Figura di rilievo del cinema americano degli anni 70, ha pagato anche in retrospettiva un modo di fare cinema che non venne mai meno alle utopie più radicali del proprio tempo. Osteggiato dal sistema hollywoodiano, Ashby fu invece amatissimo dalla "gente" del cinema
Quando morì, la mattina del 27 dicembre 1988, Hal Ashby era un regista dimenticato. La realizzazione del suo ultimo film, Otto milioni di modi per morire (Eight Million Ways to Die, 1986), girato nel 1985, era stata complicata dalle divergenze produttive che avevano caratterizzato la prima metà di quel decennio, con Ashby impegnato a difendere la propria arte dalle ingerenze dei tanti finanziatori che lo avevano trascinato davanti alla legge per impedirgli di portare a termine i film alla sua maniera. Ad andarci di mezzo fu la sua reputazione: a partire dal quel momento, infatti, ritenuta inaffidabile per la stravaganza dello stile di vita, per non dire poi di certi lavori, distribuiti fuori tempo massimo e privati del final cut. Un ostracismo arrivato fino ai giorni nostri, se è vero che sulla sua opera sembra pendere una sorta di damnatio memoriae che ha impedito lo sviluppo di un apparato critico e filologico in grado di considerarlo per quello che è veramente stato. Basti pensare all'irreperibilità di alcuni titoli - introvabili sia online che nei negozi specializzati, e all'assenza di libri e saggi a lui dedicati - per capire le conseguenze di tale ostilità. Questo ci riporta al punto di partenza e alle ragioni di una monografia nata sulle ali di una passione mai sopita e consapevole di assumersi la responsabilità di un discorso cinematografico che non ha elementi con cui confrontarsi, a parte quelli che troverete citati nelle note.
Le ragioni di una diversità
Prima di entrare nel merito, sarà bene puntualizzare alcune cose a proposito del nostro autore. La prima riguarda il rapporto tra Ashby e la New Hollywood, il movimento cinematografico che esordì in concomitanza con i primi lavori del regista. Se nessuno mette in dubbio il diritto di associare il suo nome a quello di altri colleghi che in quegli anni si stavano affermando, è pur vero che Hollywood sentì la necessità di normalizzare la diversità di Ashby, attribuendogli un retroterra intellettuale e cinefilo che non aveva mai avuto. A differenza dei vari Scorsese, Coppola, Friedkin e Bogdanovich, che erano stati educati al cinema da giovanissimi e che attraverso le scuole specializzate speravano di diventare filmaker, il regista di Harold e Maude (Harold and Maude, 1971) frequentava le sale come un qualunque altro teenager, e la sua passione per la settima altre fu la conseguenza di vicende private (prima fra tutte il suicidio del padre e uno spirito di ribellione che lo spinse a emanciparsi dal bigottismo dell'ambiente in cui era nato), prima ancora che una ragione di vita. A venirci in aiuto sono anche le differenze anagrafiche che separano Ashby dal resto del gruppo. Nato nel 1929 ad Ogden, piccola cittadina dello Utah mormone, William Hal arriva alla regia dopo una lunga gavetta come montatore, e solo dopo aver vinto nel 1968 l'Oscar per il miglior montaggio lavorando a "In the Heath of The Night" dell'amico e mentore Norman Jewison.
Quando nel 1969 si appresta a dirigere The Landlord (The Landlord, 1970), Ashby è un uomo già maturo e con un'esperienza sul campo formatasi operando accanto ad alcuni mostri sacri del periodo precendente a quello della New Hollywood. Ricordiamo tra gli altri il William Wyler di "The Big Country", del 1958, e il George Stevens de "The Diary of Anne Frank" del '59, fino ad arrivare al Norman Jewison di "The Thomas Crown Affair" (1968). Ed è proprio questo scarto generazionale a fare la differenza in negativo, quando si tratterà di traghettarsi negli anni 80 e di adattarsi a un sistema produttivo che nel frattempo è cambiato. Se il passaggio dai 60 ai 70 era stato agevolato dalla presenza di un contesto che mutuava gli ideali della generazione a cui Ashby apparteneva, il periodo reaganiano, con le sue prerogative reazionarie ed edonistiche, rappresenta uno strappo troppo grande rispetto al modo di ragionare e di fare cinema del nostro. Difficoltà che non sono estranee agli autori della New Hollywood ma che nel caso di Ashby diventano una questione personale, di educazione e di mentalità, e non semplicemente una divergenza di punti di vista sullo stato dell'arte.
Gli anni della formazione
Dicevamo dell'apprendistato di Ashby e di una formazione che è il frutto di una gavetta iniziata lontano dai banchi di scuola, a partire dai gradini più bassi della scala gerarchica dello studio system la cui conoscenza diretta risale al 1956, anno in cui dopo alcuni lavoretti di pura manovalanza riesce a farsi assumere come assistant editor, iniziando quel processo di apprendimento che gli consentirà di debuttare come regista quattordici anni dopo. Un arco di tempo scandito da uno studio matto e disperatissimo dello strumento cinematografico che Ashby acquisisce con la certosina visione che contraddistingue il suo lavoro di montatore, e attraverso la condivisione del set di un autore come Wyler, dal quale assorbirà la meticolosità del metodo (e, purtroppo per lui, lo sforamento dei tempi di lavorazione), la collegialità dello sforzo realizzativo e, sul piano puramente artistico, la combinazione tra il rigore della messinscena e il realismo delle storie. Decisivo fu poi l'incontro con Norman Jewison, che lo farà debuttare alla regia non prima di avergli dato, come detto, la possibilità di aggiudicarsi un Oscar.
E' infatti il regista canadese a teorizzare e poi a mettere in pratica quell'avversione verso i produttori, nemici giurati dai quali i film devono essere difesi, che da li in poi diventerà il caposaldo delle molte battaglie anche legali che Ashby intraprenderà con i suoi finanziatori.
Il primo cinema
Una conflittualità perfettamente in linea con l'indipendenza dell'elaborazione artistica e con lo spirito dei tempi, caratterizzati da un ribellismo che la New Hollywood non tarderà a rappresentare attraverso alcune delle sue opere più famose. Ma è ancora sotto il segno della diversità che dobbiamo guardare ad Ashby se vogliamo capire le radici di un cinema che procede di pari passo con la vita dell'autore e che in qualche maniera ne costituisce lo spazio in cui si perfeziona il suo percorso di formazione. Non solo cinematografica - con l'apprendimento dei primi rudimenti e la messa punto di uno stile a metà strada tra il classico e il moderno - ma anche esistenziale, per il modo in cui sul set Ashby continuerà a esercitare il proprio modus vivendi. Non devono stupire, quindi, i continui riferimenti alla cultura hippy, che Ashby abbracciò non solo nei suoi aspetti più appariscenti (dal modo di vestire all'uso di sostanze stupefacenti) ma soprattutto nell'abitudine di ricreare intorno a sé, fuori e dentro il set, una vera e propria comunità di intenti e di persone di cui egli fu, indiscutibilmente, il leader carismatico. Un connubio - quello tra arte e vita - estensibile anche sul piano dei sentimenti, se è vero che Ashby, più volte sposato e, tra l'altro, padre di una figlia che non ebbe mai la possibilità di conoscerlo, intraprese una serie di relazioni destinate a durare il tempo di una lavorazione. Tanto per dire della forza di una simbiosi, difficilmente rintracciabile nelle esperienze dei registi a lui contemporanei, e di cui però si dovrà necessariamente tenere conto per cercare di comprendere a fondo le ragioni delle sue scelte.
The Landlord
L'esordio di Hal Ashby avviene quasi per caso e, come dicevamo, grazie all'intervento decisivo di Jewison che, impegnato nelle riprese di un altro film, riesce a convincere la Metro-Goldwin-Mayer ad affidare la regia di The Landlord al suo pupillo, a patto di sostituirlo in caso di eventuali inadempienze. Il copione, tratto dal libro di Kristin Hunter, corrispondeva perfettamente al bisogno di Jewison e dello stesso Ashby di concentrarsi su un materiale più impegnato rispetto a quello stilizzato e commerciale di "The Thomas Crown Affair". Una sollecitazione che era anche la conseguenza dell'assassinio di Martin Luther King, il paladino della lotta per i diritti civili la cui uccisione, avvenuta un anno prima (1969), aveva scosso non poco i due amici, intenzionati a tenere alta l'attenzione sulla questione razziale e sulla discriminazione della comunità afroamericana.
The Landlord narra infatti la storia di Elgar Enders, rampollo di una ricca famiglia newyorkese intenzionato a raggiungere l'indipendenza economica speculando sull'acquisto di uno stabile abitato da inquilini di colore e situato in una delle zone più malfamate della città. Deciso a sfrattarne gli occupanti, Elgar cambierà idea quando si renderà conto delle condizioni d'indigenza degli stessi, di cui finirà per condividere abitudini e socialità. Al di là dei temi scopertamente critici verso l'ipocrisia della società americana, colpevole nella sua classe dirigente - e in questo caso nella famiglia del protagonista - di predicare solo a parole la necessità di una politica d'integrazione, il film è un esordio più maturo di quello che ci si poteva aspettare, non tanto per la serietà dei contenuti quanto per l'equilibrio - di toni e di messinscena - con cui Ashby riesce a portare avanti la sua denuncia. Un dispositivo che ha le forme di una commedia vagamente naif, struttura narrativa già di per sé anomala che continuerà a frequentare per il resto della carriera ma su cui il regista opera una serie continua di destabilizzazioni derivate in parte da un senso dello humour tanto sottile quanto corrosivo, e, nel caso specifico, dalla presenza di una serie di espedienti tecnici che vanno dalla sgrammaticatura del montaggio, utilizzato per rendere gli sbalzi emotivi e la confusione di Elgar, alla presenza di una fotografia espressionista a cura di un giovane Gordon Willis, lontana dalla vivacità coloristica tipica del genere e pronta a cogliere nelle differenze luminose (chiara e netta quella degli ambienti wasp, buia e priva di contorni quella riferita agli slum del ghetto) il contrasto delle appartenenze sociali.
In più, The Landlord ci regala un personaggio che, nel suo immaturo senso di responsabilità e negli atteggiamenti da adulto mai cresciuto, rappresenta il prototipo di un modello di maschio americano che Ashby riproporrà più volte nel corso della carriera e a cui il regista non riesce a non volere bene: come dimostra l'aura d'ingenuità mista a simpatia che anche nelle situazioni più drammatiche non manca mai al protagonista. Inoltre, tra i marchi di fabbrica del regista, non si può non segnalare la prima e forse più irriverente tra le tante apparizioni (cameo) che l'autore si concederà nel corso della carriera, e che in questo caso è rappresentata dal frame iniziale in cui, per un secondo, assistiamo a una scena rubata dal filmino del matrimonio dello stesso Ashby, avvenuto durante la lavorazione del film, in cui la sposa, con un improvviso gesto d'affetto, si sporge per baciare Norman Jewison. Un estratto di quella vita reale che Hal farà entrare dentro i suoi set in maniera significativa.
Harold e Maude
Gli incassi di The Landlord non corrisposero alle aspettative di nessuno. Della Metro, che non riuscì a recuperare la cifra stanziata - 2,5 milioni di dollari, somma normalmente preclusa ai registi esordienti. Di Ashby, deluso dai numeri del botteghino e scorato da una campagna pubblicitaria che, insistendo su allusioni sessuali allo scopo di catalizzare l'attenzione degli spettatori più giovani, aveva finito per alienargli le simpatie del grande pubblico. Tuttavia, la qualità della regia non passò inosservata e poco tempo dopo la Paramount scelse proprio Ashby per realizzare un film tratto dalla sceneggiatura di Colin Higgins, studente della UCLA che era riuscito a fare arrivare il suo script ai vertici della major. In effetti, la storia di Harold e Maude aveva tutte le caratteristiche per colpire l'immaginazione del regista, perfettamente compatibile con la stravagante diversità di due personaggi come Harold Chasen - diciottenne di buona famiglia affetto da manie suicide - e di Marjorie Chardin - ottuagenaria vitale e sbarazzina - e con l'anticonformismo del loro legame, destinato a trasformarsi in una poetica quanto impossibile storia d'amore. Affinità, queste, che si inserivano senza soluzione di continuità in un contesto di situazioni e di temi già affrontati nel lavoro precedente.
Harold e Maude, infatti, utilizzava ancora una volta l'incontro di due mondi differenti e distanti per innescare una serie di reazioni a catena che, da una parte, risultavano funzionali alla progressione narrativa del filone principale, quello dedicato al legame sentimentale tra i due personaggi, dall'altra, tornavano utili ad Ashby per organizzare una rappresaglia nei confronti della società americana, destabilizzata nelle sue fondamenta con la messa alla berlina dell'istituto famigliare, rappresentato, neanche a farlo apposta, da una figura materna vacua e anaffettiva; e di quello militare, sbeffeggiato attraverso le pulsioni guerrafondaie e la personalità monolitica dello Zio Victor, ufficiale in comando, incaricato di riportare Harold sulla via della ragione.
Senza rinunciare alle istanze di verità che trovano sfogo nell'impressionismo fotografico di John Alonzo, direttore della fotografia proveniente dal documentario e ingaggiato da Ashby per mantenere alto il livello di realismo delle sue storie, Harold e Maude si muove in un territorio ad alta contaminazione di generi, in perfetto accordo con la natura mutevole di un racconto che passa dal romanticismo delle scene in cui il film idealizza l'amore tra i due protagonisti, alle sfumature di varia comicità (grottesca, surreale, slapstick) riferite sopratutto al tormentone dei suicidi simulati da Harold nel (vano) tentativo di spaventare la madre, e agli inserti davvero esilaranti e degni del Kubrick de "Il dottor stranamore" che ci ragguagliano sui tentativi dello zio Victor di convincere il riottoso nipote a entrare nell'esercito.
Dietro le quinte, Ashby si preoccupa di creare la necessaria alchimia tra i due protagonisti, armonizzando la capacità di improvvisazione di Bud Cort (Harold), attore cresciuto negli ambienti della stand-up comedy, con l'assoluta fedeltà al copione di Ruth Gordon (Maude), premio Oscar come attrice non protagonista di "Rosemary's Baby", abituata al rigore delle rappresentazioni teatrali frequentate da protagonista nella prima parte di carriera.
Il risultato è ancora una volta frainteso, anche a causa di un'uscita natalizia che finisce per irritare sia pubblico che critica, non ancora pronti a coniugare i valori della più tradizionale delle feste con la voglia di trasgressione insita in una storia d'amore così lontana da quelle normalmente raccontate sullo schermo. E se il tempo renderà merito a Harold e Maude, consegnandolo a un culto, giovanile e universitario, che anni dopo spingerà la Paramount a rieditarlo per ben due volte, rimane il fatto che Ashby deve ancora una volta rimandare l'appuntamento con una definitiva affermazione.
I dissidi con Hollywood. La ribellione amara de L'ultima corvé
A margine delle difficoltà riscontrate nel confrontarsi con l'apparato produttivo, e nonostante le risposte di un mercato cinematografico non ancora pronto ad assorbire le feroci sferzate della loro storie, i due film girati da Ashby erano serviti al regista per definire i principi del proprio mestiere. Il più importante consisteva nella dichiarazione di indipendenza della creazione artistica, tutelata dalla costante attenzione riservata al montaggio, prassi che Ashby continuò a seguire con la stessa dedizione di quando la esercitava in prima persona, e che preservò al di fuori delle strutture degli studios, stabilendosi nella famosa Appian Way, quartiere generale e casa-lavoro del regista e della sua comunità. C'era poi la questione di una poetica che in maniera non declamatoria era in grado di offrire uno sguardo ai problemi del proprio tempo e alle trasformazioni in atto nella società americana. L'influenza della controcultura, il ribellismo giovanile, il movimento dei diritti civili, l'interventismo bellico e l'amministrazione politica del paese, almeno per il momento, entravano nel cinema di Ashby non in maniera perentoria ma riflettendosi sulle peculiarità dei personaggi e sulla particolarità delle loro scelte esistenziali. A prevalere era quindi un cinema in cui i fatti erano subordinati alle persone e alle dinamiche che ne regolavano i rapporti, in concomitanza con la visione di un mondo in cui - e qui non deve essere stata estranea al regista l'influenza del movimento hippy - le diversità sociali, culturali e razziali, erano destinate a incontrarsi nell'uguaglianza dei sentimenti e delle emozioni.
Delle reazioni dello show business rispetto all'entrata in scena di Ashby già sappiamo. C'è da aggiungere che dal primo momento l'atteggiamento dei produttori fu caratterizzato da un esplicito pragmatismo e da una sopportazione cui non era alieno il crescente prestigio che Ashby riscuoteva presso alcuni degli attori più importanti del momento. Un fenomeno che non venne meno anche nei periodi più difficili della sua carriera e che, nello specifico, si tradusse nelle offerte che il regista ricevette al termine delle riprese di Harold e Maude.
Molti i copioni passati per le sue mani e per diverse ragioni scartati. Tra questi ricordiamo: "Il postino suona sempre due volte", "Hair" e "Qualcuno volò sul nido del cuculo", che il regista sembrò sul punto di realizzare e che poi fu abbandonato per la defezione dell'amico Jack Nicholson. Proprio quest'ultimo, dichiarato estimatore del suo lavoro, propose di realizzare insieme L'ultima corvé (The Last Detail, 1973), la cui sceneggiatura, tratta dall'omonimo libro di Darryl Ponicsan, era stata scritta da Robert Towne (responsabile dello script del mitico "Chinatown") pensando proprio a Nicholson nella parte di uno dei due protagonisti. La trama ruota intorno alla missione di "Bad ass" Buddusky e "Mule" Mulhall, sottufficiali della marina militare incaricati di scortare Larry Meadows presso la prigione di Portsmouth dove il marinaio dovrà scontare otto anni di carcere per aver sottratto 40 dollari dal ricavato di un donazione di beneficenza organizzata dalla moglie del loro comandante. La semplicità dell'intreccio, sviluppato secondo le tappe del viaggio che separa i protagonisti dalla località di destinazione, è arricchito da una serie di episodi che scaturiscono dalla decisione di Buddusky e Mulhall di offrire un po' di svago al prigioniero in vista dell'imminente detenzione. Nelle mani di Ashby, il viaggio dei tre protagonisti diventa una sorta di peregrinazione nel cuore dell'America, attraversata quel tanto che basta per poterne tracciare lo stato di salute. Ma non solo. Perché, alla maniera tipica del road movie, anche il tragitto raccontato da L'ultima corvé, diventa metafora di un percorso di conoscenza personale e collettiva. Nel tradurlo in immagini, Ashby si preoccupa soprattutto di mantenere alto il realismo della messinscena. Decide quindi di accompagnare idealmente i suoi personaggi, girando la storia in maniera cronologica e, ove possibile, ambientandola nei luoghi previsti dalla sceneggiatura (la Marina Militare americana negò la possibilità di utilizzare la base di Norfolk, Virginia, costringendo il regista ad accettare la disponibilità offertagli dalla Marina canadese). Inoltre, assieme a Michael Chapman, un altro dei futuri grandi direttori della fotografia ("Taxi Driver", "Toro Scatenato") tenuti a battesimo dal regista, viene messa a punto una grammatica visuale spoglia e costruita sull'impiego di luci naturali, al fine di restituire le maniere rudi e franche dei caratteri.
Seppur lontana dalla filosofia di vita dell'autore, l'opera esprime una partecipazione nuova e un coinvolgimento più forte rispetto ai film precedenti, rilevabile anche sul piano formale per l'utilizzo meno insistito dei campi lunghi e per una maggiore vicinanza della mdp all'azione. Un paradosso in parte spiegabile con la necessità di manifestare la mancanza di orizzonti dei tre militari - con Meadows prossimo al carcere e Buddusky e Mulhall che al massimo sperano di lucrare due giorni di licenza prima di un possibile imbarco - ma anche dal tentativo di mutare la personale naturale avversione verso la materia bellica, nella volontà di comprendere meglio le ragioni degli altri. Un'ambivalenza che il film comunica nell'alternanza dei toni, ora drammatici, quando il sodalizio è costretto a ubbidire alle regole e quindi ad abbandonare lo svago, ora esilaranti, quasi fino al ridicolo, al momento di sottolineare l'insensatezza e l'alienazione prodotte da un sistema vessatorio. Con ogni probabilità, non è un caso che il film, girato durante la campagna per la rielezione di Richard Nixon, avvenuta nel novembre del 1972, sia la rappresentazione di un "doppio tradimento": del regista, che si sfila dalla retorica patriottica della nazione in armi svelandone il lato meno eroico e più grottesco; della storia, che nel concitato finale si rimangia quel briciolo di umanità e di amicizia che pure aveva cercato di coltivare.
A causa del linguaggio scurrile che, secondo i produttori, metteva a rischio gli incassi del film, Ashby si ritrovò di nuovo a lottare per preservare l'integrità del suo film. Dopo un lungo tira e molla, Towne e Ashby riuscirono comunque ad evitare la censura, mentre la Columbia iniziò a organizzare la campagna promozionale che avrebbe portato L'ultima corvé alla notte degli Oscar. Il più soddisfatto di tutti (e anche il più premiato) fu proprio Nicholson il quale, per la sua interpretazione - da lui stesso definita la migliore di sempre - vinse la Palma d'Oro al festival di Cannes del 1974 ma mancò, con sommo disappunto, la conquista dell'Oscar, andato poi a Jack Lemmon per "Save The Tiger".
Costato 2,6 milioni di dollari, L'ultima corvé ne guadagnò più di quattro: un risultato tutto sommato dignitoso, seppur ancora una volta al di sotto delle aspettative generali.
Shampoo
L'amicizia con Nicholson permise ad Ashby di ampliare il giro delle proprie conoscenze e soprattutto di venire a contatto con Warren Beatty, che proprio in quel momento stava cercando il regista che potesse dirigerlo in Shampoo (Shampoo, 1975) film scritto a quattro mani con Robert Towne con cui il regista aveva appena finito di lavorare. Il copione era lungi dall'aver trovato una versione definitiva, a causa delle discussioni nate proprio tra Beatty e Towne, e che Ashby fu chiamato in qualche modo a dirimere. Egli di fatto intervenne con suggerimenti ora da una parte ora dall'altra, fino al giorno in cui, nella primavera del 1974, le riprese poterono iniziare forti di un budget (4,5 milioni di dollari) che per Ashby era il più grande che fin lì avesse avuto.
La realtà era però meno esaltante di come appariva perché Beatty, attribuendosi il ruolo supplementare di creative producer, confermava la volontà di controllare, anche dal punto di vista della direzione artistica, quello che, a tutti gli effetti, considerava il suo film. Da parte sua, Ashby aspirava a entrare ufficialmente nella lista dei registi che contano e lavorare con Beatty poteva essere la via per ottenere lo scopo. Trovandosi con il casting praticamente già fatto, Ashby ebbe almeno la possibilità di selezionare i ruoli minori che, sempre per corrispondere a quell'idea di verità di cui abbiamo più volte parlato, furono assegnati in parte a personalità che rappresentavano la comunità hollywoodiana che fa da sfondo alla storia. In questo modo, alcuni produttori entrarono nel cast, mentre a Jack Warden fu assegnato il ruolo di Lester Carp, l'uomo d'affari a cui George - il parrucchiere di Beverly Hills protagonista del film - si rivolge per realizzare il sogno di avviare un'attività. Ed è proprio sulla scia dei tentativi di convincimento di George nei confronti del suo possibile mecenate che il film prende quota, orchestrando un carosello di avventure tragicomiche che vedono il protagonista barcamenarsi tra gli impegni di lavoro e la gestione delle sue numerosi amanti, tutte, in qualche modo, legate a Lester.
Pur non trattandosi di farina del suo sacco, Ashby da questa sfida esce vincente, perché Shampoo gli fornisce l'ennesima occasione per stigmatizzare la corruzione politica americana, in particolare quella di Richard Nixon che il film, ambientato nel 1969, prende di mira attraverso la trasmissione di alcune immagini del suo discorso di insediamento, e per la la famosa affermazione "bringing the country together", inserita in maniera più che evocativa (anche in considerazione che poco dopo le riprese il presidente fu coinvolto nello scandalo Watergate) all'interno di una delle sequenze più riuscite e divertenti del film - culminata nella fellatio che George riceve dall'amante di Lester - in cui il degrado morale e l'inettitudine della classe dirigente entrano in collisione con i sogni di gloria del nostro protagonista.
A metà strada tra commedia sexy e critica di costume, Shampoo è fondamentalmente caratterizzato dalla sovrapposizione tra finzione e realtà: non solo perché le avventure di George sembrano mimare quelle che Beatty ebbe modo di vivere in prima persona nella sua vita sentimentale (le ex Goldie Hawn e Julie Christie, reclutate per il film, completano il quadro), ma anche per il fatto che dietro il mondo vacuo e promiscuo di Beverly Hills furono in molti - ma Ashby negò ogni similitudine - a leggere una descrizione puntuale della stessa mecca del cinema. Di certo il George di Beatty, pur mantenendo quella tendenza al pragmatismo che rende i personaggi di Ashby continuamente impegnati in attività manuali, e avendo nel suo Dna quel coefficiente di infantilismo che non è estraneo al modello maschile proposto dal regista, risulta, nella sua suprema passività psicologica, distante dalla propensione di un cinema di porre domande e di instillare dubbi a proposito del reale. Ciononostante, rastrellando al botteghino la cifra record di 20 milioni di dollari, Shampoo permise alla Columbia di tamponare la crisi finanziaria in cui versava e nel contempo diede ad Ashby il credito di affidabilità commerciale che ancora gli mancava.
Questa è la mia terra
Ashby, dunque, era riuscito a scrollarsi di dosso l'immagine di regista di film a basso costo e destinati a pochi eletti. Al contrario, Shampoo ne aveva dimostrato la capacità di sapersi districare tra quegli aspetti dello star-system che accompagnavano la produzione di un film ad alto budget. Un credito che Ashby decise di spendere nella realizzazione di Questa è la mia terra (Bound for Glory, 1976), biopic dedicato alla vita del leggendario folksinger Woody Guthrie, figura di riferimento del panorama musicale americano e nume tutelare di Bob Dylan il quale, in un primo momento, si era detto disponibile a dirigere il film. Attraverso la figura di Guthrie il film combaciava perfettamente con le attitudini caratteriali di Ashby, affascinato da alcuni aspetti della vita del musicista che sembravano ricalcare per sommi capi la sua: dall'abbandono di moglie e figli, sacrificati agli estri della vocazione artistica, all'attitudine di non piegarsi ai meccanismi del successo, e alla volontà degli impresari che gli chiedevano di eliminare dai testi la denuncia sulle condizione di vita dei lavoratori, fino a quel misto di gentilezza e determinazione che gli permetteva di entrare in stretta empatia con la gente che incontrava. Un transfer cinematografico coronato dalla passione per la musica che fino a quel momento Ashby era riuscito a portare nelle sue opere solo in parte, a causa della mancanza dei soldi necessari a pagare i diritti dei brani da inserire nella colonna sonora e che ora invece diventava uno dei protagonisti del suo nuovo lavoro.
Per la parte di Guthrie, Ashby fece una lunga selezione (furono presi in considerazione Jack Nicholson, Dustin Hoffman, Richard Dreyfuss) e alla fine, contrariamente alle aspettative generali e soprattutto dei produttori che non lo ritenevano all'altezza dell'appeal commerciale che il film doveva avere, scelse David Carradine, l'interprete della serie televisiva "Kung Fu". Carradine non aveva le stesse caratteristiche fisiche di Guthrie e questo la dice lunga sulle intenzioni di Ashby che, oltre a evitare l'agiografia, voleva una performance che restituisse il personaggio senza cadere nella tentazione di replicarlo in maniera mimetica.
Tratto dal libro "Bound for Glory", scritto per la maggior parte dagli amici di Guthrie, il film prende in considerazione solo i quattro anni della vita del cantante (1936-1939) corrispondenti alla decisione di lasciare l'Oklahoma devastato dalle conseguenze della Grande Depressione per raggiungere la California e quindi Los Angeles, la terra dove "un uomo può trovare tutto quello che gli serve". Supportato da una cornice realistica steinbeckiana fornita dall'apporto fotografico di Haskell Wexler (uno dei più grandi maestri delle luci del cinema americano), Questa è la mia terra ha dalla sua tutte le caratteristiche tipiche del genere, ossia una grande accuratezza nella ricostruzione storica e degli ambienti e la possibilità di disporre dei mezzi e delle maestranze necessarie a ricreare la moltitudine umana che fu colpita dalla crisi del '29. Ashby rende giustizia a questa cornice con dolby panoramici che riescono a contenere la grandiosità della messinscena ma, come succede spesso nel cinema del regista americano, a fare la differenza sono i momenti in cui la mdp si abbassa a livello dei personaggi per ascoltare quello che hanno da dire. Ed è proprio questa attitudine all'ascolto, unita alla capacità di Carradine di rendere il senso di giustizia e l'agonismo progressista del suo personaggio, a ribadire in gran parte la peculiarità del lavoro di Ashby. In tale maniera, Questa è la mia terra diventa un altro capitolo di una commedia umana più vasta, in cui l'elemento musicale viene messo al servizio di un'indagine sui fondamenti stessi della disparità e delle ingiustizie.
Le riprese terminarono nel gennaio del 1976, con circa sei settimane di ritardo rispetto al tempi stabiliti dalla produzione. In fase di montaggio, Ashby si rese conto di aver girato circa 150 ore di pellicola. Dalla prima versione di circa quattro ore, si arrivò a quella di centoquarantasette minuti che uscì nella sale con la piena approvazione del regista, cosciente che un minutaggio più lungo avrebbe nociuto alla visibilità del film. Questa è la mia terra convinse sia i critici che i suoi produttori. Ottenne sei nomination all'Oscar (Ashby fu escluso dalla categoria di miglior regista) portandone a casa uno per la migliore fotografia. Anche gli incassi furono modesti, non superando la cifra di tre milioni di dollari. Ma ormai Ashby era per tutti il regista che rinverdiva la tradizione del grande cinema americano con paragoni che lo avvicinavano a Wyler e Stevens, i maestri con cui si era formato.
Tornando a casa
La realizzazione di Tornando a casa (Coming Home, 1978) nasceva dall'idea di Jane Fonda di raccontare la guerra del Vietnam dal punto di vista di chi tornava a casa dopo averla combattuta e, soprattutto, subita. La Fonda, già soprannominata Hanoi Jane per la sue posizioni antimilitariste e filo-vietnamite, era rimasta colpita dall'incontro con Ron Kovic, un ex-marine costretto sulla sedia a rotelle per le ferite riportate in missione, ed era in cerca di un cineasta in grado di sopperire all'improvvisa defezione di John Schlesinger, il regista di "Midnight Cowboy". Dopo aver selezionato John Voight, Jane Fonda e Bruce Dern per interpretare i ruoli principali e aver coinvolto la squadra di collaboratori con cui aveva appena terminato "Bound For Glory", Ashby diede il via alle riprese con una sceneggiatura largamente incompleta e con la necessità di finire in tempo per permettere alla Fonda di rispettare i successivi impegni di lavoro.
In maniera del tutto accidentale, Tornando a casa portava alle estreme conseguenze la metodologia di lavoro del regista, il quale, abituato a lasciare largo spazio alla spontaneità degli attori si ritrovò, di fatto, a improvvisare la maggior parte delle scene, coinvolgendo Voight e Fonda in un work in progress di scrittura quotidiana del film.
Ambientato nel 1968, Tornando a casa raccontava la storia dell'incontro sentimentale tra Luke Martin (Voight), soldato paraplegico ricoverato in un istituto di riabilitazione e Sally Hide (Fonda), moglie di un ufficiale impegnato al fronte e volontaria nell'ospedale per veterani in cui Luke è curato. Il film si occupava anche di descrivere senza alcuna reticenza il fenomeno del reducismo, entrando nella vita quotidiana e nei bisogni più intimi dei soldati che tornavano dal fronte. Equamente diviso tra l'istinto di morte che scaturisce dalle ferite lasciate dall'esperienza bellica e la voglia di ricominciare, Tornando a casa assume significati che trascendono i contenuti del film per allargarsi a considerazioni che attengono allo stato d'animo di un paese desideroso di mettersi alle spalle (le riprese del film furono effettuate nel 1977 e cioè due anni dopo la fine del conflitto vietnamita) i fantasmi del recente passato. E testimonia soprattutto la consapevolezza di un regista arrivato al culmine della maturità, in coincidenza con i primi segnali di un cambiamento, che per quanto riguarda il cinema, avrebbe significato, con il nascente fenomeno delle produzioni blockbuster, il ridimensionamento degli spazi di autonomia concessi ai registi durante il periodo della New Hollywood. Da questo punto di vista Tornando a casa rappresenta un congedo non necessariamente drammatico, poiché la sequenza finale, seppur carica di tragicità per il gesto che Bob sta per compiere, si accende comunque di una nuova speranza in ragione della presenza catartica dell'oceano (e a questo proposito rileviamo come l'acqua sia un elemento che ritorna in tutti i film del regista) e per gli inserti di Luke e Sally che, uniti dal montaggio di Don Zimmerman, vengono colti in atteggiamenti (lei sorridente a bordo di una decappottabile lanciata a tutta velocità; lui a parlare delle sua esperienza davanti a un'assemblea di studenti) assolutamente liberatori. Nella fattispecie e per tutto il resto del film, risulta determinante la sensibilità di Ashby, davvero magistrale nel coniugare l'intimismo della storia d'amore tra i due protagonisti alla necessità di documentare con il massimo realismo l'esistenza quotidiana dei reduci. In questo modo l'immedesimazione estrema di Voight (che durante le riprese del film ha continuato a utilizzare la sedia a rotelle anche fuori dal set) e il rigore di Jane Fonda si integrano mirabilmente con la spontaneità dei loro interlocutori, per la maggior parte non professionisti e realmente invalidi. Senza dimenticare che a conferma di un prestigio finalmente riconosciuto, Ashby riesce ad ottenere alcuni degli hit musicali della fine degli anni 60; classici come "Hey Jude", "Out Of Time", "Just Like A Woman" e "Manic Depression" accompagnano le gesta dei personaggi dalla prima all'ultima scena, creando una sorta di cassa armonica in cui il tempo storico sembra amalgamarsi con i venti di protesta che caratterizzarono gli anni che fanno da sfondo alle vicende narrate.
Il pubblico riconobbe la bontà delle intenzioni, facendo di Tornando a casa uno dei successi dell'anno, mentre nell'edizione dell'Oscar del 1978, Jane Fonda e John Voight si aggiudicarono le statuette come migliori attori protagonisti. Ashby, per una volta nominato, rimase però all'asciutto.
Le difficoltà e la crisi
La fine degli anni Settanta e l'inizio della nuova decade si apre per Ashby con la necessità di assicurarsi quegli spazi di autonomia lavorativa che Hollywood non sembra più intenzionata a concedere a un cinema così personale. Fu principalmente questo il motivo che spinse il regista ad accettare la proposta della Lorimar, compagnia televisiva intenzionata a entrare nel mondo di celluloide ingaggiando un autore di fama consolidata. L'accordo per la realizzazione di tre lungometraggi (Being There, 1979, Second Hand Hearts, 1981, e Lookin' to Get Out, 1982) lasciava al regista non solo il pieno controllo del materiale girato ma anche l'organizzazione delle strategie di promozione commerciale.
Ashby, ansioso di tornare dietro la macchina da presa, aveva programmato di girare i primi due uno dietro l'altro e di montarli contemporaneamente. Se Oltre il giardino coronava il desiderio di Peters Sellers di lavorare con Ashby, "Second Hand Hearts" arrivò in maniera improvvisa e in qualche modo condizionata dal fatto che il suo protagonista, Robert Blake - diventato famoso per il personaggio del detective Tony Baretta dell'omonima serie televisiva - deteneva i diritti dello script. Una situazione che ricordava da vicino quella che si era verificata con Warren Beatty ai tempi di Shampoo, qui amplificata dal carattere irascibile di Blake. Girato a El Paso, in Texas, il film (una storia d'amore e incomprensioni tra una donna divorziata e madre di tre figli e un loser proletario senza arte né parte), reso difficile da un estate a dir poco torrida, ha importanza nel contesto di quanto detto, soprattutto nel carattere paradigmatico delle difficoltà che Ashby incontrò nel corso della lavorazione. Un'eventualità che, ad eccezione del successivo Oltre il giardino (Being There), portò il nostro all'esasperazione, costringendolo a girare con copioni incompleti e rimaneggiati, e, cosa ancor più grave, non potendo di fatto montare i propri film, sottrattigli a forza dai produttori e poi fatti uscire in una versione diversa da quella originale.
I rapporti con la Lorimar si deteriorarono al punto da ricorrere alle vie legali che certo non aiutarono le sorti dei vari lavori, destinati ad avere una distribuzione limitata o inesistente. In alcuni casi (parliamo ad esempio di Lookin' Get Out in cui Ashby tornò a lavorare con Jon Voight che lo volle regista di un film di cui si era fatto promotore), la critica si domandò più volte se davvero fosse stato l'autore di Ogden l'artefice delle immagini che passavano sullo schermo. Tra le accuse che gli furono rivolte, la più pesante fu quella relativa a una inaffidabilità dovuta in larga parte all'abuso di droghe. Gli anni che seguono sono infatti caratterizzati da regie episodiche, come quelle realizzate per documentare i concerti dei Rolling Stones (Let's Spend Night Together, 1983) e di Neil Young (Solo Trans, 1983) o di quella di The Slugger's Wife, 1985, il film che la Columbia mise in piedi per rilanciare il talento di Neil Simon e che di fatto vide Ashby esautorato da qualsiasi possibilità di intervenire su una sceneggiatura senza capo né coda.
Oltre il giardino
Oltre il giardino, dicevamo, rappresenta un'eccezione alla regola del periodo, nonostante anche qui non mancarono le solite diatribe dovute all'intervento di Ashby sulla sceneggiatura realizzata da Jerzy Kosinski, autore del romanzo da cui è tratta la storia.
Oltre il giardino racconta la vicenda di Chance Giardiniere (Peter Sellers), sorta di idiot savant il quale, costretto a lasciare per la prima volta la casa in cui è stato confinato fin dalla nascita e dove si è occupato di curare il giardino, diventa, per una serie di coincidenze del tutto casuali, il consigliere di un ricco industriale che, scambiando la sua ingenuità per profonda saggezza, lo fa entrare con il ruolo di consigliere e uomo di fiducia nella cerchia delle sue amicizie comprendenti, tra gli altri, il presidente degli Stati Uniti d'America, impegnato a trovare lo slogan giusto per sponsorizzare la sua politica di risanamento dell'economia.
Detto che, involontariamente, sarà proprio Chance a fornire all'inquilino della Casa Bianca lo spunto su cui poggiare i principi della sue teorie, Oltre il giardino fornisce ad Ashby l'occasione per tornare a "fare politica" sotto mentite spoglie con un personaggio che, nella sua stralunata diversità, gli permette di recuperare quell'umorismo pungente e surreale che aveva caratterizzato i suoi primi lavori. Interpretato da un Peter Sellers che per entrare nel personaggio ricorse persino alla chirurgia estetica, oltreché a una lunga preparazione necessaria a trovare la voluta misura interpretativa (soprattutto il modo di parlare, caratterizzato da un accento piatto e senza suono), Oltre il giardino sembra prendere in prestito le parole ("la demenza va di pari passo con la civiltà") di uno dei programmi televisivi che Chance è abituato a guardare, per comporre il quadro di un paese alla ricerca di se stesso e dominato da una classe dirigente che dietro la facciata del potere - come al solito ridicolizzato attraverso inserti che mostrano il presidente e i suoi uomini indaffarati a scoprire il segreto che il mite uomo dovrebbe nascondere - si rivela incapace di indicare la strada ai suoi cittadini. Ashby adatta la cinepresa ai tempi e ai modi di fare del suo eroe, rispettandone, da una parte, il surplace e le pause con cui Sellers scandisce i dialoghi, dall'altra, riuscendo a dare ritmo a una storia che si svolge quasi completamente all'interno della magnifica magione del ricco imprenditore e che, di fatto, vive sulla sospensione evocata dalla fanciullesca emotività del protagonista.
Da sempre a suo agio con un tipo di mascolinità che, rifiutandosi di diventare adulta, declina qualsiasi tipo di responsabilità, Ashby continua a essere un regista di rottura. In questo caso, però, mantiene il punto scegliendo di adeguarsi alla voglia di ottimismo che avrebbe connotato gli anni a venire, in un modo volutamente meno manifesto e per mezzo di un carattere in apparenza più rassicurante di quelli che lo avevano preceduto, e mantenendo, al solito, alcuni tratti distintivi oltre i già visti cameo, tipo un finale volutamente aperto e segnato ancora dalla presenza dell'acqua sopra cui Chance cammina per allontanarsi dalla "pazza" folla. Conclusione, questa, simmetrica per similitudine di situazioni, a quella del film con John Voight e Jane Fonda, tanto per dire quanto il regista riesca a trovare il modo di rimarcare in ogni lungometraggio i segni della sua poetica.
Uscito durante il Natale del 1979, appena in tempo per partecipare alla campagna degli Oscar dell'anno successivo, il film fa segnare buoni incassi ma fallisce la previsione più scontata, non permettendo a Sellers di vincere un premio che ai più sembrava dovuto. A tornare a casa con la statuetta è, per la cronaca, Melvin Douglas, attore degli anni 30 che vince quella riservata al non protagonista, a ribadire ancora una volta le qualità di Ashby nella direzione degli attori.
Otto milioni di modi per morire
Quando, nel 1986, Ashby termina di girare il suo nuovo film non sa ancora che sarà l'ultimo. Abituato a ragionare all'insegna di un innato ottimismo, il regista ancora una volta si oppone ai recenti incidenti con un atteggiamento finalizzato a voltare pagina, non solo mantenendosi lontano da qualsiasi tipo di additivo ma anche modificando il suo look, da questo momento in avanti ispirato a una tranquilla sobrietà borghese. Con questo spirito inizia la produzione di Otto milioni di modi per morire (8 Million Ways To Die, 1986), la cui sceneggiatura, scritta da Oliver Stone, era ricavata da due romanzi di Lawrence Block ("Eight Millions Way To Die" e "A Stath In The Dark"), basati sulla figura del detective Matt Scudder, interpretato da Jeff Bridges (in una sorta di chiusura del cerchio aperto agli esordi con The Landlord dal fratello Beau), antieroe afflitto da problemi di alcolismo e per questo costretto a lasciare il servizio attivo lavorando come sbirro privato.
Nei ragionamenti di Ashby, il film non doveva essere l'ennesimo hard boiled, incentrato su uno stile crudo e violento e sullo scontro sanguinoso tra buoni e cattivi, rappresentato dalla caccia all'uomo scatenata da Scudder per incastrare Angel, boss cubano che controlla il commercio della droga. Il progetto del regista era invece teso ad approfondire le psicologie dei personaggi (Ashby e Brigdes frequentano le associazioni degli alcolisti anonimi), lasciando ampio spazio alla dipendenza di Scudder, così come al regime di prostituzione abbracciato da Sarah, la escort interpretata da Rosanna Arquette (che Ashby esplora attraverso la lettura di testi dedicati all'argomento), che aiuterà il protagonista a trovare l'assassino di una giovane collega.
Dopo una serie di batti e ribatti che vedranno entrare in gioco l'amico Robert Towne, il film inizia allo stesso modo di Tornando a casa, e cioè con una sceneggiatura incompleta e con gli attori - tra cui figura un giovane Andy Garcia nei panni nel ruolo del criminale - chiamati a collaborare alla costruzione della storia. Una similitudine rintracciabile nella forma utilizzata nella scena iniziale, con la telecamera che cerca di catturare le facce di uomini e donne che funzionano da commento alle parole di una voce fuori campo. Così come i toni che, pur improntati a un'inesorabilità tipica del genere e ai risvolti drammatici innestati dalle dipendenze dei personaggi, lasciano spazio nelle sequenze finali a un barlume di speranza e di voglia di vivere.
Come sapremo a posteriori, il film fu rimontato dalla Pso, la casa di produzione che, non contenta delle soluzioni adottate da Ashby e intenzionata a fare un film di cassetta, sequestrò la pellicola impedendo al regista di mettervi mano. A detta di Bridges e Garcia, poi, Ashby aveva girato molte scene successivamente tagliate dai produttori - che con stile onirico e atmosfere surreali erano volte a rappresentare l'inconscio del protagonista, manifestando angosce e paure prodotti dalla sua patologia. Ed è forse per questo che il film, piuttosto scontato - se si tiene conto per esempio delle vette raggiunte in questo campo dal coevo "Vivere e morire a L.A." (1985) di William Friedkin - nella messinscena della guerriglia urbana e della giungla criminale, riesce a cambiare passo nelle sequenze prettamente esistenziali, quelle che testimoniano la lotta di Scudder per liberarsi dall'alcol e le alternanze della sua lenta e dolorosa risalita dall'inferno in cui si era perduto. Ai conoscitori del cinema di Ashby non sfuggiranno poi i particolari di una resurrezione che inizia dal taglio di capelli e dalla cura della persona che Scudder, alla pari del regista, utilizza per evidenziare il cambiamento intrapreso. Oppure, nella sequenza finale, ambientata sulle rive dell'oceano (un leit-motiv per Ashby che viveva a Malibù) in cui le parole di commiato del detective, emozionate e così piene di fiducia, colgono in presa diretta il momento vissuto dal regista, pronto a rimettersi in gioco non prima di essersi scrollato di dosso ciò che non serve più. Un'immagine che sembra riportare ogni cosa al suo posto, cancellando idealmente le fatiche che avevano accompagnato l'ultimo scorcio di una carriera in fondo sacrificata. Ed è con una tale suggestione, perciò, che vogliamo chiudere il ricordo di questo grande autore, facendo finta, cioè, che tutto quello che verrà dopo, compresa la drammatica malattia che lo porterà repentinamente alla morte, non sia mai accaduto. Preferiamo, allora, allontanarci da Ashby, nello stesso modo in cui lui ha lasciato i suoi ultimi protagonisti, innamorati e insieme, a camminare su una spiaggia californiana. Siamo sicuri che un finale del genere gli sarebbe piaciuto.
Bibliografia
Nick Dawson, Being Hal Ashby: Life of a Hollywood Rebel, University Press of Kentucky, 2009
Geoff King, New Hollywood. An Introduction, Londra, I.B. Tauris & Co., 2002; trad. it. Id., La Nuova Hollywood, Torino, Einaudi, 2004
The Landlord (1970) 6,5
Harold e Maude (Harold and Maude, 1971) 7,5
L'ultima corvé (The Last Detail, 1973) 8
Shampoo (1975) 7,5
Questa è la mia terra (Bound for Glory, 1976) 6,5
Tornando a casa (Coming Home, 1978) 9
Oltre il giardino (Being There, 1979) 7,5
Second Hand Hearts (1981) mai distribuito
Lookin' to Get Out (1982) mai distribuito
Let's Spend the Night Together (1983) mai distribuito
Solo Trans (1985) mai distribuito
The Slugger's Wife (1985) mai distribuito
8 Milioni di modi per morire (8 Million Ways to Die, 1986) 6