger fa del minimalismo il marchio di fabbrica che lo pone nell'alveo del cinema indie. Con la sola ma fondamentale eccezione che, a differenza della china intrapresa dalle ultime produzioni indipendenti di area anglosassone, "Porcupine Lake" sfugge la maniera proponendoci sentimenti tratteggiati con rara e sentita delicatezza. La storia del film è tanto semplice quanto efficace nell'inserirsi nel filone di un cinema di formazione scandito dalla finestra temporale costituita dalle vacanze estive che favoriscono l'incontro delle due ragazzine protagoniste della vicenda, le quali, alle prese con la crisi dei rispettivi nuclei famigliari trovano il modo di confortarsi attraverso un legame che, come dice Bea poco prima della conclusione, è qualcosa di più di una semplice amicizia. Sponsorizzata dall'attrice canadese Melissa Leo, che innamoratasi della sceneggiatura ne ha favorito la realizzazione, "Porcupine Lake" può contare sulla sensibilità interpretativa di Charlotte Salisbury, che nella parte di Bea riesce a dare spessore allo smarrimento della protagonista di fronte agli agguati dell'esistenza. Alla luce di questo film e di quelli visti nei giorni precedenti ci sbilanciamo in suo favore attribuendole il premio (virtuale) come migliore Alice del concorso 2017.
Ci sono diversi modi di reagire alle sventure della vita. I film presentati nell'ottava giornata della Festa del Cinema ne propongono due che potrebbero essere le facce della medesima medaglia. Il film del francese Jean-Stéphane Sauvaire le affronta con sagace antagonismo e con spirito d'opposizione, al contrario della libanese Nadin Tabet e pure dell'americano Matt Tyrnauer, i quali preferiscono andargli incontro e farsene investire. Atteggiamenti diversi che portano al medesimo risultato: la liberazione dal male.
Selezione ufficiale A Prayer Before Dawn di Jean-Stéphane Sauvaire
Per quanto incredibile, la storia dell'inglese Billy Moore è realmente accaduta in una delle prigioni più note della Thailandia, dove l'uomo è stato rinchiuso per circa tre anni. Abituato alla violenza per essere un pugile di professione, Moore scopre ben presto che il modo di salvarsi dalla degradante condizione della detenzione carceraria è quella di continuare a indossare i guantoni, avendo come posta in palio quella di salvarsi la vita. Al modo di un reportage proveniente da una zona di guerra, il film di Sauvaire gira il martirio dei corpi e la loro umiliazione con una consistenza al tempo spirituale e carnale che da una parte riporta con precisione documentaria l'esperienza di Moore all'interno del carcere, del quale il film riesce a restituirne in miniatura le dinamiche del corpo sociale; dall'altra, si cimenta nelle forme di genere e in particolare in quella del prison movie arricchendone gli stilemi. Ciò che ne esce è un film che immerge lo spettatore nella sua vicenda non facendogli sentire le oltre due ore di durata. Jean-Stéphane Sauvaire mette insieme Winding Refn e Mendoza riprendendo, dell'uno, la cinematica della violenza, dell'altro, lo sguardo antropologico. In pratica un capolavoro!
voto: 8
Selezione ufficiale Scotty and the Secret History of Hollywood di Matt Tyrnauer
A metà strada tra il cinema di "L.A. Confidential" e il gossip targato "Hush Hush", la rivista scandalistica in voga negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Così appare agli occhi dell'appassionato "Scotty and the Secret History of Hollywood", basato sulla singolare parabola del protagonista Scotty Bowers, procacciatore di piacere e aitante gigolò per alcune delle star più celebri della mecca del cinema. Fedele custode dei segreti dei vari George Cukor, Cary Grant e tra gli altri della (finta) coppia Hepburn/Tracy, Bowers andato in pensione e forte del fatto di non procurare dispiacere ai suoi ex clienti - nel frattempo scomparsi - ha deciso di pubblicare un libro di memorie alquanto evocativo: "Full Service" dal quale il film di Matt Tyrnauer parte per tracciare un profilo del singolare personaggio, nonché del lato meno conosciuto dello stardom americano. Al di là degli aspetti più pruriginosi, che racconta senza reticenza ma anche con una certa parsimonia di dettagli e di fatti, il documentario trova motivi di interesse nella ricostruzione d'epoca partecipe e affettuosa che ne fa il protagonista. Il quale, pur venendo da un'infanzia conflittuale per altro mai condannata o abiurata nonostante i dichiarati abusi subiti, si rivolge ai contenuti del suo libro e quindi del film con un'atteggiamento complice ma distaccato, e come pochi hanno saputo fare, al di sopra del bene e del male.
voto: 7
Mercoledì 1 novembre, settimo giorno
Esistono diversi modi di fare cinema e nessuno può dirsi migliore dell'altro. Ci sono poi registi in stato di grazia, in grado di trasformare un film nella maniera nella quale lo ha fatto il norvegese Jonan Matzow Gulbrandsen, il cui lavoro ne "Valley of Shadows" rilancia la figura del cineasta demiurgo, capace di filmare il mondo come non lo avevamo mai visto.
Selezione ufficiale
Valley of Shadows di Jonan Matzow Gulbrandsen
Dopo aver visto "Valley of Shadows" il primo pensiero è quello di avere assistito a una sorta di versione norvegese del nostro "
Sicilian Ghost Story". La comunanza con l'idea di cinema e le estetiche presenti nell'ultimo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, oltre alla fatto di mettere in scena sotto mentite spoglie i riti di passaggio collegati all'età infantile e adolescenziale, sono solo alcune delle cose che rendono l'opera prima di Jonan Matzow Gulbrandsen una delle più sorprendenti e originali viste fin qui alla Festa del Cinema di Roma. Ciò che stupisce in un film così piccolo ed (economicamente) defilato è la grandiosità del suo dispositivo, capace di valorizzare le sue componenti in un unisono tenuto insieme da quella sonora, orchestrata dalla musica dell'anima del grande Zbigniew Preisner, storico collaboratore di Krzysztof Kieslowski. Se a un primo livello il film racconta l'incontro con la morte da parte di un bambino al quale l'improvvisa scomparsa del fratello fa venire meno le già precarie sicurezze familiari, con il passare dei minuti l'elaborazione del lutto si trasforma in una sorta di viaggio dantesco in cui il percorso erratico di Aslak all'interno del bosco e gli incontri da lui compiuti durante il suo vagabondare altro non sono che il modo per liberarsi delle sue paure. Senza l'utilizzo di effetti speciali, ma con la capacità di riformulare le coordinate dello sguardo con l'obiettivo di attribuire nuovi significati a ciò che già conosciamo, "Valley of Shadows" ci fa entrare in un mondo incantato e in una foresta di segni che dialogano con l'inconscio dello spettatore. Illuminato dalla fotografia espressionista dello stesso Gulbrandsen, che è anche titolare della sceneggiatura, il film procede scarnificando l'opera di messinscena per restituirci la purezza della visione. Senza dimenticare che era dai tempi di "
Lasciami entrare" che il cinema non proponeva una rappresentazione così inquieta della fanciullezza.
voto: 8Selezione ufficiale
Logan Lucky di Steven Soderbergh
Quello presentato oggi alla Festa del Cinema è il lavoro che ha fatto recedere Steven Soderbergh dal proposito di non fare più film per il grande schermo. Da qui le aspettative nei confronti di "Logan Lucky" e della sua squadra di improbabili svaligiatori capitanati dai fratelli Jimmy e Clyde Logan, costretti dalle scarse economie a tentare il colpo grosso rapinando gli incassi di un importante gara automobilistica. Leggendo la trama il sospetto di trovarci di fronte a nuova versione di "
Ocean's Eleven" erano pressoché certo, ma si sperava che l'astinenza dallo schermo potesse aiutare il regista a trovare una variante capace di giustificare l'operazione. Invece, tolto il fatto che la trama si sposta da Las Vegas alla Carolina del Nord, sostituendo l'ambiente metropolitano e glamour della città del Nevada con quello pacchiano e rustico di un'anonima cittadina della provincia americana, il canovaccio rimane sempre uguale. Citando se stesso (ancora "Ocean's Eleven") e pure gli altri (la serie televisiva "Hazzard") Soderbergh colleziona attori come fossero figurine, ma quando si tratta di mettere a segno qualche idea l'ispirazione non è delle migliori. Se poi ci mettiamo che "Logan Lucky" balbetta anche in quello che dovrebbe essere il suo pezzo forte, cioè quando si tratta di far tornare i conti sull'esecuzione del colpo, la cui ricostruzione appare più forzata che logica, il dado è tratto, e le sorti del film, segnate.
voto: 5
Selezione ufficiale The Only Living Boy in New York di Marc Webb
Con il suo modo di fare cinema
Woody Allen ci dice da anni di come New York sia una città dalle mille storie e di quanto le piaccia raccontarsi attraverso i sentimenti delle persone che ogni giorno ne vivono il quotidiano. Marc Webb dimostra di aver fatto tesoro di questa lezione facendo coincidere le esperienze del protagonista, destinato a innamorarsi dell'amante (Kate Beckinsale) del padre (Pierce Brosnan), con i contenuti del libro che dà il titolo del film. Senza dire di più dell'espediente che consente al film di sciogliere i nodi narrativi delle molte relazioni affettive e sentimentali poste in essere dalla trama, "The Only Living Boy in New York" permette a Webb di fare il suo ingresso nella commedia sofisticata di ambientazione newyorkese con una vicenda che associa gli stilemi del
teen movie presenti in film come "
(500) Giorni Insieme" e nel dittico dedicato a Spiderman con i tic e le liturgie proprie del
milieu borghese privilegiato. Nel complesso nulla di nuovo in termini di risultati ma comunque un film che, pur senza proclami esistenziali e con una spiccata propensione per una confezione levigata e accattivante, assolve alla sua funzione di prodotto d'intrattenimento.
voto: 7
Martedì 31 ottobre, sesto giorno Basato su una storia vera. L'incipit che sta alla base dei film di Barbara Albert e di Rezo Gigineishvili è di quelli che sono al tempo stesso gioia e delizia di ogni resa cinematografica. Se, infatti, il gradiente di verità di questa premessa costituisce un surplus di stima verso l'opera da parte dello spettatore, dall'altro il rispetto dei fatti può ingabbiare l'ispirazione del regista, come succede ai due film visti questa mattina.
Selezione ufficiale
Mademoiselle Paradis di Barbara Albert
Prendete la realtà e traducetela nella sua manifestazione più dolorosa e mortificante della dignità umana. È a questo tipo di condizione che allude la regista austriaca Barbara Albert, autrice di "Mademoiselle Paradis", ossia della vicenda centrata sulla figura della diciottenne pianista cieca Maria Theresia Paradis, detta "Resi". Allo scopo di trovare rimedio alla sua infermità e nell'estremo tentativo di opporsi a un destino avverso, i suoi genitori decidono di rivolgersi alle contraddittorie arti mediche di un personaggio discusso e controverso come Franz Anton Mesmer, convinto assertore dell'esistenza di un fluido vitale, proprio di ogni organismo vivente, la cui particolare manipolazione avrebbe portato alla guarigione delle più varie patologie. Trattandosi di una ricostruzione in costume la Albert è brava a trovare il punto di incontro tra la cura scenografica e dei dettagli, propri del genere, e un'estetica algida quanto raffinata in grado di riprodurre la vita alla maniera di un impassibile referto. Tale combinazione, però, se da un lato conferisce coerenza e efficacia alla resa visiva della storia, dall'altro finisce per svuotarla dei suoi significati e delle sue componenti emotive. A meno che non ci si accontenti di registrare la distanza sentimentale di coloro che si rivolgono alla paziente, in questo caso gli stessi genitori e il medico curante, allineati sulla lunghezza d'onda di una sostanziale, comune indifferenza.
voto: 5
Selezione Tutti ne parlano
Hostages di Rezo Gigineishvili
Per ragionare sul tramonto delle ideologie e in particolare di quella comunista quasi a ridosso della caduta del Muro, arriva dalla Georgia la ricostruzione di uno degli episodi più noti della cronaca recente di questo paese. Gli ostaggi del titolo sono quelli del volo di linea sequestrato da un gruppo di giovani georgiani intenzionati a violare la legge, espatriando in Turchia, Siccome il piano finì tragicamente con la morte di alcuni dei passeggeri e la condanna a morte degli assalitori, "Hostages" fa dimenticare le sua funzione testimoniale in virtù di un'inesorabilità da cinema noir. Sarà forse per questo che la cosa più interessante del film è quella di cogliere la fine di un'epoca attraverso l'insanabile frattura esistente tra le vecchie generazioni, colpevoli di non aver lottato contro gli aspetti più retrivi del regime comunista e le nuove, desiderose di emanciparsene mediante l'affermazione della propria individualità. Nel farlo il regista Rezo Gigineishvili mette in scena una sorta di delitto e castigo per la logica ferrea del giudizio finale ma anche per la presenza di una serie di figure come quella del prete corruttore di menti giovanili e dell'esistenza idealistica e delirante dei ragazzi, uomini e donne, responsabili del misfatto. Peccato che un simile paragone si sfaldi di fronte a un'impostazione drammaturgia a tratti inesistente, al punto di vanificare Il portato tragico dell'assunto primario. Presentato all'ultimo festival di Berlino "Hostages" cosi' a metà del guado.
voto: 6
Lunedì 30 ottobre, quinto giorno
Esclusa nelle sue rappresentazioni pubbliche e cronachistiche, la realtà raccontata nei cosiddetti "film d'evasione" ritorna in maniera più intima e privata sotto forma di complementari sfumature del sentimento. "C'est la Vie" e "The Movie of my Life" ce ne danno un esempio caratteristico.
Selezione ufficiale C'est la Vie di Eric Toledano e Oliver Nakache
Che "C'est la vie" di Eric Toledano e Oliver Nakache fosse una commedia godibile lo si poteva immaginare, un po' perché i due registi nell'ambito del genere in questione rappresentano uno dei rari casi in cui la popolarità si sposa con l'intelligenza, e poi in virtù del fatto che il film a casa propria è uno dei campioni d'incassi della stagione. "C'est la Vie" però si rivela un passo in avanti rispetto alle più rose previsioni, poiché non solo i registi ritrovano il sano menefreghismo e l'atteggiamento dissacrante che erano stati alla base del successo di "Quasi amici", ma lo uniscono a una gestione dello scena da grandi cineasti. Per essere una commedia l'opera si sviluppa in uno spazio scenico ultra dimensionato e attraverso un numero di personaggi da cinema kolossal. Merito della trama, collocata all'interno di una magnifica villa in cui fervono i preparativi di un matrimonio faraonico, e dei registi, i quali per raccontarne il dietro le quinte delle sua organizzazione decidono di girare il film come se si trattasse di una lunga session musicale e, quindi, di corrisponderne il saliscendi umorale dei personaggi con un ritmo sincopato, che nel film viene visualizzato dall'alternanza tra riprese a camera fissa e piani sequenza in cui la telecamera insegue i tentativi del protagonista di tenere testa alla litigiosità dei suoi dipendenti e ai molti imprevisti che rischiano di far precipitare la situazione. È' inutile dire che le scene esilaranti non si contano e che, alla pari di una partitura musicale, i nostri riescono a far suonare ogni meccanismo dell'ingranaggio, a cominciare dall'amalgama dei tanti attori che compongono il cast. Più importante è però sottolineare il crescendo drammaturgico con il quale il film riesce a trasformare il divertimento in qualcosa di più toccante e profondo, che ha il sapore della vita. Non andarlo a vedere quando uscirà nelle sale significa non volersi bene.
voto: 8
Selezione ufficiale The Movie of my Life di Selton Mello
Mai titolo fu più azzeccato ed esplicativo perché "The movie of my Life", del regista brasiliano Selton Mello, raccontando la formazione del giovane Tony Terranova, maestro di scuola abbandonato dal padre tornato in Francia senza alcuna spiegazione, passa in rassegna luoghi, situazioni e personaggi tra i più significativi e rinomati dell'immaginario cinematografico mondiale. E, quindi, non solo assegna a ciascuno dei protagonisti la faccia e gli atteggiamenti di alcuni degli autori più famosi della settima arte, ma li mette anche all'interno di eventi che in qualche modo finiscono per riprenderne la poetica. In questo contesto, Mello ci rende complici della sua cinefilia, riempiendo lo schermo di allusioni e ricorrenze che si concentrano soprattutto sul western e sulla nouvelle vague, con rimandi al mondo dei vari Francois Truffaut, John Ford e Orson Welles. Interpretato, tra gli altri, da Vincent Cassell, "The Movie of my Life" ha il merito di fare delle proprie ossessioni il punto di partenza per un'educazione sentimentale appassionata e originale.
voto: 8
Domenica 29 ottobre, quarto giorno
Eva contro Eva. In barba allo spirito del tempo, i due film principali della selezione della Festa di Roma raccontano di una compagine femminile perennemente divisa e disposta a tutto pur di prevalere una sull'altra. A salvare la categoria ci pensano le performance delle attrici protagoniste: Sandrine Bonnaire, avanti con gli anni ma ancora brava e affascinante, e soprattutto Margot Robbie, magnifica nel one woman show che la propone come una delle possibile vincitrice dell'Oscar.
Selezione ufficiale
Detroit di Kathryn Bigelow
Vittima di una stampa avversa che, soprattutto in Europa, non ha perso occasione per criticare il suo cinema, considerato reazionario e in qualche modo vicino, se non fautore, delle politiche della destra repubblicana, il caso Bigelow dimostra come i ricorsi storici servano a poco di fronte alla miopia del pensiero fazioso. In proporzione minore ma con eguale meccanismo, ciò che sta capitando alla regista americana ricorda quanto è successo a Clint Eastwood, riabilitato solo in tarda età dopo anni di ostracismo artistico. Il discorso si capisce meglio dopo aver visto "Detroit", film ispirato alle violente rivolte che sconvolsero la città del Michigan nel 1967, poiché la scelta di portare sullo schermo uno degli episodi più emblematici dell'ingiustizia sociale e della strisciante discriminazione operata nei confronti della comunità afroamericana ribalta di colpo gli stereotipi affibbiati alla regista. Al di là di questo, "Detroit" almeno dal punto di vista formale prosegue sulla strada di un cinema che scende in campo e si confronta in un corpo a corpo all'ultimo sangue con la materia del reale. Il prologo della vicenda, oltre a essere una delle parti migliori dell'opera, ci permette di entrare nel dettaglio di un dispositivo che si situa più avanti rispetto a quelli utilizzati prima in "The Hurt Locker" e poi in "Zero Dark Thirty". Leggi recensione
voto: 7
Selezione ufficiale
Prendre le large di Gael Morel
In principio "Prendre le large" sembra solo una questione di lavoro, perché il film comincia nella fabbrica in cui Edith, per evitare il licenziamento, accetta di trasferirsi in Marocco, dove i datori di lavoro hanno deciso di trasferire la propria attività. In realtà il centro della storia è ben più complesso e va dato merito a Gael Morel di averne sviluppato i risvolti con chiarezza e sensibilità. Questo non vuol dire che il problema lavorativo diventi un pretesto per parlare d'altro, perché anche nel paese nord africano la protagonista avrà modo di confrontarsi con la difficoltà - non solo sua - di assicurarsi la paga quotidiana. Ma come dice anche il titolo "Prendre la large" riesce ad andare oltre, intrecciando pubblico e privato per l'esigenza di Edith di trovare il proprio posto nel mondo dopo che marito e figlio l'hanno lasciata sola. Il fatto che lo cerchi lontano dall'Europa e con un viaggio a senso inverso rispetto agli odierni flussi migratori permette al film di riflettere sull'incontro di culture con sottolineature capaci di cogliere la complessità della sue dinamiche. Senza dimenticarsi della Bonnaire, la quale, nella parte di Edith, si prenota per una candidatura ai prossimi César.
voto: 6,5
Selezione ufficiale
I, Tonya di Craig Gillespie
Nato come biopic sulla vita di Tonya Harding, la pattinatrice statunitense passata alle cronache per essere stata implicata nel ferimento della rivale Nancy Kerrigan, "I, Tonya" diretto da Craig Gillespie si costruisce le credenziali del suo successo grazie alle scelte della regia e all'interpretazione dell'attrice protagonista. Con la prima il film riesce a cogliere l'assurdità del contesto in cui si consuma il dramma di Tonya, riproducendolo attraverso la decisione di depotenziare la verosimiglianza del mockumentary con l'utilizzo di toni esasperati e di espedienti formali come quello degli attori che si rivolgono direttamente in macchina atti a rivelare la presenza dell'artificio filmico. Con la seconda, invece, si impossessa del personaggio mediante una performance interpretativa in cui la Robbie annulla i segni della propria bellezza in favore di un'interpretazione - da Oscar - che sposa la disperata follia della bad girl americana.
voto: 8
Sabato 28 ottobre, terzo giorno
Anche nelle forme più convenzionali il cinema americano è abituato a trovare gli anticorpi che gli permettono di sopravvivere alla retorica delle proprie narrazioni. La terza giornata del festival ce ne offre un esempio attraverso due titoli che, pur confermando i valori fondanti della nazione, ne mettono comunque in discussione alcuni dei suoi pilastri più importanti. Come accade in "Stronger" e "The Last Flag Flying" dove il concetto di eroismo, inteso come superiorità fisica e morale della società americana, viene declinato secondo le mistificazioni e le ipocrisie operate da istituzioni e governanti.
Selezione ufficiale
Stronger di David Gordon Green
In un'ideale classifica degli attentati terroristici più rievocati dal cinema statunitense inizia a farsi strada tra le posizioni di vertice quello verificatosi durante la maratona di Boston del 2013 nel corso del quale oltre a centinaia di feriti persero la vita tre persone. A pochi mesi dall'uscita di "Patriot's Day" di Peter Berg che, ricordiamo, si focalizzava sulla caccia all'uomo che pochi giorni dopo portò alla cattura del vile attentatore, il grande schermo torna a quei terribili giorni per valutarli dal punto di vista delle vittime e, nella fattispecie, di Jeff Baumann, il quale, dopo la perdita di entrambe le gambe e a seguito del (duro) percorso di riabilitazione che gli ha permesso di tornare a camminare, è diventato un eroe nazionale e il simbolo della ripresa della capitale del Massachusetts. Per raccontarne il dramma David Gordon Green si affida alle memorie scritte dallo stesso Baumann, assicurandosi un materiale che se, da una parte, gli permette di affabulare il pubblico con informazioni di prima mano, dall'altro non lo mette al riparo dal rischio di farsi prendere la mano dalla retorica e dal sentimentalismo stimolati dalla condizione del personaggio. Per togliersi dall'impaccio Green si confronta con il suo protagonista concedendogli, sì, il fascino e la celebrità di un attore come Jake Gyllenhaal ma evitando che la fisicità e l'empatia dell'interprete possano diventare la scorciatoia per arrivare al cuore dello spettatore. D'altro canto, mentre le immagini ci mostrano il difficile percorso di cadute e risalite che contraddistinguono il percorso riabilitativo del protagonista e il tormentato rapporto con Erin (l'ottima Tatiana Maslany), la fidanzata che nei momenti più difficili lo aiuta a non mollare, Green ragiona sul significato di eroismo attraverso l'inadeguatezza di Baumann, impreparato ad affrontare un ruolo che non sente di meritare. Nel suo essere un biopic classico e convenzionale, "Stronger" tiene a bada gli eccessi di pietismo grazie alla misurata partecipazione di Gyllenhaall, bravo a mettersi da parte per fare emergere i tratti di un'umanità irrisolta e poco attraente.
voto: 6,5
Selezione ufficiale
Last Flag Flying di Richard Linklater
La notizia non era tanto di sapere che Richard Linklater sarebbe tornato sul set quanto piuttosto che "Last Flag Flying" avrebbe rappresentato il seguito de "L'ultima corveè", film simbolo della Nuova Hollywood diretto dal grande e molto compianto
Hal Ashby. A confermare le indiscrezioni c'era soprattutto il fatto che la sceneggiatura scritta dallo stesso regista era stata ispirata dall'omonimo libro di quel Darryl Ponicsan che aveva fornito il testo letterario utilizzato a suo tempo da Ashby. Al termine della proiezione possiamo dire che le anticipazioni sono state confermate solo a metà. "Last Flag Flying", infatti, non riprende né gli avvenimenti né i personaggi incarnati da
Jack Nicholson, Otis Young e Randy Quaid. Allo stesso tempo le biografie di quelli interpretati da Steve Carell, Bryan Cranston e Laurence Fishburne, il loro modo di relazionarsi e soprattuto la circostanze che li costringono a stare assieme sono molto simili al film del 1973. Anche in questo caso infatti c'è di mezzo l'esercito e la sua sporca guerra (allora era il Vietnam, qui l'Iraq) e come allora è un viaggio senza ritorno a mettere in circolo il mix di dramma e commedia che scandisce il
rendez-vous degli ex marine. Le continuità appena colte non impediscono però al film di Linklater di ritagliarsi la propria identità e di assumere toni più drammatici che camerateschi, derivati dal fatto che Larry "Doc" Shepherd (Carrell), l'ex marine Sal Nealon (Cranston) e il Reverendo Richard Mueller (Fishburne) si ritrovano a fare i conti con la morte del figlio di Doc, caduto sul campo battaglia e scortato dai tre uomini che si preoccupano di accompagnarne le spoglie fino al luogo dove si svolgerà il funerale. Senza contare che "Last Flag Flying" consente a Linklater di aggiornare la propria cinematografia che mai come in questo caso si era trovata ad affrontare cosi da vicino il tema della morte. Inoltre dopo una carriera volta a definire gli orizzonti esistenziali delle generazioni più giovani questa volta la regia del cineasta texano si produce in uno scarto anagrafico che seppur operante in una dimensione ancora una volta intima e personale lascia campo libero a una visione più matura e politica della vita, in cui il bisogno di riconoscimento e le grandi passioni artistiche e sentimentali vengono sostituite dall'urgenza del consuntivo esistenziale effettuato in una dimensione da grande freddo cinematografico. Alla lunga però il cambio di passo finisce per inceppare il meccanismo narrativo di Linklater, alterandolo laddove normalmente questo è capace di fare la differenza e cioè la fluidità dei dialoghi che, privati della consueta giocosità e leggerezza procedono con fatica, dando l'impressione di parlarsi addosso.
voto: 6
Venerdì 27 ottobre, secondo giorno
La Festa di Roma continua a percorrere le strade del cinema militante con due film che, in maniera diversa, interrogano il passato per trovare risposte sul presente. Da questo punto di vista, se la guerra fratricida è il tema che appartiene tanto a "Una questione privata" dei fratelli Taviani quanto a "
Detroit" di Kathryn Bigelow, la teatralità del primo e il realismo del secondo testimoniano una duttilità espressiva propria della settima arte che la festa del cinema ha saputo cogliere nella sue differenti manifestazioni.
Selezione ufficiale
Hostiles di Scott Cooper
Il film di Scott Cooper si apre con una frase di D. H. Lawrence il cui tema verte sull'insopprimibile istinto di violenza della nazione americana. Un frammento che torna utile al regista di "Hostiles" per certificare se mai non bastassero i fatti della storia recente per rendere credibile il dolore che investe il paesaggio delle sue cronache. Più di "Black Mass" il suo nuovo film sembra tornare ai luoghi (la provincia americana) e alle atmosfere (tragiche, come quelle di un pièce shakespeariana) che avevano scandito la "mattanza" di "Out of Fornace". Curiosamente però, a differenza del modello originale e a fronte di una prima parte segnato da un'incontrovertibile spirale di violenza, "Hostiles" riesce ad arrivare alla fine senza sconfessare le sue premesse, ma comunque consegnando allo spettatore un inaspettato messaggio di speranza.
Leggi recensione voto: 8Selezione ufficiale
Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani
Non è la prima volta che i fratelli Taviani si ispirano a un'opera letteraria, ma "Una questione privata", tratto dall'omonimo romanzo di Beppe Fenoglio, si colora di una spregiudicatezza che non passa inosservata. Se la storia del triangolo sentimentale che vede due amici innamorarsi della stessa ragazza ripropone una delle situazioni più classiche tanto nel cinema quanto nella letteratura, a fare la differenza nel libro dello scrittore piemontese è il fatto che lo scenario dove si svolge la vicenda è quello della resistenza partigiana impegnata a contrastare le azioni del regime fascista. Fino a qui nulla di male, se non fosse che, alla pari del testo scritto, pure in quello filmico succede che i fantasmi dell'amore abbiano un peso eguale se non superiore a quelli generati dalle conseguenze delle guerra. Invece di normalizzare il contesto, Paolo e Vittorio Taviani si adoperano per costruire un dispositivo in grado di aumentare il senso di straniamento insito nelle premesse del film, adottando una messinscena antinaturalistica e teatrale in cui tutto - a partire dalla nebbia che avvolge Milton e i suoi compagni per la maggior parte delle scene, per proseguire con la recitazione anaffettiva degli attori - rimanda a una dimensione più metafisica che reale. Di fronte a tanta modernità è davvero un peccato che a mancare sia la capacità di entrare in sintonia con lo spettatore, quasi sempre escluso dal tormento emotivo che scuote i personaggi.
voto: 6Conferenza stampaUna questione privataSeduto accanto ad attori che hanno meno della metà dei suoi anni, almeno nello spirito Vittorio Taviani dimostra di essere il più giovane dell'intera compagnia. Sarà perché per una volta la promozione del film lo vede impegnato in prima persona e senza la presenza del fratello Paolo, il regista de "Una questione privata" tiene la scena senza sottrarsi alle domande dei giornalisti, i quali, manco a farlo apposta, si soffermano per lo più sulle questioni ideologiche e politiche sollevate dal romanzo di Beppe Fenoglio, sottovalutando l'importanza dell'ossessione sentimentale del protagonista che al contrario costituisce il motivo portante dell'intera narrazione fimica. Nel farlo rivelare, l'autore toscano rivendica l'autonomia della propria arte: "Mi sembra che la conversazione sia troppo unilaterale" dice il regista, "mentre quando siamo sul set io e Paolo ci occupiamo molto della spettacolarità della messinscena. Ci piace filmare gli attori e quando si dà il ciak ci emozioniamo più che se sentissimo suonare la quinta di Beethoven". A proposito di Fenoglio, definito "il più grande scrittore italiano del dopoguerra", apprendiamo che il desiderio di portarlo sullo schermo esisteva da sempre, e che averlo fatto solo oggi è dipeso dall'impossibilità di acquistarne i diritti. "Sentivamo che la sua poetica ci dava la possibilità di raccontare le nostre inquietudini secondo le regole del cinema che sono diverse da quelle della letteratura". A chi gli chiede se sia ancora necessario parlare di fascismo risponde: "il film è innanzitutto una storia d'amore però penso che di fascismo si debba sempre parlare, soprattuto in giorni come questi in cui le cronache ci dicono che questa ideologia è più viva che mai". D'accordo con lui sono gli interpreti del film, Lorenzo Richelmy, Valentina Bellè e soprattutto Luca Marinelli."Ritrovarmi sul set insieme a ragazzi di vent'anni mi ha riportato alla realtà di quegli anni e al sacrificio compiuto da quei giovani" dice Marinelli, "interpretate la parte di Milton è stato come entrare nella macchina del tempo. Ne sono uscito corroborato e maggiormente consapevole".
Giovedì 26 ottobre, primo giornoSe, nel giorno d'apertura, è possibile farsi un'idea del progetto che sta dietro all'edizione di un festival, quelle viste oggi alla Festa del cinema di Roma forniscono già alcuni indizi di cui prendere nota. Non è banale, per esempio, il fatto che sia "Hostiles" dell'americano Scott Cooper che "The Breadwinner" dell'irlandese Nora Towney scelgano di raccontare realtà tragiche e brutali attraverso forme ed estetiche che si rifanno a principi di armonica bellezza. Altrettanto non scontato è che entrambi i lungometraggi riescano a essere coerenti e credibili anche al cospetto di storie in cui la speranza finale è il frutto di premesse nichiliste e catastrofiche. Senza dimenticare che la decisione di affidare il compito di introdurre la visione del film americano all'inserto di "Cabaret", e, in particolare, allo straordinario assolo musicale di Liza Minelli, si rifà a un tipo di cinematografia che sapeva essere allo stesso tempo intelligente e spettacolare. Caratteristiche che, a prima vista, sembrano essere le stesse dei titoli più attesi di questa edizione della Festa del cinema.
Alice nella città
The Breadwinner di
Nora TowneyNell'accezione della lingua anglosassone il termine
breadwinner ha una valenza che rimanda all'importanza del capo famiglia come procacciatore del benessere necessario a soddisfare i bisogni del resto del gruppo. Un ruolo che, nell'Afghanistan dell'ortodossia Talebana (siamo nel 2011 alla vigilia dell'entrata in guerra con la coalizione occidentale) spetta all'undicenne Paryana, la quale, dopo l'incarcerazione del padre, è costretta a fingersi un maschio per poter guadagnare quel pane essenziale alla sopravvivenza di madre sorella e fratellino. Assistente di Tomm Moore nella regia de "The Secret of Kells" e "
La canzone del mare", l'irlandese Nora Towney riprende le estetiche del suo maestro per raccontare una storia d'amore e di amicizia sullo sfondo di uno dei momenti più bui della storia dell'uomo. Costruendo una trama che - nel rispetto della cultura afghana - si sviluppa attraverso la moltiplicazione dei segmenti narrativi, alternando il filone principale, costituito dagli sforzi della bambina per tenere insieme la sua famiglia con l'altro, costituito dalle favole che Parvena racconta al fratellino, "The Breadwinner" prende le distanze dalla verosimiglianza dell'animazione americana, scegliendo una stilizzazione (pittorica) delle figure e degli ambienti in grado di donare ai personaggi il surplus d'umanità e di poesia. Regalo per grandi e piccini "The Breadwinner" inaugura al meglio la sezione Alice nelle città 2017.
Voto: 7
Conferenza stampa
HostilesDopo averla vista tormentata e afflitta per quasi tutti i 137' di "Hostiles", fa un certo effetto ritrovare la diafana e bella Rosamund Pike avvolta nel vestito rosso che ne mette in risalto il fisico da perfetta mannequin. Avvenente come una diva degli anni 50, la Pike ci tiene a far sapere che per la sua Rosalie si è ispirata alla realtà e a un tipo di donna molto femminile, "lontana da quella che il cinema di oggi costringe a scimmiottare i comportamenti maschili". Accanto a lei, il regista Scott Cooper parla del suo western anomalo, sottolineando come le circostanze e i contenuti presenti nel film gli siano stati ispirati dalla realtà contemporanea e, in particolare, da quello che sta succedendo negli Stati Uniti dopo l'elezione di Donald Trump. "Sono ottimista di natura" dice Cooper "eppure la violenza, il razzismo e l'antisemitismo che lacerano l'unità del nostro paese non fanno bene sperare. In questo senso mi piacerebbe che i messaggi di riconciliazione e di rispetto delle diversità offerti dalla storia servissero a far discutere e a muovere le coscienze". Influenzato da Cormac McCarthy e da John Ford anche Cooper, come altri autori della sua generazione, considera il genere western come un'opportunità. "E' vero che i western non passano mai di moda, ma ciò a cui ero interessato era la possibilità di confrontarmi con un umanesimo reale e profondo, capace di contenere le fasi di un percorso di caduta e redenzione che appartiene a tutti i personaggi".