Tratto da un racconto di Louis Begley, "About Schmidt" è la terza fatica di Alexander Payne, tre anni dopo aver affrontato le problematiche scolastiche di "Election".
Non è una situazione atipica quella in cui si ritrova Warren Schmidt: un uomo che sta entrando progressivamente nella vecchiaia e che il destino ha voluto si ritrovasse senza lavoro (anche il buon vecchio Edmund Burke già teorizzava il lavoro come fondamentale per scacciare gli spettri dei dolori esistenziali) e senza moglie, nel periodo più burrascoso della sua vita. Warren capisce come la soddisfazione più grande che lo tiene ancora in carreggiata non sia la moglie (“chi è questa vecchia donna che vive a casa mia?”) benché quarantadue anni di matrimonio siano più che sufficienti per renderla parte integrante della sua vita. L'ancora di salvezza si chiama invece Jeannie. E proprio il matrimonio della figlia collima con l'ultimo atto prima del sipario, su un mondo a cui Warren Schmidt non può più chiedere nulla se non avere il disgraziato tempo di scoprire una calda relazione epistolare tra la defunta moglie e il suo amico di vecchia data. Tutto è perso. Rimane solo Jeannie. Anzi no, anche lei se ne sta andando. Rimane solo Ndugu.
La pellicola è un susseguirsi di vicende grottesche al limite dell'assurdo, marchiate dal pensiero del regista di inquadrare un mondo (una vita) triste e traboccante di solitudine, prontamente velata da quell'ironia quasi nervosa che serve solamente a rendere ancora più mesto il messaggio agli occhi dello spettatore. Il viaggio intrapreso dal monumentale Nicholson/Warren diventa retoricamente una presa di posizione del passato, pronto a fare i conti con il Nostro. Conti che non tornano perché il passato non può mai profetizzare le strade del futuro. Solo il palpitante (e decisivo) intervento al matrimonio e la commovente lettera finale indirizzata al bambino africano sentenzieranno che il passato è passato e la vita va avanti. Seppur melanconicamente. Tra le lacune di Payne, sicuramente il rammarico più grande sta nel non aver sfruttato a tutto tondo la figura del protagonista, reso alla perfezione da Jack Nicholson. Un film che dato il tema delicato si fa apprezzare comunque e che difatti proietterà meritatamente il giovane regista e sceneggiatore, due anni dopo i riflettori di questa pellicola, all'Oscar con "
Sideways". Ottime, infine, le musiche di Rolfe Kent ed Erik Satie.
A proposito di Nicholson. Senza di lui non staremmo a commentare e celebrare questo lavoro. Una leggenda.
15/06/2009