Che il cinema filippino sia tra i più importanti e vitali sulla piazza non ci piove, basta considerare le sinfonie fluviali di Lav Diaz o le rielaborazioni storiche del giovane Raya Martin. Il prolifico Brillante Mendoza, accolto da alcuni anni nei principali festival internazionali e ivi pluripremiato, è sicuramente tra i nomi di punta di questa cinematografia emergente. Che poi il successo di critica sia così meritato è altra questione; anzi l'approccio alla sua opera restituisce la sensazione di autore tanto talentuoso quanto, a una complessiva valutazione dei risultati conseguiti, non del tutto all'altezza delle potenzialità espresse.
Prendiamo questo "Serbis", film del 2008 presentato in concorso a Cannes 61. Già dalla prima sequenza destano impressione le capacità di contestualizzazione e di sintesi del cineasta filippino. La ragazzina Jewel si guarda allo specchio autopalpandosi con voluttà, la macchina da presa insiste con sguardo al limite della pedofilia (non sappiamo l'età della giovane) sulle sue parti intime, uno stacco introduce un'inquadratura più ampia in cui compaiono sullo sfondo alcune icone cristiane (l'amore sacro e l'amor profano: siamo in una realtà cattolica quanto peccaminosa), un infante spia colei che è la sua "tata" (innocenza di fronte a lascivia: il bambino farà capolino altre volte in situazioni analoghe).
Gradualmente il film svela con maestria la propria ambientazione: un cinema porno a conduzione familiare con annesso ristorante, in cui campeggiano scritte prescrittive ("vietati gli atti osceni", "vietato urinare") ma sono consentite la prostituzione (il "servizio" cui si riferisce il titolo) e la promiscuità più totale. Lo stile documentaristico del regista, che fa ampio uso del montaggio interno e amplifica i rumori in presa diretta, colpisce per la capacità di catturale la realtà circostante; e da questo punto di vista, Mendoza farà ancora meglio nel successivo "
Kinatay".
Cosa non convince, allora, del suo cinema? Intanto appare di maniera la scelta sistematica di soggetti "bassi". Nel caso specifico "Serbis" è stato il canonico film-scandalo del concorso di Cannes, data l'audacia delle sequenze erotiche (una fellatio è reale, almeno un'altra scena è particolarmente realistica). Lo sguardo sul tema finisce anche con l'essere morboso nel suo squadernare un ampio ventaglio di variazioni, dallo pseudopedofilia all'omosessualità all'incesto. In rapida serie ci imbattiamo nel sesso sullo schermo del cinema, tra gli spettatori, sulle locandine e dietro le quinte. Quando nel locale giunge poi una comitiva di "checche" (testuale), ci chiediamo se stiamo assistendo a un teatrino farsesco.
Altro limite del film è la volontà di dire troppo. E' calzante la riflessione metacinematografica sull'etica dello sguardo (l'effetto pellicola che brucia nell'inquadratura finale anticipata dalla sequenza altrettanto straniante della capra che irrompe in sala), molto meno la riflessione sulla crisi etica, istituzionale e sociale delle Filippine contemporanee.
Il riferimento è al racconto del processo al patriarca della famiglia, accusato dalla moglie di avere una famiglia parallela, difeso da tutti i figli, assolto da un giudice cui l'accusatrice prestava la massima fiducia. Il tutto è fuori campo, in ossequio all'unità di luogo perseguita da Mendoza, che vuol fare del locale in cui si svolge il racconto un microcosmo che racchiude tanti mali del mondo. Vediamo solo l'avvocato dell'accusa poiché giunge in loco per incontrare l'assistita ed è giustamente caratterizzato con beffarda ironia.
Anello di congiunzione tra le due tematiche, la crisi dell'industria-cinema, con i protagonisti cui è rimasta un'unica sala delle tre che avevano e che sono costretti ad indebitarsi per onorare gli assegni emessi.
In breve, "Serbis" non sfugge a una serie di potenziali accuse. Scarsa focalizzazione, per il suo toccare di sfuggita a talvolta in modo puramente pretestuoso innumerevoli sottotemi (c'è anche il dramma pregresso di un figlio morto). Bozzettismo e macchiettismo: il campionario di personaggi e situazioni sembra a tratti quello di un circo. Iperrealismo morboso e gratuità: non bastasse il proliferare di immagini erotico-pornografiche, Mendoza si sofferma anche sull'orrendo foruncolo del giovane Alan, per dirne una. Moralismo e ipocrisia: il succitato sguardo innocente del bambino al cospetto di un mondo di peccatori, lo sfogo estemporaneo e decontestualizzato di Nayda - uno dei personaggi centrali - che lamenta di svolgere una simile attività malgrado un diploma da infermiera. È questo il cinema moderno di cui abbiamo bisogno? Ci meritiamo di meglio, forse.
24/06/2012