Giunta ormai al suo terzo capitolo e arricchitasi nel mentre di numerosi spin-off, la saga di "The Conjuring" si dimostra capace non soltanto di mantenere una certa solidità narrativa, ma addirittura di perfezionarsi di episodio in episodio, schivando in tal modo il luogo comune secondo cui i sequel sarebbero sempre peggiori dell’originale e guadagnandosi al contempo una reputazione via via crescente all’interno del panorama horror contemporaneo.
Nonostante il passaggio della cinepresa dalle mani esperte di James Wan a quelle più maldestre di Michael Chaves facesse temere qualche caduta di stile (senza voler essere pregiudizievoli nei confronti di Chaves, il ricordo di un film come "La Llorona" giustificherà la nostra affermazione di fronte a tutti gli amanti del genere) il risultato oltrepassa le aspettative ponendosi su un livello superiore, da un punto di vista artistico, rispetto ai due precedenti lavori di Wan.
Pur rimanendo totalmente all’interno degli stilemi del cinema di intrattenimento e senza covare intenzioni autoriali, il terzo atto di questa saga demoniaca dimostra infatti una rinnovata cura per quanto concerne gli aspetti estetico-stilistici. Colpisce il livello del montaggio sonoro, che non si costruisce sui classici contrasti tra piano e forte improvviso, forieri di repentini salti sulla sedia (per quanto Chaves non rinunci all’elemento del jump-scare), ma su una composizione di rumori, cigolii e altri suoni sinistri, capace di mantenere una tensione pressoché costante. A innalzare il livello estetico dell’opera è però soprattutto la cura riservata alla fotografia, abile nel bilanciare in maniera encomiabile luci e ombre e nel dosare la pochissima luminosità messa a disposizione dall’atmosfera tetra e notturna. Si gioca molto sui colori, sul contrasto tra un verde-azzurro gelido e un arancione cupo che, lungi dall’evocare il calore dello spazio domestico, richiama piuttosto un senso di perturbante demonico. Michael Burgess, cui è affidata la cinematografia, riesce dunque a trasmettere sensazioni di angoscia e gelo anche utilizzando tonalità calde, generalmente associate a sensazioni positive, senza voler giocare sul contrasto tra piano visivo e piano emotivo (come faceva ad esempio Ari Aster in "Midsommar"), ma operando una vera e propria trasformazione semantica dei colori.
Tra un omaggio a "Psycho" e uno a "Shining", passando per pietre miliari del genere come "L’esorcista", la classica vicenda di possessione demoniaca incrocia qui alcuni meccanismi tipici del thriller, unendo così alla paura la tensione investigativa e accrescendo in tal modo il coinvolgimento dello spettatore.
Ciò in cui l’opera non convince, invece, è la gestione della tematica socio-politica. Il sottotitolo "the devil made me do it" (in italiano tradotto con il meno efficace "per ordine del diavolo"), è tratto infatti dalla testimonianza portata in tribunale dall’omicida americano Arne Johnson, che cercò di difendersi dalle proprie colpe sostenendo di essere stato posseduto dal diavolo. La dichiarazione suscitò grande scandalo al tempo e i coniugi Warren furono chiamati a testimoniare.
In un primo momento il film sembra voler giocare proprio su questo contrasto tra la razionalità della legge e il fenomeno paranormale, salvo poi abbandonare tale interessante traccia per addentrarsi a pieno titolo nel fantascientifico. Certo tale abbandono non inficia il successivo dipanarsi della vicenda, ma lascia un retrogusto amaro in bocca, che si sarebbe potuto evitare.
cast:
Vera Farmiga, Patrick Wilson, Ruairi OConnor, Sarah Catherine Hook, John Noble, Julian Hilliard
regia:
Michael Chaves
titolo originale:
The Conjuring: The Devil Made Me Do It
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
112'
produzione:
New Line Cinema, The Safran Company, Atomic Monster Productions
sceneggiatura:
David Leslie Johnson-McGoldrick
fotografia:
Michael Burgess
scenografie:
Lisa Son
montaggio:
Peter Gvozdas, Christian Wagner
costumi:
Leah Butler
musiche:
Joseph Bishara