Prodotto da Amazon Studios, "Too Old To Die Young" è insieme la più completa e sistematica summa del cinema di Nicolas Winding Refn, una labirintica ricognizione spirituale del genere crime e un importante contributo d’autore alle frontiere espanse della fruizione audiovisiva
Though no longer a confession,
art is more than ever a deliverance, an exercise in asceticism.
Susan Sontag, “The Aesthetics of Silence”, 1967
Brand admiration
#byNWR. A caratteri cubitali, tinto dalle consuete sfumature acide, l’acronimo si staglia subito sullo schermo nero, esibendo la paternità dell’opera, insieme allo smisurato ego del regista, con la sfrontatezza alla quale ci ha abituati. Inutile specificare che non ce ne sarebbe alcun bisogno: fin dalla prima sequenza la sua identità, a uno spettatore neppure troppo smaliziato, risulterebbe lampante. Eppure le tre lettere sono lì e continueranno puntualmente a intestare ogni capitolo di questa ampia cavalcata audiovisiva, con tanto di cancelletto per arruffianarsi chi proprio non può resistere alla smania del tag, agevolandolo nell’indicizzazione esatta dei contenuti a seguire.
Quando la forma diventa stile – ossia quando il processo di astrazione linguistica che sostanzia qualsiasi modo espressivo si cristallizza in un preciso codice di interpretazione e riscrittura della realtà relativamente originale e autonomo, quindi riconducibile a un nome altrettanto specifico – può forse dirsi compiuta la prima cruciale missione di un artista. Il traguardo consisterebbe proprio nella guadagnata superfluità dell’attribuzione. Quando però lo stile vuole trasformarsi in marchio, anzi in brand, e veicolare all’istante e con la minima mediazione l’appartenenza a un certo universo espressivo, denotandone prontamente le peculiarità atmosferiche e i caratteri più manifesti, allora l’elaborazione di sigle o di emblemi efficaci e la loro reiterata esibizione si fanno tutt’altro che accessori. Sebbene non sia il solo a sponsorizzare con compiaciuta ridondanza il proprio nome in ogni occasione propizia (i sodali Noè e Von Trier non sono certo da meno), Nicolas Winding Refn è riuscito più degli altri ad ascrivergli una semantica strettamente pubblicitaria, fornendo al solito una facile sponda ai detrattori sempre crescenti e un ulteriore motivo di ammirazione agli estatici cultori. E finendo così per raggirare buona parte di entrambi gli schieramenti.
Come prevedibile, di fatti, il dibattito non può che focalizzarsi sull’opportunità delle scelte linguistiche in sé, sull’ammissibilità di un approccio così nettamente sbilanciato e antinaturalistico, impantanandosi in tenzoni dialettiche disputate a colpi di arsenali retorici tanto generici quanto stanchi: "estremo", "estetizzante", "autocompiaciuto", "(ultra-)violento", "anaffettivo"… Preso atto di un programma tutt’altro che ordinario, sempre più ossessivamente introflesso e centripeto, per alcuni insostenibile, scandito in modo nitido e inequivocabile, appare del tutto sterile soffermarsi più del necessario sulla sua legittimità a priori (come, del resto, nel caso di qualsiasi dichiarazione di intenti o aperta scelta di campo linguistica). Ben più fruttuoso potrebbe invece rivelarsi un bilancio a posteriori che ne colga gli effettivi risultati; capire cioè se l’ostinazione e l’innegabile coerenza dell’autore vengano ripagati anche questa volta da esiti interessanti e, per molti versi, inediti. Si chiarirebbe così se ci troviamo al cospetto di un pigro e scaltro reiteratore di stilemi collaudati o di un caparbio creatore di forme che intende spingere sempre più in là una precisa idea di cinema.
Ritorno al racconto. Potenziamento e trasfigurazione del genere
Il primo automatismo da rigettare è la presunzione d’irrilevanza dell’intreccio, generalmente considerato un mero pretesto per l’attivazione di un dispositivo visuale di forte impatto: una lettura semplicistica, figlia della fantomatica separazione tra elementi sostanziali e sovrastrutture formali che – più o meno esplicitamente – tende ancora a inquinare troppi approcci analitici. Mai come in questo caso, il dipanarsi di linee narrative nitide – che prima si giustappongono quasi senza reciproche tangenze e poi si intersecano in un progressivo crescendo, destinato comunque a non risolversi – è saldato alla messinscena, al punto da risultare da questa indistinguibile.
Sono tre gli assi portanti del racconto, ciascuno introdotto da un particolare episodio, cui corrispondono altrettante figure chiave. La prima e per molti versi dominante è quella di Martin, taciturno poliziotto di Los Angeles sulla trentina, che assiste all’improvvisa esecuzione del collega Larry, colpito alle spalle dal proiettile esploso da un giovane ignoto, nel momento esatto in cui sta scattandosi un selfie per soddisfare il capriccio dell’amante. Martin recupera il telefonino e, dopo aver notato il volto dell’assassino immortalato sullo schermo, invece di mettere la prova nelle mani dei suoi superiori, la consegna a Damian, il capo di una piccola organizzazione di malviventi dedita prevalentemente allo spaccio con cui lo stesso sventurato collega aveva avuto a che fare. Costui riconosce l’esecutore, ossia Jesus Rojas, figlio di una potente componente di un cartello messicano, della cui morte Martin in persona era stato il responsabile. In cambio del silenzio, commissiona al poliziotto l’uccisione di un uomo, dando inizio a un sodalizio stabile: Martin, tutt’altro che restio al delitto, sembra trovare nel sottobosco criminale un senso della giustizia crudele ma rigoroso che non riconosce affatto nel depravato e miserabile ambiente lavorativo, in cui pure riesce ad avanzare di carriera.
Il secondo filone riguarda proprio Jesus, che fugge in Messico per cercare protezione presso il premuroso don Ricardo, boss ormai anziano e malmesso, fratello devotissimo di sua madre, assistito da una misteriosa e ammaliante infermiera, Yaritza, che dice di aver incontrato nel deserto. Alla sua morte, lo spregiudicato figlio Miguel gli subentra, interrompendo, con l’aiuto del cugino, la pax che il padre aveva faticosamente consolidato con la polizia locale. Jesus sposa Yaritza e rientra con lei a Los Angeles, nella grande dimora materna.
In ultimo, Diana De Young, avvocato di parte civile specializzato in casi di gravi abusi, violenza sessuale e pedofilia, grazie a inspiegabili facoltà divinatorie, integra la propria prestazione professionale con la sicura esecuzione dei responsabili. Il suo fidato angelo sterminatore è Viggo, ex-agente dell’Fbi con un occhio di cristallo, che, a causa di un errore nel corso di una missione, viene rintracciato proprio da Martin, trasferito intanto alla squadra omicidi. Invece di catturarlo, questi familiarizza con il solitario individuo, riconoscendovi una sorta di mentore, e si unisce alla causa di Diana, che comincia a fornirgli altre prede per soddisfare la sua inestinguibile sete di sangue colpevole.
Sono dunque queste le condizioni d’innesco, le radici dei tronchi più robusti da cui si dipartono poche altre diramazioni che possono fungere da elementi d’interfaccia reciproca tra le parti oppure esaurirsi autonomamente, senza troppi riverberi sul fluire degli eventi, a complemento del quadro generale. Evidentemente, a differenza di quanto si riscontra negli affini precedenti "Valhalla Rising", "Only God Forgives", "The Neon Demon", in cui fin dall’inizio le logiche narrative marcano una completa distanza da qualsiasi statuto convenzionale e gli unici richiami a possibili categorie di appartenenza sono vagamente rintracciabili nelle ambientazioni o nella comparsa di alcune figure topiche (il guerriero, il lottatore di Muay-thai, le cannibali), in questo caso gli espliciti ingredienti di genere abbondano. Sembrerebbe quasi un ritorno all’ortodossia di "Drive" che conservava intatti molti caratteri distintivi del noir metropolitano e anzi, agendo dentro quel perimetro, li caricava di senso ulteriore, affidandosi all’elisione, ad anomale dilatazioni, ad altrettanto inusuali contrazioni del ritmo e a raffinati spostamenti di accento. "Too Old To Die Young", anche in virtù della propria generosa estensione, rivendica con forza l’inerenza al genere, ribadendo – anche topograficamente, con la doppia ambientazione – tutti gli stereotipi del crime americano, ma riesaminandoli in modo assai più problematico.
Se generalmente il motore della propulsione narrativa sta nell’incalzante succedersi di azioni e reazioni, nelle inaspettate interferenze tra piani di svolgimento apparentemente lontani che scatenano una sequela di conflitti, nell’ansia della fuga in risposta a una caccia altrettanto affannosa, qui il genere precipita nella stasi. Non è più il moto che, esplicitando le relazioni tra i singoli accadimenti, dà corpo al racconto, bensì la lunga sosta dentro i singoli eventi che, per quanto naturalmente correlati, restano distanti, vere e proprie isole narrative prive di evidenti canali di comunicazione. Questo non ha tanto a che fare con il ritmo che viaggia in modo autonomo e altalenante – alternando andamenti più larghi ad altri più concitati, a seconda delle necessità – e delinea un approccio tutt’altro che "anti-narrativo" o "contemplativo" come si tende ad asserire e come effettivamente si osserva altrove (basti pensare all’intera prima metà di "The Neon Demon" o ad altre filmografie).
Al contrario, potremmo ritenere quella qui adottata una prospettiva "ultra-narrativa" perché garantisce a ogni evento – che per definizione racconta sempre qualcosa – un quadro di espansione, concentrandosi soltanto sul fatto in sé, sugli elementi di base che costituiscono la vicenda, a scapito delle transizioni, dei passaggi relazionali tra l’uno e l’altro.
I singoli episodi vengono così presentati allo sguardo dello spettatore "in valore assoluto", tramite una sequenziale esposizione narrativa che, nel corso del suo svolgimento, riduce a zero l’attesa per ciò che avverrà e focalizza tutta l’attenzione su ciò che effettivamente sta avvenendo. Questo vale in modo paradossale anche per sequenze che avrebbero un’insita funzione mobile, transitoria e servirebbero naturalmente a condurre la storia da un punto a un altro, come un inseguimento automobilistico. Le corse in macchina di "Drive" erano cariche di elettrizzante angoscia, dovuta proprio alla percepita vertigine per ciò a cui preludevano, mentre quella che chiude il quinto volume di "Too Old To Die Young", pur innestandosi nel punto di massima pressione della puntata, conquista una dimensione di inaudita autonomia, risolvendosi in sé, facendo quasi dimenticare ciò che la anticipa e ciò che potrebbe seguirla, fino alla sua conclusione, senza cedere un briciolo di tensione interna. È un esercizio innovativo e, nel suo piccolo, paradigmatico di puro piacere del racconto.
Tragico senza conflitto
Una prerogativa che attraversa tutta la produzione del cineasta di Copenaghen e che, come un fiume carsico, continua a scorrere in profondità per improvvisamente riaffiorare alla luce (o addirittura zampillare vivacemente, come in "Solo Dio perdona") e poi rinfiltrarsi in cavità sotterranee è la propensione alla dimensione tragica. Una vocazione, questa, in una certa misura coltivata, ma scaturita senza dubbio da un’urgenza sincera e spontanea che ha spinto l’autore, in modo più o meno consapevole, verso alcuni repertori ricorrenti.
Fin dalle prime prove in tempi non sospetti (si pensi soprattutto alla trilogia "Pusher", che pure aderisce a un incondizionato naturalismo), i personaggi di Refn non attraversano un graduale mutamento o l’ordinario processo evolutivo indotto dalle vicende che via via li interessano, ma sembrano piuttosto impegnati nella ferma e quasi stolida professione di un ruolo chiaro e già finalizzato. Lungi dall’appiattire o smorzare la potenza fascinatoria di queste figure, la loro cieca servitù al conseguimento di uno scopo determinato aprioristicamente, ma tutt’altro che esplicito, le trasforma in misteriose pedine del fato.
È solo così che si spiega la feticizzazione che puntualmente, seppur con diversi gradi di evidenza, si rileva nel suo cinema: i corpi luminosi e magnetici, perno stabile dell’inquadratura, sono le sedi specifiche di eterne istanze umane, di demoni ancestrali che, attraverso di essi, mettono in atto il proprio incarico destinale. Questo relega i personaggi tanto all’enigmatica elementarità della fiaba, quanto all’aulica sfera del sacro.
D’altro canto, il recupero degli archetipi mitici – che la resa al dominio della Sorte inevitabilmente comporta – si compie sotto le spoglie di linguaggi e orizzonti culturali cangianti, spesso audacemente sovrapposti, miscelati e compenetrati: espliciti riferimenti all’epica mediterranea o celtica si combinano con allusioni allo sciamanismo o al simbolismo dei tarocchi (suggestione di sicuro mutuata dal venerato Jodorowsky), echi shakespeariani e riflessi della tragedia classica, semmai già esplicitamente agganciati alle articolate ma a propria volta iconiche interpretazioni freudiane (l’edipismo è sempre dietro l’angolo), trovano come strano approdo citazioni, miti e cliché dell’immaginario popolare cinematografico, televisivo o fumettistico.
Non si tratta più però di un ennesimo aggiornamento della sempreverde sintesi post-moderna tra alto e basso, spesso posta a mo’ di raffinato rebus, ma della scandalosa metabolizzazione di un eterogeneo repertorio di simboli, diacronico e polisemico, in un sistema espressivo coerente ed elevato che aspira all’autosufficienza, senza strizzare l’occhio alle proprie matrici.
Questo indirizzo, che attiene a tutto il cinema di Refn, torna a ribadirsi nitidamente nei percorsi di "Too Old To Die Young" in cui addirittura queste funzioni archetipiche e cristallizzate vengono messe nero su bianco da alcuni titoli dei dieci capitoli: il Diavolo, gli Amanti, l’Eremita, il Matto, la Sacerdotessa, il Mago, l’Appeso, l’Imperatrice.
In questa occasione, però, il discorso si complica con l’aggiunta di un dato disorientante che si comincia a percepire solo durante la lunga traversata. Com’è noto dalla filologia e dalla celeberrima genetica nietzschana, la tragedia nascerebbe dallo scontro tra energie opposte, simmetriche e per loro natura inconciliabili: la tensione verso la forma e l’ordine stabile contro l’attrazione altrettanto irresistibile esercitata dalla frenesia del caos, indocile alla fissità di qualsivoglia struttura. Un paradigma raramente sovvertito, questo, che informa gran parte della tradizione letteraria e figurativa occidentale, fino all’età contemporanea, e che inevitabilmente condiziona ancora la nostra visione del mondo e le relazioni con esso. Ebbene, questa è una delle sporadiche occasioni in cui il principio viene singolarmente rovesciato: le forze che muovono eventi e personaggi in scena e che motivano la loro contrapposizione, dapprima misteriose, pian piano tendono a manifestarsi con maggiore chiarezza, fino a dimostrarsi affini e poi identiche. Seppur su versanti contrapposti, Martin e Jesus, Diana e Yaritza sembrano rispondere a un unico imperativo interiore e procedere inesorabilmente verso la medesima destinazione: la distruzione. Quella che si configurava come la lunga preparazione di uno scontro tanto inevitabile quanto deflagrante tra potenze arcane e discordi, incarnate in forme umane, si trasforma nell’assurdo dispiegarsi di uno stesso primario impulso distruttivo, messo in atto con differenti alibi, senza mai però alterarne il fondamento. La resa dei conti tanto agognata, percepita come sempre più imminente, in realtà non potrà mai compiersi per la stessa legge geometrica che impedisce a due rette parallele di potersi intersecare.
Horror pleni. Estetica del silenzio e amplificazione del gesto
Lungi dall’esaurire la molteplicità di letture formulabili al cospetto di un palinsesto di segni così vasto e impegnativo – nonostante l’impressionante omogeneità del complesso – queste osservazioni forse consentono di cogliere sotto una luce diversa alcune scelte linguistiche spesso frettolosamente confinate nel novero degli stilemi, dei vezzi registici tanto più spiazzanti quanto, tutto sommato, gratuiti, ornamentali, ormai di maniera. D’altro canto è lo stesso autore, ostentando a più riprese il proprio marchio di fabbrica, a confortare deliberatamente, con surrettizia ironia, questa banalizzazione che in alcuni giudizi sfocia nella stigmatizzazione e addirittura nello scherno. In realtà, ogni aspetto della messinscena svolge un ruolo preciso e indispensabile nell’economia globale del testo, soprattutto quei fattori che sembrerebbero rientrare a pieno titolo nella (fantomatica) categoria dei "formalismi". A tal proposito, si faccia caso alla significanza del vuoto che da semplice elemento spaziale e atmosferico diventa un vero e proprio vincolo narrativo.
Se, come si è detto, tutta l’opera si focalizza sulle svariate e inquietanti modalità attuative del naturale (e umanissimo) impulso alla distruzione – usando il genere come una sorta di campo magnetico privilegiato per sperimentare il dispiegamento di questa forza primaria – allora i vuoti che intervallano i singoli accadimenti, la costante distanza di oggetti e figure umane che abitano l’inquadratura, le iperboliche pause che scandiscono i dialoghi consentono di saggiare volta per volta il fascinoso avvicendamento di azioni e reazioni e di percepirne le pieghe più misteriose. Questa attitudine che evidentemente contraddistingue la produzione di Refn fin dal decennio scorso, nel solco della consolidata tendenza di una parte cospicua dell’arte contemporanea verso la massima riduzione degli elementi espressivi per riconquistare una dimensione nuova e autenticamente spirituale (inquadrata nelle sue molteplici ricadute da Susan Sontag in "The Aesthetics of Silence" o ricondotta da Lyotard all’"estetica del quasi-nulla" come possibile manifestazione del Sublime), riesce a innescare in "Too Old To Die Young" un inusitato e fecondo cortocircuito tra soluzioni stranianti, pertinenti a un preciso orizzonte linguistico, ed esigenze narrative, insite nei meccanismi di genere e nella serialità.
Proprio sul medesimo binario, ossia quello del paradosso intenzionale, può intendersi l’anomala collocazione di questo oggetto nell’universo, pure fluido, eterogeneo e in continua espansione, delle serie televisive e delle piattaforme on demand. Prodotto da Amazon Studios come il precedente "The Neon Demon", con la concessione di piena libertà creativa, si articola in dieci volumi, tutti diretti da Refn, dalla durata oscillante tra i sessanta e i novanta minuti, con l’eccezione dell’ultimo episodio al quale curiosamente ne bastano trenta. Per ammissione dello stesso regista, la concezione è quella di un unico, imponente film di tredici ore che può prestarsi sia a una perlustrazione integrale, continua e ordinata sia a saltellanti e arbitrarie incursioni esplorative. Questo contraddittorio sdoppiamento della fruizione, immersiva o ultra-distratta, trova conferma tanto nella bizzarra anteprima cannense – dove furono presentate direttamente quarta e quinta parte – quanto nell’accorta disposizione delle cesure tra i diversi capitoli, esenti da qualsiasi stratagemma ordinario come cliffhanger e colpi di scena strategici, ma non certo regolarmente conclusive e svincolanti.
Come un altro esemplare recente ma già imprescindibile e ancor più inclassificabile di serialità alternativa, ossia la terza stagione di "Twin Peaks" firmata da David Lynch – certamente il primo e più profondo ispiratore di alcune fondamentali impostazioni di metodo di Refn – "Too Old To Die Young" sembra propenso a disorientare e rimettere puntualmente in discussione lo spettatore – costretto a un godimento insidioso, in bilico tra l’abbandono alla fascinazione e la necessità di una ricezione attiva e sorvegliata – e insieme non fa che tendere al limite le possibilità del mezzo audiovisivo. La disponibilità di durate generose, estranee alla prassi cinematografica tradizionale, insieme alla possibilità di disporne a proprio piacimento, rappresentano indubbiamente un’eccezionale occasione per ripercorrere, esasperare e ampliare il percorso autoriale, integrandovi anche elementi sorprendenti: spicca la frequente e inedita interferenza di una comicità esplicita e demenziale, dalla chiara connotazione politica, a tratti fumettistica che plausibilmente costituisce uno dei contributi del co-sceneggiatore Ed Brubaker.
Ad ogni modo, per quanto anarchico, ipermediale e volutamente irriducibile a un preciso supporto fisico, "Too Old To Die Young" è Cinema nel senso più alto e autentico del termine e forse l’unico (personalissimo) rammarico è di non poterlo godere nella sua sede elettiva, nel sacro e impenetrabile silenzio di una sala.
titolo:
Too Old To Die Young
titolo originale:
Too Old To Die Young
canale originale:
Amazon Prime Video
canale italiano:
Amazon Prime Video
creatore:
Nicolas Winding Refn, Ed Brubaker
produttori esecutivi:
Joe Lewis, Jeffrey Stott, Nicolas Winding Refn, Ed Brubaker
cast:
Miles Teller, Augusto Aguilera, Cristina Rodlo, Nell Tiger Free, Jena Malone, John Hawkes, Babs Olusanmokun, Gino Vento, Celestino Cornielle, William Baldwin, Hart Bochner, Joanna Cassidy, Chris Coppola, Melvin Redmond, Manuel Uriza, Jimmy McDonough
anni:
2019