Quiapo è una delle tante bidonville che da sempre hanno costituito l’altra faccia del nostro pianeta. Quella meno nota, forse, ma non per questo meno meritevole di entrare nella storia della settima arte. Fu Lino Brocka ad iniziare nelle Filippine quel genere cinematografico che potremmo definire sociale, ovvero di denuncia delle condizioni di estremo disagio socioeconomico delle degradate periferie del cosiddetto terzo mondo.
Nel film "Slingshot", il regista Brillante Mendoza compie rispetto al succitato conterraneo un’operazione estetico-formale rilevante sotto diversi punti di vista, estremizzando la dirompenza iconica del messaggio di denuncia. Innanzitutto per una grammatica di regia assolutamente originale perché pressochè priva di punteggiatura: senza sosta, incalzanti e a tratti frenetiche, le immagini non danno tregua allo spettatore, il quale è come immerso negli stretti vicoli della baraccopoli, dove indigenza, indifferenza, crudeltà, nudità e disperazione sono il pane quotidiano di una umanità in cui i singoli personaggi (Odie, Caloy, Leo e Rex) paiono disciolti e assorbiti come sali privi di una loro specifica costitutività. Le loro esistenze sono intercambiabili e rappresentano per sineddoche una condizione generale, né dal punto di vista narratologico ha senso fare ricorso alle tradizionali categorie legate ai ruoli: in una realtà nella quale tutti fanno del furto e del raggiro l’unico modo per sbarcare il lunario, chi può essere l’eroe? E chi l’antagonista? È solo di fronte alla morte e alla malattia che i personaggi sembrano appropriarsi di un tratto di singolarità distintiva, ad esempio quando un bambino telefona con volto smarrito alla madre per comunicare la morte del padre. Ma si tratta di istanti, di sequenze transitorie al termine delle quali si ritorna nella coazione a ripetere.
In questa entropia valoriale ben poco possono i momenti fondanti delle società organizzate, la religione e la politica: alla prima si fa riferimento unicamente nella conclusione della pellicola, quando la processione del Nazareno Nero coinvolge anche gli abitanti della bidonville, mentre della seconda si fa menzione quando, in occasione di una tornata elettorale, si formano diverse code di persone in attesa di esprimere il proprio voto, consce che all’interno della scheda troveranno anche un compenso economico. Religione e politica sono come degli ospiti, quando non degli intrusi, in un microcosmo abbandonato a se stesso, fisicamente separato dal resto della città: non ci sono dolly che elevino lo sguardo e alimentino aspirazioni negli abitanti di Quiapo. L’occhio della telecamera è sempre delimitato da strettoie, barriere lamierate, canali, fogne a cielo aperto, mura. Si può dire che per gli abitanti di Quiapo tutto ruoti attorno alla baraccopoli. La rappresentazione fisica di tale realtà è di tipo centripeto: quando i loro abitanti se ne allontanano lo fanno solo per commettere furti nelle zone limitrofe e ritornare con o senza bottino. Rappresentazione centripeta nel rapporto con gli spazi, cui corrisponde l’introversione e il ripiegamento etico.
Le scelte di ripresa e montaggio determinano un punto di vista e uno sguardo oggettivo, impersonale, ma assolutamente interno alla vicenda: è interessante notare come lo spettatore, con l’occhio della cinepresa, penetra le vite di ciascuno finendo per convivere in un ambiente nel quale non esiste praticamente alcuna forma di privacy, giacchè la concentrazione umana e lo stile di vita sono tali che si viene a sapere tutto di tutti. Ciò che però più contraddistingue la grammatica di regia del film è il passaggio dal segmento narrativo di un personaggio a quello di un altro, ottenuto decostruendo il concetto tradizionale di protagonista. Per la fotografia, alla quale hanno collaborato ben quattro direttori, la scelta è caduta su colori desaturati e sul seppiato, una palette che ci restituisce l’essenza cromatica del fango, elemento naturale per il tipo di ambientazione e allo stesso tempo metaforico.
Lo stile narrativo di Mendoza è decisamente documentaristico, forse squilibrato e troppo privo di punti di riferimento per chi apprezza Wes Anderson, ma riuscito per lo scopo che si prefigge: pura denuncia sociale, senza la benchè minima traccia di virtuosismo. Da registrare, tra l’altro, la perfetta saldatura tra la vicenda narrata e il background delle immagini di repertorio della festa religiosa di cui si diceva sopra. Quella di Slingshot è un’estetica dell’immediatezza che tende a superare la distinzione tra documentario e film di finzione. Se si vuole istituire un paragone con opere altrettanto singolari sotto questo punto di vista, come "Donbass" di Sergeij Loznitsa e "Collective" di Alexander Nanau, il film di Mendoza è a metà strada tra i due, poiché rispetto al primo è privo tanto di un evidente filo rosso nella costruzione dell’intreccio quanto dell’intellettualismo metacinematografico del regista russo, mentre rispetto al secondo, pur constando anche di immagini di repertorio, tradisce col montaggio le caratteristiche del racconto di finzione. Caratteristica comune è invece il bando assoluto di ogni forma di voce narrante. In conclusione, presentare al FEFF di Udine un autore capace, nel corso della sua carriera, di suscitare aspre critiche, come per "Serbis" (2008), ma di ottenere anche la palma per la migliore regia a Cannes, nel caso di "Kinatay" (2009), può essere un modo per riproporre un dibattito non solo cinematografico con uno sguardo che contempli realtà lontane da quelle europee.
cast:
Jiro Manio, Coco Martin, Kristoffer King, Nathan Lopez
regia:
Brillante Mendoza
titolo originale:
Tirador
durata:
86'
produzione:
RollingBall Entertainment, Ignatius Film Canada
sceneggiatura:
Ralston Jover
fotografia:
Jeffrey Dela Cruz, Brillante Mendoza, Gary Tria, Julius Palomo Villanueva
montaggio:
Charliebebs Gohetia
musiche:
Teresa Barrozo