È di nuovo tempo di OndaNobel, il riconoscimento annuale che la redazione di Ondacinema conferisce alla figura vivente che più delle altre abbia contribuito in modo significativo al progresso della settima arte. Dopo la visionarietà di David Lynch, ad essere insignito è Jack Nicholson, leggenda del cinema hollywoodiano dagli anni 60 ai giorni nostri
Dodici candidature agli Oscar di cui tre vinti. Diciassette candidature ai Golden Globe, di cui sei conquistati. Semplicemente, nessuno meglio di lui. Basterebbero i numeri ad argomentare le motivazioni che hanno spinto la redazione ad assegnare tale onoreficienza all'uomo dei record. Ma, anche accantonando i più prestigiosi awards d'oltreoceano, provate a immaginare cosa sarebbe stata la magia del cinema senza l'incanto di quella lungimirante pazzia infusa da Jack Nickolson in oltre cinquant'anni di carriera. Pensate all'universo dei personaggi partoriti dai frammenti di celluloide e provate a riflettere sulla privazione che avrebbe avuto questa magia se non fossero mai esistiti i vari George Hanson, l'avvocato alcolizzato del manifesto sessantottino "Easy Rider", Jake Gittes, il sarcastico detective perso tra le atmosfere noir del capolavoro di Polanski "Chinatown", o ancora la sete di libertà di Randle MacMurphy in "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e la schizofrenia omicida di Jack Torrance nell'horror kubrickiano di "Shining". No, il cinema non avrebbe mai potuto fare a meno di Jack "mulholland man" Nicholson.
Nato il 22 aprile del 1937 e approdato giovanissimo all'interno del panorama cinematografico internazionale, l'attore (ma anche produttore e regista) newyorkese deve gran parte del suo slancio verso le luci della ribalta all'immortale Roger Corman che gli affidò diversi ruoli da protagonista nei suoi eclettici horror low cost ("La piccola bottega degli orrori") e successivamente, sempre grazie a Corman, conosce il regista Monte Hellman che lo dirigerà nel suo primo grande capolavoro, "La sparatoria". Insieme a Hellman, a soli ventidue anni, Nicholson diviene produttore cinematografico fondando la Proteus Film. È l'anticamera al successo e alla consacrazione internazionale che giunge con "Easy Rider" del suo grande (e compianto) amico Dennis Hopper.
E poi via verso gli anni settanta che segnano l'esordio del Nostro dietro alla macchina da presa in "Yellow 33" e decretano l'avvio della lunga e collaudata collaborazione con i registi Bob Rafelson e Mike Nichols. La sua vita privata è fortemente turbata dalle sconvolgenti rivelazioni che riguardano la sua famiglia ma neanche un ostacolo così ostico da superare riesce a scalfire Nicholson, che in rapida catena inanella pellicole dall'indiscussa magnificienza sorrette dalla sue carismatiche e inebrianti interpretazioni: sono gli anni di "Cinque pezzi facili", "L'ultima corvè", dei già citati "Chinatown" e "Qualcuno volò sul nido del cuculo", dell'incontro con Michelangelo Antonioni in "Professione: reporter", del massimo momento di splendore dell'attore culminato nella (sua) più grande interpretazione di sempre: in "Shining" di Stanley Kubrick, il personaggio di Jack Torrance rappresenta il Cinema che, impossessato dal Male, aggredisce lo spettatore ostentandogli il lato oscuro della natura umana. Tra gli aneddoti legati al film si vocifera che prima della celebre scena in cui, per mezzo di un'ascia, comincia a squarciare la porta, Nicholson era così nella parte che urlava imprecando ancor prima dell'inizio delle riprese e successivamente rischiò pericolosamente di ferire il macchinista per l'eccessiva e squilibrata smania sul set.
Mentre la fama e il mito lo travolgono nel decennio successivo, conferendogli oltretutto lo status di sex symbol, il cinema ha ancora la fortuna di cullarsi tra le braccia del suo innato talento, manifestando altresì la sua universalità in generi come la commedia nera ("L'onore dei Prizzi"), il sentimentale ("Voglia di tenerezza") e la caricaturalità dei fumetti, operazione che gli calza a pennello quando si ritrova ad animare attraverso le sue innumerevoli maschere il Joker di Batman nel film di Tim Burton.
Così, dopo aver calcato per ben cinque decadi di assoluta gloria il jet-set dello scenario hollywodiano e dopo aver contribuito in maniera massiccia al modellamento di quest'arte in molteplici sfaccettature per l'intera seconda metà del novecento, anche Jack Nicholson ha fatto il suo ingresso nel nuovo millennio cinematografico, ereditando quel piglio di senile staticità che fino ad allora mancava tra i pezzi del suo repertorio ("La promessa", "A proposito di Schmidt") senza mai rinunciare alla sua follia impudente ("Terapia d'urto") e diabolica ("The Departed"), suo personalissimo marchio di fabbrica.
Giunto alla soglia dei sempreverdi 75 anni, magari un po' ingrassato, Nicholson rappresenta oggi un immaginario collettivo cinematografico imprescindibile e irrinunciabile, icona ribelle, elogio alla follia del genere umano, interprete di un altro pianeta. Un "venusiano" verrebbe da dire, per citare una memorabile sequenza di "Easy Rider". Impossibile descrivere e racchiudere in queste poche righe la sua grandezza. Ma in fondo le parole possono poco, per colmare questo vuoto basterebbe ammirare le sue imprese e innamorarsi dei suoi film che hanno fatto la storia del Cinema.
La redazione di Ondacinema presenta un estratto che ripercorre la carriera dell'attore in undici pillole. Undici imperdibili appuntamenti per non lasciarsi sfuggire il meglio dell'eclettico artista newyorkese.
La sparatoria (Monte Hellman, 1967)
Cresciuti nella factory di Roger Corman, Monte Hellman e Jack Nicholson nel 1965 realizzarono in contemporanea "Le colline blu" e, dal tormentato montaggio e uscito in ritardo, "La sparatoria", film di raccordo tra il primo indipendente Nicholson e quello che da lì a poco avrebbe cavalcato dorate creste hollywoodiane. Con un budget ridotto all'osso e un impianto scenografico assente - che fa sembrare i western di Fritz Lang dei kolossal - raramente si è visto un western tanto spoglio come "The Shooting": distanze annullate, on the road verso il nulla, teatralità e interazione tra i personaggi con rimandi a Samuel Beckett, un finale spiazzante ma mirabile. Nicholson entra in scena dopo oltre mezz'ora e imbastisce le proprie crudeli trame molto sottilmente. (D.C.)
Easy Rider (Dennis Hopper, 1969)
"Easy Rider" apre storicamente la stagione della New Hollywood. La apre con una scorrazzata in chopper, degna di un western moderno, che attraversa l'America e la controcultura dell'epoca. Un viaggio on the road lungo la Route 66 con l'unico obiettivo di rimanere liberi. I protagonisti, Billy e Capitan America, incontrano George Hanson interpretato da Jack Nicholson che al tempo stava cominciando a considerare l'ipotesi di smettere di recitare. Il ruolo dell'avvocato che aiuta i due motociclisti a uscire di prigione e che li accompagna per un tratto di strada, fumando marijuana e inventandosi sproloqui sui Venusiani, spalanca le porte del successo al trentaduenne Nicholson che diverrà uno degli attori simbolo del decennio successivo. Interpretazione più realistica di quanto si possa immaginare (in scena e fuori si consumarono notevoli quantitativi di marijuana), in un film girato da un gruppo di amici che rimarrà tale, nonostante tutto. (G.G.)
"Cinque pezzi facili" è il film che impose Jack Nicholson come il volto da contrapporre ai divi "perbene" della Hollywood classica. Nell'opera seconda del sottostimato Bob Rafelson, il tre volte premio Oscar interpreta un personaggio che è tutto un programma sin dal nome: Robert "Eroica" Duprea. Origini borghesi impresse nel DNA e all'anagrafe, e un futuro già stabilito come pianista, che fanno a cazzotti con uno sguardo da ribelle e una vita on the road in sintonia con la controcultura dei tempi. Jack è una bomba pronta a detonare, che sotto la parvenza di una mansuetudine da "uomo di casa" cela un mare di rabbia e risentimento. Indimenticabile. (A.P.)
Chinatown (Roman Polanski, 1974)
1973. Jack Nicholson e Roman Polanski si inseguono da tempo, e una sceneggiatura li salda: Chinatown. Tanto forte da strappare Polanski alle riluttanze date dal ricordo della moglie uccisa. Tanto inevitabile per l'attore da anticipare le bizzarre agnizioni familiari che vivrà di lì a poco.
Nicholson è J.J. Gittes, detective privato avvezzo ai vestiti di sartoria e alla sfacciataggine della Los Angeles del 1937. Chinatown è il sintomo di una corruzione e di un'apatia senza ritorno, scolpita nel sorriso tagliente di un protagonista che si lascia via via travolgere da una passione che fino all'ultimo crede di dominare. Sono il rassegnato sussurro e lo sguardo svuotato di ogni luce di Gittes nel finale a consegnare il film alla storia. (P.D.)
Professione: reporter (Michelangelo Antonioni, 1975)
Prima degli strazianti e frastornanti deliri per Forman e Kubrick, il cupio dissolvi del fu reporter Locke tra le ottave basse di Antonioni. L'incontenibile Nicholson sta stretto nei panni schivi di chi vuol far perdere le proprie tracce. Ma, dopo uno sfogo rabbioso per una Jeep incagliata nel deserto, è una pantera nella Barcellona di Gaudì, si getta in fughe rocambolesche, lascia infine la scena alla camera-stylo di un maestro del piano-sequenza. Pura introspezione e ricerca identitaria, forse il film di cui Jack è più orgoglioso. (C.Z.)
Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975)
"Lei pensa che la sua mente abbia qualcosa che non va?" "No signore, è una meravigliosa stupenda macchina della scienza". Jack Nicholson e l'ospedale psichiatrico, binomio imprescindibile per un artista così ribelle e sprezzante. Nel capolavoro di Forman la sanità/libertà di McMurphy incontra la schizofrenia/reclusione dei pazienti in una miscela emotiva tutta giocata sull'ottima interpretazione dei personaggi. Attraverso la fiaba e la denuncia sociale il cinema di Nicholson evidenzia quel filo invisibile e labile che unisce la follia alla ragione, nel film che ha fatto odiare a tutto il mondo l'infermiera Ratched, una strepitosa Louise Fletcher. Una delle vette della carriera (forse la più unanimemente riconosciuta, anche in termini di premi) dell'attore newyorkese. (M.D.S.)
Shining (Stanley Kubrick, 1980)
Jack Torrance, aspirante scrittore, accetta il lavoro di custode dell'inquieto Overlook Hotel, nel gelido Colorado d'inverno. Isolato, angosciato e poco ispirato, scrive per 400 pagine All work and no play makes Jack a dull boy, un capolavoro dadaista che è insieme regressione infantile, riminiscenza di una colpa mai espiata e lettera di licenziamento che Jack non è in grado di indirizzare ad alcuno...
Il crocevia formidabile di sguardi, inesorabile quello di Kubrick, "luccicante" quello di Doc, infero quello dell'Hotel, accoglie il magistrale campionario delle smorfie di Nicholson che Shining incorona mattatore in una mattanza che scorre letteralmente a fiumi, imponderabilmente sobria. (P.C.)
Batman (Tim Burton, 1989)
Il volto che si squaglia a contatto con l'acqua e rivela una maschera; la maschera che si incolla alle pieghe del volto, deformandone le fattezze in uno squarcio ilare di follia. Polarità speculari, che squassano il Joker di Nicholson e ci rivelano l'estetica pop di un criminale convulso e carnale, che non filosofeggia, ama Francis Bacon ed esibisce un repertorio infinito di sogghigni, occhiate luciferine e plastiche pantomime. Alla fine il disfacimento fisico del villain svela la meccanica di un corpo ridotto a fantoccio, che risuona nel gracchiare sinistro di una metallica risata post mortem. Ma Jack ha fatto in tempo ad ammonirci: è pericoloso rubare rabarbaro in barba a un barbaro. (M.P.)
Qualcosa è cambiato (James L. Brooks, 1997)
Quasi vent'anni dopo il terrificante professor Torrance, Jack (Nicholson) torna ad essere uno scrittore. Stavolta di romanzi rosa, e pazzo in diversa maniera. Un misantropo dall'enorme ego e le innumerevoli ossessioni. "Prendo un uomo e gli tolgo affidabilità e raziocinio" è la sua definizione di donna. Ma qualcosa cambia quando scopre l'amore. Helen Hunt si dimostra (quasi) all'altezza di Nicholson ed entrambi si aggiudicano l'Oscar come attori protagonisti. Non succedeva dal 1991 con "Il silenzio degli innocenti" e dal 1998 una "doppietta" simile non si è più verificata. "As Good As It Gets" poteva essere una commedia sentimentale fra le tante, l'interpretazione del nostro l'ha resa già un classico del genere. (L.T.)
La promessa (Sean Penn, 2001)
La lunga e prolifica carriera di Nicholson ha conosciuto solo un brusco stop sul finire degli anni novanta. Quattro anni di purgatorio (record di inattività ad oggi) che si sono conclusi col ritorno sul grande schermo dell'ennesima, strepitosa prova da urlo. In "The Pledge", il thriller psicologico prende forma soprattutto grazie allo sguardo perso nel vuoto di Jerry Black, poliziotto in pensione che deve tenere fede alla promessa fatta alla madre di una giovanissima vittima. Un Jack Nicholson così solenne nella sua drammaticità, senza istrionismi né enfasi, forse non lo si era mai visto. L'apatia senile di "A proposito di Schmidt" (2002), e l'insanità irriverente di "Terapia d'urto" (2003) confermano lo stato di grazia dell'attore alle soglie del nuovo millennio cinematografico. (M.D.S.)
The Departed - Il bene e il male (Martin Scorsese, 2006)
Il remake del cinese "Infernal Affairs" nelle sapienti mani di Scorsese diventa un violentissimo noir alla Wambaugh con doppia caccia all'uomo. Nicholson, cravatta leopardata, pizzetto canuto, soliti occhi profondi e spiritati, è un Frank Costello dal fascino mefistofelico che merita l'ingresso immediato nella mitologia dei "gangster cattivi" accanto al Joe Pesci di "Goodfellas". Quella del vecchio Jack è una performance-autoritratto in cui coesistono, perfettamente equilibrati, eleganza e parossismo; un'interpretazione speculare allo stile scorsesiano in tutto il suo nervoso, virtuosistico splendore. (V.L.)