Quando il fenomeno Netflix esplose in Italia si parlò di rivoluzione, di una piattaforma che avrebbe cambiato per sempre la serialità televisiva e lo storytelling contemporaneo, aspetto che non avrebbe potuto non contaminare la Settima arte. Tali riflessioni erano però spesso guidate da una euforia acritica che raramente problematizzava la dialettica tra la funzione del dispositivo e le effettive ricadute artistiche; a distanza di qualche anno possiamo iniziare a trarre qualche conclusione, seppur parziale. Quali sono le novità introdotte da Netflix? Senza dubbio l’istituzionalizzazione del binge watching, ossia l’abbuffata di una serie che si può vedere senza alcuna interruzione poiché gli episodi vengono rilasciati tutti nello stesso momento. La conseguenza più evidente è stata di riavvicinare la singola stagione alla forma-film: ogni stagione diventa un "film lungo" e, al di là delle serie antologiche che non ha inventato Netflix ma Ryan Murphy, cosa sono la prima stagione di "Stranger Things" o di "13 Reasons Why", o le singole delle varie serie Marvel ("Daredevil", "Jessica Jones", "Lukas Cage") se non puntate di film serializzati? Anche al di fuori di Netflix, i mezzi a disposizione e la sagacia tecnica dei collaboratori hanno quasi riunito le forme, tanto che Steven Soderbergh ha realizzato "The Knick", una serie da lui scritta, diretta, montata e fotografata che chiude il suo arco narrativo in venti episodi.[1]
Questo preambolo per affermare cosa? Che quest’atteggiamento produttivo e distributivo non poteva che essere premessa dell’estensione degli interessi di Netflix verso l’industria cinematografica, diventando non solo un competitor nel canale distributivo ma avendo un ruolo sempre più vistoso (e pubblicizzato) in fase creativa. Si pensi, a tal proposito, al finanziamento del prossimo film di Martin Scorsese, "The Irishman" la cui realizzazione non si sarebbe mai concretizzata senza l’acquisizione da parte del colosso americano. Questa politica tra l’altro è già stata adottata con successo da Amazon Studios con film originali ("Chi-Raq" di Spike Lee) e co-acquisizioni di rilievo come gli ultimi film di
Nicolas Winding Refn ("
The Neon Demon"),
Woody Allen ("
Café Society") e James Gray ("
Civiltà perduta").
Per "War Machine" Brad Pitt si è molto speso, co-producendolo con la sua Plan B e interpretando il protagonista, il generale Glen McMahon. Il soggetto proviene dal libro "The Operators" di Michael Hastings e il film è stato scritto e diretto da David Michôd, noto per "
Animal Kingdom" e "
The Rover". Hastings aveva nel 2010 intervistato e seguito per un certo periodo il generale Stanley McChrystal e il suo gruppo di stanza in Afghanistan, avendo in seguito pubblicato il reportage, col titolo "The Runaway General", su
Rolling Stone: l’articolo costrinse il generale a delle pubbliche scuse a cui seguirono le sue immediate dimissioni, accolte dal presidente Obama.
"War Machine" si propone di rielaborare le vicende realmente accadute e trasformarle in una satira al vetriolo non solo contro le forze armate ma, soprattutto, contro le politiche militari americane e il
modo di gestire le guerre. Il verbo "proporsi" non è scelto casualmente: infatti, palese non solo che questa sia la proposta etica ma anche il filo conduttore dell’intero racconto, sostenuto dalla voce narrante che anticipa ciò che lo spettatore potrebbe capire seguendo l’intreccio. Sovviene una scena di "
Adaptation" di Spike Jonze, quando il guru McKee (Brian Cox) avvertiva la sua folla di aspiranti sceneggiatori dicendo "E Dio vi aiuti se usate le voci fuori campo. Dio vi aiuti! Sono sceneggiature flaccide e trasandate": pur non essendo d’accordo a priori con il personaggio creato da Charlie Kaufman, "War Machine" rappresenta un sibillino esempio della suddetta tipologia di script. Di fatto il dettato verbale precede quello visivo, diventando non solo una superflua (e in alcuni casi irritante) didascalia ma avendo un potere predittivo su di esso. L’immagine, cioè, non contraddice mai la parola ma vi si sottomette, limitandosi a illustrare.
Tic e deficienze della galleria di personaggi sono (in)debitamente tratteggiati dal commento fuori campo, il cui carattere denotativo finisce per appiattire la caratterizzazione nel
cul-de-sac di una idiozia priva di vere sfumature. Certo, McMahon è un uomo in buona fede e tutto d’un pezzo, ma considerato il quadro storico in cui si trova ad operare non può che fare la figura del cretino integrale. Infatti, il generale inviato per concludere l’ultima fase della guerra in Afghanistan, prima del ritiro delle truppe, non è tanto un incompetente (perché della sua competenza viene fatta ampia menzione fuori campo), è bensì scollato dalla realtà a causa di un delirio narcisista in cui le proprie idee e strategie militari risultano sempre di livello superiore, naturalmente vincenti. Michôd opta per uno stile di regia conforme alla commedia: campi medi, piani medi, primi piani sulle espressioni forti, macchina da presa che, insieme al montaggio, si muove e sposta il racconto sempre seguendo l’asse portante del film, ossia i personaggi. È un linguaggio che appare televisivo nel senso più deteriore, e ormai superato, del termine poiché, come afferma Luca Malavasi in un suo intervento sulle pagine di
Cineforum, è ormai ovvio, se non banale asserire che serialità televisiva e cinema si somigliano (pur rimanendo entità distinte).
[2] Eppure viene da pensare che la destinazione di questo lavoro abbia inevitabilmente influenzato la sua realizzazione, priva di alcun vigore cinematografico o di fantasia.
Analizzare la relazione tra regia e recitazione, in particolare quella di Brad Pitt, offre una ulteriore chiave critica: il divo americano è il vero mattatore e, invece dell’imitazione fisico-espressivo, si lancia qui in una vera e propria caricatura costruendo una maschera virile, seriosa, piena di spirito di abnegazione e cameratesco; le inquadrature non a caso indugiano sulle espressioni perplesse, sul suo passo spedito e sulla gestualità imperniata rigidamente su movimenti ripetuti in modo ossessivo (la mano sempre aperta tesa ad arpionare lo spazio). I compagni di set seguono il medesimo registro ma, così facendo, i personaggi divengono macchiette prive di spessore, con i quali non si può empatizzare né tanto meno simpatizzare: perdendo una vera carica di umanità la loro cretinaggine è più insulsa che spregevole, è più facile provare pena che rabbia. E la sostanza è che "War Machine" si rivela un film molto più accomodante e tranquillo di quanto le sue intenzioni non vorrebbero far intendere. Considerando anche altre opere targate Netflix, pare, al contrario, che i contenuti sempre messi in primo piano debbano avere il ruolo di scuotere la coscienza dello spettatore: ci si ricordi di "Beasts of No Nation" o del recente "Hell or High Water", entrambi hanno fatto parlare di sé per la storia, per la metafora ma, a distanza di poco tempo (anni o mesi), il ricordo si è già dissolto in una nuvola di fumo. La dimensione politica e il focus critico si fermano sulla soglia delle intenzioni.
Lontano dai
fratelli Coen (la
stupideria ammicca a loro) e da Robert Altman, Michôd ce la mette tutta per disinnescare qualsiasi momento realmente divertente o, perché anticipato, o perché il montaggio non riesce a costruire opposizioni antifrastiche che creino un vero ritmo comico. C’è solo una sequenza fuori asse: è un episodio drammatico in cui si segue un plotone – già visto in precedenza - mentre mette in pratica la missione ideata da McMahon: è forse l’unica sequenza che funziona, sebbene costruita su un teso registro da
war movie cozzante con l’impalcatura data all’opera.
Sorge un dubbio, lecito peraltro: e se questa storia non fosse poi così interessante? Ma forse non è che un prodotto da consumare con la stessa indolenza con cui è stato realizzato: pigramente, sul divano, in un momento di relax.
[1] Allo stesso spirito appartiene anche "The Young Pope" di Paolo Sorrentino, la cui seconda stagione "The New Pope" potrebbe non essere un seguito diretto.
[2] L. Malavasi, Da Fargo a Fargo, in "Cineforum" n. 564, maggio 2017, pp. 67-70.
10/07/2017