Riguardo al franchise del cosiddetto ConjuringVerse vi sono tre certezze fondamentali. Prima: che ogni film sia un successo economico monumentale, almeno decuplicante i costi di produzione, con campagne marketing incessanti ma non troppo invadenti. Seconda: che gli unici film degni di una qualche attenzione sono stati per il momento quelli diretti dal funambolo James Wan. Terza: che tutte le fuoriuscite dall’ambientazione matrice della saga, quella degli Usa 70s provinciali e medio-borghesi costretti fra tendenze restauratrici e adesione alle istanze di progresso, hanno prodotto i risultati meno invidiabili del brand (come il recente, e tremendo, “The Nun”). Potrà l’esordiente Michael Chaves con la sua storia di seconde generazioni latino-americane e spettri folklorico-cattolici riuscire a rinsaldare la prima certezza e stravolgere le altre due? Spoiler: sì, con qualche evidente riserva.
Queste ultime riguardano sia il come si rapporta “La Llorona” coi due succitati dogmi che la sua riuscita stricto sensu, dato che Chaves si pone saldamente sulla scia della regia esuberante e manierista fino alla libido (o alla nausea, a seconda dei fetish di ognuno) di Wan, imitandone gli stilemi (prologhi briosi e stilisticamente elaborati, costruzione dei jump scare chirurgica, sonoro centrale ma in fondo banalizzato, etc…) con maggiore efficacia dei registi che l’hanno preceduto. Similmente il cineasta non rinuncia all’ambientazione settantiana ma la sviluppa in uno dei suoi luoghi più iconici, ovvero Los Angeles, tanto luminosa all’inizio quanto sempre più cupa (come la Londra di “The Conjuring 2”) man mano che il film procede (apprezzabile, per quanto poco originale, la progressiva desaturazione della fotografia). In maniera non dissimile il mestiere e l’etnia della protagonista sono funzionali a un maggiore approfondimento del contesto storico e sociale, il quale resta in realtà a sua volta di pura maniera, per quanto il milieu non-WASP sia comunque una boccata d’aria fresca per la saga (e un’arma in più nelle mani dei promoter, diretti e indiretti).
Difatti tutto l’ambaradan latino tirato in ballo nella seconda metà del film non è altro che efficace e scenico folklore, seppur con maggiore consapevolezza rispetto alla Romania da videoclip black metal anni 90 del film precedente, confluente nell’ennesima celebrazione della fede cristiana (e, sempre più stranamente, delle sue istituzioni e credenze) che questa saga fantasy-horror religiosa ha reso sua caratteristica principale dal punto di vista tematico. “La Llorona” si può quindi considerare un film riuscito nella misura in cui espande, sia a livello narrativo che di riferimenti, l’universo narrativo del franchise rimanendo fedele ai suoi fondamenti in maniera molto più ortodossa di quanto voglia far credere inizialmente. La scontatezza degli onnipresenti, per quanto non mal dosati, jump scare, la banalizzazione di tematiche che potrebbero essere state fruttifere di nuovi spunti (ad esempio il rapporto con le proprie radici culturali da cui ci si è allontanati, oppure la maternità, cui al riguardo ha detto molto di più, pur nella sua parziale riuscita, “La madre” di Andrés Muschietti) e la rappresentazione ossequiosa all’immaginario di riferimento non inficiano la riuscita di un film horror ma ne pregiudicano significativamente la possibilità di distinguersi all’interno di questo macrogenere che pare non conoscere crisi.
Si può pertanto parlare de “La Llorona” come di un non-esperimento piuttosto riuscito, nonché un passo avanti nella costruzione del ConjuringVerse, dato che dimostra la capacità del regista, già assunto per dirigere il terzo capitolo della saga eponima, e quindi porre le basi per il suo avvenire senza James Wan, autoconfinatosi alla produzione dopo la sua definitiva conversione all’action ad altissimo budget. Considerando la sceneggiatura che sperpera i molti spunti del concept e il reparto tecnico di qualità ma sempre più anonimo ciò che rende questo sesto film del franchise valido sono in primis l’efficace regia di Chaves, la cui lunga gavetta nel genere tramite corti e episodi televisivi ha di certo dato i suoi frutti nello svilupparsi rapido e ben ritmato della manifestazioni dello spettro, e le interpretazioni di buona parte degli attori, a riprova della particolarità del brand all’interno dell’affollato panorama horror succitato. Creare una serie del genere di cui il cast (si pensi al ruolo di Vera Farmiga nei “The Conjuring”) e la ricchezza della regia sono due dei selling element principali non perlomeno peculiare e dimostra l’importanza di Wan nel cinema mainstream coevo, ma anche la strumentalità di “The Curse of La Llorona” (tra l’altro il sottotitolo italiano garantisce come sempre un utilizzo randomico del sintagma “del male”) in questo mercato di ecosistemi narrativi e amenità simili, in cui ogni film è solo l’omogeneo tassello di un vasto mosaico, un mirabolante entry point a esperienze in fin dei conti spesso banali. Ah sì, se siete impressionabili può fare anche abbastanza paura.
cast:
Linda Cardellini, Raymond Cruz, Patricia Velazquez, Tony Amendola, Sean Patrick Thomas, Roman Christou, Jaynee-Lynne Kinchen, Marisol Ramirez
regia:
Michael Chaves
titolo originale:
The Curse of the Llorona
distribuzione:
Warner Bros. Pictures
durata:
93'
produzione:
New Line Cinema, Atomic Monster Productions
sceneggiatura:
Mikki Daughtry, Tobias Iaconis
fotografia:
Michael Burgess
scenografie:
Melanie Jones
montaggio:
Peter Gvozdas
costumi:
Megan Spatz
musiche:
Joseph Bishara