A parte la didascalia iniziale, in cui si spiega che nei boschi dell’Oregon un escursionista scomparso è stato vittima di un virus, che trasforma gli esseri umani in bestie feroci dai tratti lupeschi, la prima inquadratura di "Wolf Man" è una vespa che viene attaccata dalle formiche. L’insetto, dopo una strenua lotta, soccombe contro la massa brulicante.
Su questa dicotomia simbolico-mitica si basa l’ultima pellicola di Leigh Whannell, già autore dei riusciti e interessanti precedenti "Upgrade" (2018) e "L’uomo invisibile" (2020). Dopo essere stato il creatore di saghe come "Saw" e "Insidious" – insieme al sodale James Wan e sotto la tutela della Blumhouse – Whannel ha iniziato a confrontarsi con i mostri storici della Universal e dopo la rilettura contemporanea dell’Uomo Invisibile ci riprova con quella dell’Uomo Lupo.
A differenza del remake del film del ’33 di James Whale, che era tratto da un romanzo di H.G. Welles – e anche le altre creature degli anni 30 della Universal Monster (Dracula, la Mummia, Frankenstein) hanno una fonte letteraria – l’Uomo Lupo, come inteso nell’immaginario collettivo, nasce dalla sceneggiatura di Curt Siodmak dell’omonimo film del ’41 che sintetizza miti e leggende nordiche, innesta riferimenti alla religione ebraica e inventa da zero alcuni topoi (come il fatto che i licantropi si possano uccidere con l’argento).
L'introduzione è necessaria per far comprendere quali elementi narrativi abbia scelto Whannell per scrivere "Wolf Man": da un lato, continuando il discorso sul femminino e il confronto con la mascolinità tossica; dall’altro, recuperando le leggende e i miti nordici e latini rispetto agli elementi fondativi cinematografici dell’Uomo Lupo.
Ritorno alle origini folcloriche
In "Wolf Man" si parla espressamente di una malattia che è trasmessa dagli animali e che trasforma il volto degli esseri umani nelle fattezze di un lupo. In molte leggende l’uomo colpito dalla malattia si può trasformare in orso, volpe o gatto selvatico. La sua figura attraversa tutte le culture dall’Egitto alla Grecia, dalla civiltà romana a quella medioevale. La licantropia è vista anche come una malattia mentale che porta a una trasformazione fisica del soggetto che regredisce a uno stato primitivo, liberando gli istinti più bestiali racchiusi nell’amigdala.
Nella prima parte di "Wolf Man" vediamo Blake ragazzino che vive con un padre severo in una casa isolata sperduta tra le montagne dell’Oregon. Sveglia, colazione, selezione dei fucili, caccia nei boschi. Rigide norme e gesti marziali tradiscono la tensione emotiva tra padre e figlio, e il timore del bambino nei confronti di una figura paterna oppressiva e onnipresente. La caccia nei boschi diventa ben presto un primo confronto con il licantropo, un turista disperso da tempo e colpito dalla malattia, che il padre vuole uccidere per difendere l’incolumità del figlio. Tornati a casa, Blake spia il padre mentre parla alla radio con un vicino. Ascolta chiaramente il padre confidare all'interlocutore di aver visto il lupo mannaro e che cercherà in ogni modo di fermarlo.
Ellissi. San Francisco, trent’anni dopo, Blake adulto che accompagna la figlia. La dicotomia è palese tra città e campagna, tra mascolinità marziale e selvaggia e quella urbanizzata con Blake trasformato in un padre amorevole. Il rapporto familiare è ribaltato nei suoi cliché: la donna ha comportamenti carrieristici ed egoisti, mentre l’uomo accudisce la casa e la prole. Dalla parte centrale molto didascalica e un po’ superficiale si passa velocemente a quella finale del viaggio verso la dimora d’infanzia per salvare il matrimonio dei Lovell.
Nel terzo segmento di "Wolf Man" Whannell abbandona totalmente i topoi di pellicole precedenti cercando di rinnovare anche stilisticamente la figura del licantropo. Qui la licantropia è una malattia virale che si trasmette come la rabbia, sfigurando la persona infetta in modo simile alla lebbra: infatti, Charlotte continuerà a dire alla figlia Ginger che il "papà è malato". Il regista innesta anche delle sequenze in soggettiva in cui lo sguardo dello spettatore coincide con quello del licantropo, dove la visione e i suoni sono esplosivi, surreali, con luci stroboscopiche e colori saturi. Un elemento cinematografico che mette in evidenza come la trasformazione in atto in Blake da un lato elimina qualsiasi forma di controllo dei propri sensi che si espandono in un caos sinestetico, dall’altro evidenzia in modo plastico l’incomunicabilità che interviene tra Blake e Charlotte, dove l’uomo perde l’uso della parola e non capisce ciò che dice la donna.
Il meccanismo della tensione e del confronto e scontro tra il vecchio licantropo e Blake come nuovo e tra lui e Charlotte e la figlia Ginger è ben costruito da Whannell, ed è forse l’aspetto migliore di tutta la pellicola, in un redde rationem con i traumi personali di Blake che si tramandando di generazione in generazione.
La sconfitta simbolica del patriarcato
Tornando all’inizio, affrontiamo l’elemento simbolico di "Wolf Man". L’inquadratura dell’incipit in esergo alla narrazione ha un’evidente funzione di presentazione tematica. La stessa scena ricorda quella de "Il mucchio selvaggio" di Sam Peckinpah: lì, uno scorpione è aggredito e sopraffatto da una massa di formiche e un gruppo di bambini divertiti assiste alla scena per poi dare fuoco a tutto. Metafora dell’individuo sopraffatto dalla società contemporanea e dalla malvagità dell’umanità insita nel suo patrimonio genetico che si esprime fin dai giochi dell’infanzia. Una scena simbolica potente che introduce perfettamente l’umore di fondo di tutta la pellicola.
In "Wolf Man", al contrario, questa stessa scena risulta invece un po’ troppo isolata e non amalgamata rispetto alla prima parte del film. Simbolicamente, secondo la mitologia di alcuni popoli africani, le formiche potrebbero raffigurare un’"associazione formicaio-sesso femminile" e la vespa "incarna il potere di sublimazione, di trasfigurazione, di mutazione del profondo in sacro" (Chevalier e Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, 2018).
Partendo da questi presupposti, le formiche sono la rappresentazione del potere del femminino che riesce a eliminare la capacità di trasformazione del maschile rappresentato dalla vespa. Così, nella prima parte di "Wolf Man" c’è l’assenza del femminino e un predominio del mascolino di un vero e proprio patriarcato; nella seconda parte, abbiamo la rappresentazione dei cliché patriarcali con l'inversione tra i ruoli di genere tra uomo e donna; nell’ultima parte la trasformazione del patriarcato sepolto che lotta per riaffermarsi, per poi soccombere definitivamente al femminino che prende coscienza di sé.
La mascolinità tossica rappresentata dal licantropo fa il paio con il controllo dello stalker ne "L’uomo invisibile", proseguendo il discorso critico contro una società maschilista, dove sotto l’apparenza dei modi gentili covano sentimenti feroci e repressi da regole sociali, pronti a riemergere in un ambiente de-urbanizzato e selvaggio.
Ma se nella pellicola precedente Whannell riusciva ad amalgamare i diversi piani narrativi, in "Wolf Man" le due strutture, simbolica e mitologica, non riescono mai a fondersi, rimanendo sempre intellegibili visivamente in modo grossolano. Questo tentativo di trasportare nella contemporaneità l’Uomo Lupo, affrontando temi sociali quotidiani e urgenti, è allo stesso tempo il pregio e il limite maggiore del film che rimane un’occasione mancata, pur riuscendo a trasmettere emozioni orrorifiche con pochi mezzi e un cast ridotto ai minimi termini.
cast:
Christopher Abbott, Julia Garner, Sam Jaeger, Matilda Firth
regia:
Leigh Whannell
titolo originale:
Wolf Man
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
103'
produzione:
Universal Pictures, Blumhouse Productions, Cloak & Co.
sceneggiatura:
Leigh Whannell, Corbett Tuck
fotografia:
Stefan Duscio
scenografie:
Ruby Mathers
montaggio:
Andy Canny
costumi:
Sarah Voon
musiche:
Benjamin Wallfisch